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Rime del Berni 54-56

Post n°1260 pubblicato il 22 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

54

Capitolo in laude d'Aristotele

Non so, maestro Pier, quel che ti pare
di questa nuova mia maninconia,
che io ho tolto Aristotele a lodare.
Che parentado o che genologia
questo ragionamento abbia con quello,
ch'io feci l'altro dì, della moria,
sappi, maestro Pier, che quest'è 'l bello:
non si vuol mai pensar quel che si faccia,
ma governarsi a volte di cervello.
Io non trovo persona che mi piaccia,
né che più mi contenti che costui:
mi paion tutti gli altri una cosaccia,
che f-rno inanzi, seco e dopo lui,
e quel vantaggio sia fra loro appunto
ch'è fra il panno scarlatto e i panni bui,
quel ch'è fra la quaresima e fra l'unto,
ché sai quanto ti pesa, duole e incresce
quel tempo fastidioso, quando è giunto,
ch'ogni dì ti bisogna frigger pesce,
cuocer minestre e bollire spinaci,
stringer melanze sin che 'l succo n'esce.
Salvando, dottor miei, le vostre paci,
io ho detto ad Aristotele in secreto,
come il Petrarca: "Tu sola mi piaci".
Il qual Petrarca avea più del discreto,
in quella filosofica rassegna,
a porlo inanzi, come 'l pose drieto.
Costui, maestro Piero, è quel che insegna,
quel che può dirsi veramente dotto
e di vero saper l'anime impregna;
che non imbarca altrui senza biscotto,
non dice le sue cose in aria al vento,
ma tre e tre fa sei, quattro e quattro otto.
Ti fa con tanta grazia un argumento,
che te lo senti andar per la persona
fin al cervello e rimanervi drento.
Sempre con sillogismi ti ragiona
e le ragion per ordine ti mette;
quella ti scambia che non ti par buona.
Dilèttasi di andar per le vie strette,
corte, diritte, per fornirla presto,
e non istà a dir: "L'andò, la stette".
Fra li altri tratti Aristotele ha questo,
che non vuol che gl'ingegni sordi e loschi
e la canaglia gli meni l'agresto.
Però par qualche volta che s'imboschi,
passandosi le cose di leggiero,
e non abbia piacer che tu 'l conoschi.
Ma quello è con effetto il suo pensiero:
se gli è chi voglia dir che non l'intende,
làscialo cicalar, ché non è il vero.
Come falcon che a far la preda intende,
che gira un pezzo suspeso su l'ali,
poi di cielo in un tratto a terra scende,
così par ch'egli a te parlando cali
e venga al punto, e, perché tu l'investa,
comincia dalle cose generali
e le squarta e minuzza e trita e pesta,
ogni costura e buco gli ritrova,
sì che scrupolo alcuno non ti resta.
Non vuol che l'uomo a credergli si mova
se non gli mette prima il pegno in mano,
se quel che dice in sei modi no 'l prova.
Non fa proemii inetti, non in vano:
dice le cose sue semplicemente
e non affetta il favellar toscano.
Quando l'incorre a parlar della gente,
parla d'ogniun più presto ben che male;
poco dice d'altrui, di sé niente,
cosa che non han fatto assai cicale,
che, volendo avanzarsi la fattura,
s'hanno unto da sua posta lo stivale.
E` regola costui della natura,
anzi è lei stessa; e quella e la ragione
ci ha posto inanzi a gli occhi per pittura.
Ha insegnato i costumi alle persone:
la felicità v'è per chi la vuole,
con infinito ingegno e discrezione.
Hanno gli altri volumi assai parole,
questo è pien tutto e di fatti e di cose
e d'altro che di vento empir ci vuole.
O Dio, che crudeltà, che non compose
un'operetta sopra la cucina,
fra l'infinite sue miracolose!
Credo che la sarebbe altra dottrina
che quel tuo ricettario babbuasso,
dove hai imparato a far la gelatina;
che ti arebbe insegnato qualche passo,
più che non seppe Apicio né Esopo,
d'arrosto, lesso, di magro e di grasso.
Ma io che fo, che son come quel topo
ch'al leon si ficcò dentro all'orecchia
e del mio folle ardir m'accorgo dopo?
Arreco al mondo una novella vecchia,
bianchezza voglio aggiungere alla neve
e metter tutto il mare in poca secchia.
Io che soglio cercar materia breve,
sterile, asciutta e senza sugo alcuno,
che punto d'eloquenzia non riceve;
e che sia il ver, va', leggi ad uno ad uno
i capitoli miei, ch'io vo' morire
se gli è suggetto al mondo più digiuno.
Io non mi so scusar se non con dire
quel ch'io dissi di sopra: e' son capricci
ch'a mio dispetto mi voglion venire,
come a te di castagne far pasticci.



