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Rime del Berni 52-53

Post n°1254 pubblicato il 22 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

Rime di Francesco Berni

52

CAPITOLO PRIMO DELLA PESTE

Non ti maravigliar, maestro Piero,
s'io non volevo l'altra sera dare
sopra quel dubbio tuo giudizio intero,
quando stavamo a cena a disputare
qual era il meglior tempo e la più bella
stagion che la natura sappi fare,
perché questa è una certa novella,
una materia astratta, una minestra
che non la può capire ogni scudella.
Cominciano e poeti dalla destra
parte dell'anno e fanno venir fuori
un castron coronato di ginestra;
copron la terra d'erbette e di fiori,
fanno ridere il cielo e gli elementi,
voglion ch'ogniun s'impregni e s'inamori;
che i frati, allora usciti de' conventi,
a' capitoli lor vadano a schiera,
non più a dui a dui, ma a dieci e venti;
fanno che 'l pover asin si dispera,
ragghiando dietro alle sue inamorate;
e così circonscrivon primavera.
Altri hanno detto che gli è me' la state,
perché più s'avvicina la certezza
ond'abbiano a sfamarsi le brigate;
si batte il gran, si sente una dolcezza
de' frutti che si veggono indolcire,
dell'uva che comincia a farsi ghezza,
che non si può così per poco dire;
son que' dì lunghi, che par che s'intenda
per discrezion che l'uom debba dormire;
ha tempo almen di farla, chi ha faccenda;
chi non ha sonno, faccenda o pensieri,
per non peccare in ozio, va a merenda,
o si mette dinanzi un tavolieri,
incontro al ventolin di qualche porta,
con un rinfrescatoio pien di bicchieri.
Son altri c'hanno detto che più importa
averla inanzi cotta che vedere
le cose insieme onde si fa la torta,
e però la stagion che dà da bere,
ch'apparecchia le tavole per tutto,
ha quella differenzia di piacere
che l'opera il disegno, il fiore e 'l frutto;
credo che tu m'intenda, ancor che scuro
paia de' versi miei forse il construtto.
Dico che questi tai voglion maturo
il frutto, e non in erba; avere in pugno,
non in aria l'uccel, ch'è più sicuro:
però lodan l'ottobre più che 'l giugno,
più che 'l maggio il settembre, e con effetto
anch'io la lor sentenzia non impugno.
Non è mancato ancor chi abbia detto
gran ben del verno, allegando ragioni:
ch'allor è dolce cosa stare in letto;
che tutti gli animali allor son buoni,
infino a' porci, e fansi le salcicce,
cervellate, ventresche e salciccioni;
escono in Lombardia fuor le pellicce,
crèsconsi li pennacchi alle berette
e fassi il Giorgio con le seccaticce;
quel che i dì corti tolgon si rimette
in altrettante notti: stassi a vegghia
fino a quattro ore e cinque e sei e sette;
adoprasi in quel tempo più la tegghia
a far torte, migliacci et erbolati,
che la scopetta a Napoli e la stregghia.
Son tutti i tempi egualmente lodati,
hanno tutti essercizio e piacer vario,
come vedrai tu stesso, se lo guati;
se guati, dico, in su 'l tuo breviario,
mentre che di' l'ufficio e cuoci il bue
dipinto a dietro a pie' del calendario;
chi cuoco ti parrà, come sei tue,
e chi si scalda e chi pota le vigne,
chi va con lo sparvier pigliando grue,
chi imbotta il vin, chi la vinaccia strigne:
tutti i mesi hanno sotto le sue feste,
com'ha fantasticato chi dipigne.
Or piglia tutte quante insieme queste
oppenioni e tien che tutto è baia,
a parangon del tempo della peste.
Né vo' che strano il mio parlar ti paia,
 83né ch'io favelli, anzi cicali, a caso,
come s'io fossi un merlo o una ghiandaia;
io voglio empirti fino all'orlo il vaso
dell'intelletto, anzi colmar lo staio,
e che tu facci come san Tomaso.
Dico che, sia settembre o sia gennaio
o altro, a petto a quel della moria,
non è bel tempo che vaglia un danaio;
e perché vegghi ch'io vo per la via
e dotti il tuo dover tutto in contanti,
intendi molto ben la ragion mia.
Prima, ella porta via tutti i furfanti:
gli strugge e vi fa buche e squarci drento,
come si fa dell'oche l'ognisanti.
E fa gran bene a cavarli di stento:
in chiesa non è più chi ti urti o pesti
in su 'l più bel levar del sacramento.
Non si tien conto di chi accatti o presti:
accatta e fa' pur debiti, se sai,
ché non è creditor che ti molesti;
se pur ne vien qualch'un, di' che tu hai
doglia di testa e che ti senti al braccio:
colui va via senza voltarsi mai.
Se tu vai fuor, non hai chi ti dia impaccio,
anzi ti è dato luogo e fatto onore,
tanto più se vestito sei di straccio.
Sei di te stesso e de gli altri signore,
vedi fare alle genti i più strani atti,
ti pigli spasso dell'altrui timore.
Vìvesi allor con nuove leggi e patti,
tutti i piaceri onesti son concessi,
quasi è lecito a gli uomini esser matti.
Buoni arrosti si mangiano e buon lessi;
quella nostra gran madre vacca antica
si manda via con taglie e bandi espressi.
Sopra tutto si fugge la fatica,
ond'io son schiavo alla peste in catena,
ché l'una e l'altra è mia mortal nemica.
Vita scelta si fa, chiara e serena:
il tempo si dispensa allegramente
tutto fra il desinare e fra la cena.
S'hai qualche vecchio ricco tuo parente,
puoi disegnar di rimanergli erede,
pur che gli muoia in casa un solamente.
Ma questo par che sia contra la fede,
però sia detto per un verbigrazia,
ché non si dica poi: "Costui non crede".
Di far pazzie la natura si sazia,
perché in quel tempo si serran le scuole,
che a' putti esser non può maggior disgrazia.
Fa ogniun finalmente ciò ch'e' vuole:
dell'alma libertà quell'è stagione,
ch'esser sì cara a tutto 'l mondo suole.
E` salvo allor l'avere e le persone:
non dubitar, se ti cascassin gli occhi,
trova ogniun le sue cose ove le pone.
La peste par ch'altrui la mente tocchi
e la rivolti a Dio: vedi le mura
di san Bastian dipinte e di san Rocchi.
Essendo adunque ogni cosa sicura,
questo è quel secol d'oro e quel celeste
stato innocente primo di natura.
Or se queste ragioni son manifeste,
se le tocchi con man, se le ti vanno,
conchiudi e di' che 'l tempo della peste
è 'l più bel tempo che sia in tutto l'anno.