55

Capitolo del debito

Quanta fatica, messer Alessandro,
hanno certi filosofi durata,
come dir, verbigrazia, Anassimandro
e Cleombroto e quell'altra brigata,
per dichiararci qual sia 'l sommo bene
e la vita felice alma e beata!
Chi vuol di scudi aver le casse piene;
chi stare allegro sempre e far gran cera,
pigliando questo mondo com'e' viene:
andar a letto com'e' si fa sera,
non far da cosa a cosa differenzia,
non guardar più la bianca che la nera.
Questa hanno certi chiamata indolenzia,
ch'è, messer Alessandro, una faccenda,
che l'auditor non v'ha data sentenzia:
vo' dir ch'io credo che la non s'intenda;
voi chiamatela vita alla carlona,
qua è un che n'ha fatto una leggenda.
Un'altra opinion, che non è buona,
tien che l'imperador e 'l prete Ianni
sien maggior del torrazzo di Cremona,
perché veston di seta e non di panni,
son spettabili viri, ogniun gli guarda,
son come fra gli uccelli i barbagianni.
E fu un tratto una vecchia lombarda
che credeva che 'l papa non fuss'uomo,
ma un drago, una montagna, una bombarda;
e, vedendolo andare a vespro in duomo,
si fece croce per la maraviglia:
questo scrive uno istorico da Como.
Dell'altra filosofica famiglia
sono intricati più, dico, gli errori,
ch'una matassa quando si scompiglia.
Vergilio disse che i lavoratori
starebbon ben, s'egli avessin cervello,
se fussin del lor ben conoscitori;
ma questo alla sentenzia è stran suggello:
è come dare inanzi intero un pane
a chi non abbia denti né coltello.
Chi vuol che le persone sien mal sane
dice che lo studiar ci fa beati
e la scienzia delle cose strane;
e qui gridan le regole de' frati,
che danno l'ignoranzia per precetto
e non voglion che mai libro si guati.
Non è mancato ancor chi abbi detto
gran ben del matrimonio e de' contenti
che son nel marital pudico letto.
Questo amo io più che tutti i miei parenti
e dico che lo starvi è cosa santa,
ma senza compagnia, non altrimenti.
Son queste opinion più di novanta;
son tante, quanti gli uomini, le vite
e sempre ogniun l'altrui celebra e canta;
ma fra le più stimate e reverite
è, per detto d'ogniun, quella de' preti,
perch'egli han grandi entrate e poche uscite.
Or tacete, filosofi e poeti;
voi, Svetonio e Platina e Plutarco,
che scriveste le vite, state cheti:
lasciate dir a me, che non imbarco
e son in questo così buono autore,
stato per dir, come san Marco.
Più bella vita al mondo un debitore,
fallito, rovinato e disperato,
ha che 'l gran turco e che l'imperatore.
Questo è colui che si può dir beato:
in tutto l'universo ove noi stiamo
non è più lieto e più tranquillo stato.
E perché paia che noi procediamo
con le misure in mano e con le seste,
prima quel che sia debito vediamo.
Debito è far altrui le cose oneste,
come dir ch'a' più vecchi si conviene
trar le berette et abbassar le teste;
adunque far il debito è far bene
e quanto è fatto il debito più spesso,
tanto questa ragion più lega e tiene.
Or fatto il presupposito e concesso
che 'l debito sia opra virtuosa,
le consequenzie sue vengon appresso.
Ha l'anima gentile e generosa
un uom ch'affronti e faccia stocchi assai:
è uom da fargli fare ogni gran cosa.
Non ebbe tanto cuore Ercole mai,
né que' che vanno in piazza a dare al toro,
sbricchi, sgherri, barbon, bravi, sbisai.
O teste degne d'immortale alloro,
ma più delle carezze e de' rispetti
e delle feste che son fatte loro!
Non è tal carità fra' più diletti
figliuoli e padri, e fra moglie e marito,
e s'altri son fra sé di sangue stretti.
E` più accarezzato e più servito
un debitor da chi ha aver da lui