53

CAPITOLO SECONDO DELLA PESTE

Ancor non ti ho io detto della peste
quel ch'io dovevo dir, maestro Piero,
non l'ho vestita dal dì delle feste;
et ho mezza paura, a dirti il vero,
ch'ella non si lamenti, come quella
che non ha avuto il suo dovere intero.
Ell'è bizzarra e poi è donna anch'ella;
sai tutte quante che natura ell'hanno:
voglion sempre aver piena la scudella.
Feci di lei quel capitolo uguanno
e, come ho detto, le tagliai la vesta
larga e pur mi rimase in man del panno,
però de' fatti suoi quel ch'a dir resta,
con l'aiuto di Dio, si dirà ora;
non vo' ch'ella mi rompa più la testa.
Io lessi già d'un vaso di Pandora,
che v'era dentro il cancaro e la febbre
e mille morbi che n'usciron fuora.
Costei le genti che 'l dolor fa ebbre
saetterebbon veramente a segno;
le mandano ogni dì trecento lebbre,
perché par loro aver con essa sdegno;
dicon: "Se non s'apriva quel cotale,
non bisognava a noi pigliare il legno".
In fin, questo amor proprio ha del bestiale
e l'ignoranza, che va sempre seco,
fa che 'l mal bene e 'l ben si chiama male.
Quella Pandora è un vocabol greco,
che in lingua nostra vuol dir òtutti doni';
e costor gli hanno dato un senso bieco.
Così sono anche molte oppenioni,
che piglian sempre al riverso le cose:
tiran la briglia insieme e dan de sproni.
Piange un le doglie e le bolle franciose,
perché gli è un pazzo e non ha ancor veduto
quel che già messer Bin di lor compose:
ne dice un ben che non saria creduto;
leggi, maestro Pier, quella operetta,
ché tu arai quel mal, se non l'ha' avuto.
Non fu mai malattia senza ricetta:
la natura l'ha fatte tutt'e due:
ella imbratta le cose, ella le netta.
Ella trovò l'aratol, ella il bue,
ella il lupo, l'agnel, la lepre, il cane,
e dette a tutti le qualità sue;
ella fece l'orecchie e le campane,
fece l'assenzio amaro e dolce il mèle,
e l'erbe velenose e l'erbe sane;
ella ha trovato il buio e le candele,
e finalmente la morte e la vita,
e par benigna ad un tratto e crudele.
Par, dico, a qualche pecora smarrita:
vedi ben tu che da lei non si cava
altro che ben, perch'è bontà infinita.
Trovò la peste perché bisognava:
eravamo spacciati tutti quanti,
cattivi e buon, s'ella non si trovava,
tanto multiplicavano i furfanti;
sai che nell'altro canto io messi questo
fra i primi effetti della peste santi.
Come si crea in un corpo indigesto
collora e flegma et altri mali umori,
per mangiar, per dormir e per star desto,
e bisogna ir del corpo e cacciar fuori
(con riverenza) e tenersi rimondo
com'un pozzo che sia di più signori,
così a questo corpaccio del mondo,
che per esser maggior più feccia mena,
bisogna spesso risciacquare il fondo;
e la natura, che si sente piena,
piglia una medicina di moria,
come di reubarbaro o di sena,
e purga i mali umor per quella via;
quel che i medici nostri chiaman crisi
credo che appunto quella cosa sia.
E noi, balordi, facciam certi visi,
come si dice: "La peste è in paese!";
ci lamentiam, che par che siamo uccisi,
che dovrebbemo darle un tanto al mese,
intertenerla come un capitano,
per servircene al tempo a mille imprese.
Come fan tutti i fiumi all'oceàno,
così vanno alla peste gli altri mali
a dar tributo e basciarle la mano;
e l'accoglienze sue son tante e tali
che di vassallo ogniun si fa suo amico,
anzi son tutti suoi fratei carnali.
Ogni maluzzo furfante e mendico
è allor peste o mal di quella sorte,
com'ogni uccel d'agosto è beccafico.
Se tu vuoi far le tue faccende corte,
avendosi a morir, come tu sai,
muori, maestro Pier, di questa morte:
almanco intorno non arai notai
che ti voglin rogare il testamento,
né la stampa volgar del "come stai",
che non è al mondo il più crudel tormento.
La peste è una prova, uno scandaglio,
che fa tornar gli amici ad un per cento:
fa quel di lor che fa del grano il vaglio,
ché quando ella è di quella d'oro in oro,
non vale inacetarsi o mangiar l'aglio.
Allor fanno li amanti i fatti loro:
vedesi allor s'egli stava alla prova
quel che dicea: "Madonna, io spasmo, io moro";
che se l'ammorba et ei la lasci sola,
s'e' non si serra in conclavi con lei,
si dice: "E' ne mentiva per la gola".
Bisogna che gli metta de' cristei,
sia spedalingo e facci la taverna;
e son poi grazie date dalli dèi.
Non muor, chi muor di peste, alla moderna:
non si fa troppo spesa in frati o preti,
che ti cantino il requiem eterna.
Son gli altri mali ignoranti e indiscreti:
corrono il corpo per tutte le bande;
costei va sempre a' luoghi più secreti,
come dir quei che copron le mutande
o sotto il mento o ver sotto le braccia,
perch'ell'è vergognosa e fa del grande.
Non vòl che l'uom di lei la mostra faccia:
vedi san Rocco com'egli è dipinto,
che per mostrar la peste si dislaccia.
O sia che questo mal ha per istinto
ferir le membra ov'è il vital vigore
et è da loro in quelle parti spinto,
o veramente la carne del core,
il fegato e 'l cervel gli den piacere,
perch'ell'è forsi di razza d'astore;
questo problema debbi tu sapere
che sei maestro e intènditi di carne
più che cuoco del mondo, al mio parere.
E però lascio a te sentenzia darne:
so che tu hai della peste giudicio
e cognosci li storni dalle starne.
Or le sue laudi sono un edificio,
che chi lo vuol tirare infino al tetto
arà facenda più che a dir l'officio
non hanno i frati de san Benedetto;
però qui di murar finirò io,
lasciando il resto a miglior architetto.
E lascio a te, maestro Piero mio,
questo notabilissimo ricordo,
che la peste è un mal che manda Dio;
e chi crede altramente egli è un balordo.

 
 
 
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