che se del corpo fuor gli fusse uscito:
non par che tenga memoria d'altrui.
Andate a dir ch'un avaraccio boia
abbia le belle grazie c'ha costui:
anzi non è chi non brami che muoia,
tanto è perseguitato e mal voluto,
tanto l'han proprio i suoi figliuoli a noia.
Un debitore è volentier veduto,
mai non si truova che nulla gli manchi,
sempre alle spese d'altri è mantenuto.
Guardate un prete, quando va per Banchi,
che sberettate egli ha da ogni canto,
quanta gente gli è sempre intorno a' fianchi.
Questo è colui che si può dare il vanto
di vera fama e di solida gloria,
quel ch'è canonizzato come un santo.
Non ha proporzione annale o istoria
con gli autentichi libri de' mercanti,
che son la vera idea della memoria;
e costor vi son drento tutti quanti,
e quindi tratti a farsi più immortali.
E' son dipinti su per tutti i canti:
voi vedete certi abiti ducali,
fatti con orpimento e zafferano,
con lettere patenti di speziali.
E sarà tal che prima era un cristiano,
che si farà più noto a questo modo
che non è Lancilotto né Tristano.
Un debitor, ch'è savio, dorme sodo;
fa sonni che così gli facess'io!
Par che bea papaveri nel brodo.
Disse un tratto Alcibiade a suo zio,
ch'avea di certi conti dispiacere:
"Voi sète pazzo, per lo vero Dio!
Lasciatevi pensare a chi ha avere,
o qualche modo più presto trovate,
ch'i creditor non gli abbino a vedere".
Vo' dir per questo, se ben voi notate,
che se i debiti ad un metton pensiero,
si vorria dargli cento bastonate.
Vedete, Caccia mio, s'io dico il vero,
ché il peggio che gli possa intervenire
è l'esserne portato com'un cero.
Voi vedete il bargello a voi venire
con una certa grazia e leggiadria,
che par che voglia menarvi a dormire;
né so, quand'io veggo un che vada via
con tanta gente da lato e d'intorno,
che differenzia a lui dal papa sia.
Poi, forse che lo menano in un forno?
Sèrronlo a chiave in una forte rocca,
com'un gioiel di molte perle adorno.
Come egli è giunto, ogniun la man gli tocca,
ogniun gli fa carezze e accoglienze,
ogniun per carità lo bacia in bocca.
O gloriose Stinche di Firenze,
luogo celestial, luogo divino,
degno di centomila riverenze:
a voi ne vien la gente a capo chino,
e prima che la vostra scala saglia,
s'abbassa in su l'entrar dell'usciolino;
a voi nessuna fabbrica s'agguaglia:
sète più belle assai che 'l culiseo,
o s'altra a Roma è più degna anticaglia;
voi sète quel famoso Pritaneo,
dove teneva in grasso i suoi baroni
el popol che discese da Teseo;
voi gli tenete in stia come i capponi,
mandate il piatto lor publicamente,
non altrimenti che si fa a' lioni.
Com'uno è quivi, è giunto finalmente
a quello stato ch'Aristotel pose,
che 'l senso cessa e sol opra la mente.
Voi fate anche le genti industriose:
chi cuce palle, chi lavora fusa,
chi stecchi e chi mille altre belle cose;
non vi ha né l'ozio né 'l negozio scusa,
l'uno e l'altro ricapito vi truova,
di tutti duoi v'è la scienzia infusa.
S'alla città vien qualche buona nuova,
voi sète quasi le prime a sapella:
par che corrieri addosso il ciel vi piova.
E qui si sente un romor di martella,
di picconi e di travi, per mandare
libero ogniun in questa parte e 'n quella.
Ma s'io vi son, lasciàtemivi stare;
di questa pietà vostra io non mi curo,
a pena morto me ne voglio andare.
Non so più bel che star drento ad un muro,
quieto, agiato, dormendo a chiusi occhi,
e del corpo e dell'anima sicuro.
Fate, parente mio, pur de gli stocchi;
pigliate spesso a credenza, a 'nteresse,
e lasciate ch'a gli altri il pensier tocchi,
ché la tela ordisce un, l'altro la tesse.



56

Capitolo di Gradasso

Voi m'avete, signor, mandato a dire
che del vostro Gradasso un'opra faccia:
io son contento, io ve voglio ubedire.
Ma s'ella vi riesce una cosaccia,
la vostra signoria non se ne rida
e pensi ch'a me anco ella dispiaccia.
Egli è nella Poetica del Vida
un verso, il qual voi forse anco sapete,
che così a gli autor moderni grida:
"O tutti quanti voi che componete,
non fate cosa mai che vi sia detta,
se poco onor aver non ne volete;
non lavorate a posta mai né in fretta,
se già non sète sforzati e constretti
da gran maestri e signori a bacchetta.
Non sono i versi a guisa de farsetti,
che si fanno a misura, né la prosa,
secondo le persone, or larghi or stretti.
La poesia è come quella cosa
bizzarra, che bisogna star con lei,
che si rizza a sua posta e leva e posa".
Dunque negarvi versi io non potrei,
sendo chi sète; e chi li negarebbe
anco a Gradasso mio, re de' pigmei?
Che giustamente non s'anteporrebbe
a quel gran serican che venne in Francia
per la spada d'Orlando e poi non l'ebbe?
Costui porta altrimenti la sua lancia:
non pesarebbe solo el suo pennacchio
la stadera dell'Elba e la Bilancia.
Con esso serve per ispaventacchio,
anzi ha servito adesso in Alamagna,
a turchi, ad altri: io so quel ch'io mi gracchio.
E` destro, snello, adatto di calcagna
a far moresche e salti; non è tale
un grillo, un gatto, un cane et una cagna:
in prima il periglioso e poi il mortale;
non ha tante virtù ne' prati l'erba
betonica quante ha questo animale.
La ciera verde sua brusca et acerba
pare un viso di sotto, quando stilla
quel che nel ventre smaltito si serba.
La sua genealogia chi potria dilla?
Io trovo ch'egli uscì d'un di quei buchi
dove abitava a Norcia la Sibilla.
Suo padre già faceva i porci eunuchi
e lui fé dottorar nel berrettaio
per non tenerlo in frasca come i bruchi.
Nacque nel duo di qua dal centinaio,
et è sì grande ch'io credo che manchi
poca cosa d'un braccio a farli un saio.
Se si trovava con la spada a i fianchi
quando i topi assaltaron li ranocchi,
egli era fatto condottier de i granchi.
E certo li somiglia assai ne gli occhi
e nella tenerezza della testa,
che va incontro alle punte de li stocchi.
M'è stato detto di non so che festa
che voi gli fate quando egli è a cavallo,
se così tosto a seder non s'appresta:
fate dall'altra banda traboccallo
s'a capo chino; e par che vadi a nozze,
sì dolce in quella parte ha fatto il callo.
Così le bestie non diventon rozze,
ché ve le mena meglio assai ch'a mano,
e parte il gioco fa delle camozze;
un certo gioco, ch'i' ho inteso, strano,
che si lascion le matte a corna innanzi
cader da gli alti scogli in terra al piano.
State cheti, poeti di romanzi;
non mi rompa la testa Rodomonte,
né quel Gradasso ch'io dicevo dianzi;
Buovo d'Antona e Buovo d'Agrismonte
e tutti i paladin farebbon meglio,
poi che sono scartati, andare a monte.
Questo è della Montagna el vero Veglio,
questo solo infra tutti pel più grasso
e dirò molto e pur sarà niente.
Questo è quel fiume che pur or si manda
fuora e quel mar che crescerà si forte
che il mondo allagherà da ogni banda.
Non se ne son ancor le genti accorte
per la novella età, ma tempo ancora
verrà, ch'aprir farà le chiuse porte.
E se le stelle che 'l vil popol ora
(dico Ascanio, San Giorgio) onora e cole,
oscura e fa sparir la vostra aurora,
che spererem che debbia far il sole?
Beato chi udirà dopo mill'anni
di questa profezia pur le parole.
Dirò di quel valor che mette i vanni
e potria far la spada e il pastorale
ancora un dì rifare i nostri danni,
e far tacere allor quelle cicale,
certi capocchi satrapi ignoranti,
che la vostra virtù commenton male;
genti che non san ben da quali e quanti
spiriti generosi accompagnato
l'altr'ier voleste a gli altri andare inanti;
dico oltre a quei che sempre avete allato,
ché tutta Italia con molta prontezza
v'arìa di là dal mondo seguitato.
Questo vi fece romper la cavezza
e della legazion tutti i legacci,
tanto da gentil cor gloria s'apprezza!
Portovvi in Ungheria fuor de' covacci,
sì che voi sol voleste passar Vienna,
voi sol de' turchi vedeste i mostacci.
Questa è la storia che qui sol s'accenna,
la lettera è minuta che si nota,
da poi s'estenderà con altra penna;
e mentre il ferro a temprarla s'arruota,
serbate questo schizzo per un pegno,
fin ch'io lo colorisca e lo riscuota:
che se voi sète di tela e di legno
e di biacca per man di Tiziano,
spero ancor'io, s'io ne sarò mai degno,
di darvi qualche cosa di mia mano.

 
 
 
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