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Il Meo Patacca 05-3

Post n°1253 pubblicato il 22 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

"Il Meo Patacca, ovvero Roma in feste ne i trionfi di Vienna" di Giuseppe Berneri

Titolo completo e frontespizio: Il Meo Patacca ovvero Roma in Feste ne i Trionfi di Vienna. Poema Giocoso nel Linguaggio Romanesco di Giuseppe Berneri Romano Accademico Infecondo.
Dedicato all'Illustriss. et Eccellentiss. Sig. il Sig. D. Clemente Domenico Rospigliosi. In Roma, per Marc'Antonio & Orazio Campana MDCXCV. Con licenza de' Superiori.

Fu quell'attizza foco e razza indegna,
Dico Calfurnia, dico, eh'alle coste
Me se mette importuna, e che disegna,
Ch'io v'habbia da fa' stane alle batoste;
In un tanto sproposito m'impegna,
Con me facenno el conto senza l'oste;
Ma prima me fa crede, 'sta frabbutta,
Che voi dissivo a Nuccia e vecchia e brutta".

"Non accurr'altro no", Cencio riprese,
"La verità assai ben s'è conosciuta;
Calfurnia fu, ch'a 'sta maniera crese
Di vendicarzi della spinta havuta:
Marco Pepe il perdon di già vi chiese,
E pe' faglielo havè, Cencio s'aiuta,
Lo spera, e sa che lo concederete,
Se tutta garbataggine voi sete".

MEO PATACCA la fece allor da grande,
Piacevole si mostra con sussiego:
"A meritevolissime domande
D'un caro amico, - disse, - ecco mi piego.
Simile a un animai, che magna jande
Fu 'sto poltrone in tel guerresco impiego,
Et io penzato havevo di sventrarlo,
Ma sol pe' vostro amor lasso di farlo.

Senti poi tu, quel, che da te pretenno,
- Dice voltato a Marco Pepe, - e penza
Ch'è tua grolla ubbidir, che giù te stenno",
Se ce fai gnente gnente resistenza:
Che Nuccia mo' vadi a trovane, intenno
Et haverai di Cencio l'assistenza;
La verità sapè tu glie farai,
Che brutta e vecchia io non glie dissi mai.

Noto sia di Calfurnia a lei l'inganno,
Sappia da te quel che costei t'ha detto;
Che quest'attione i pari miei non fanno
Di maltrattane chi gli porta affetto;
Che s'a quella credè, sarà su' danno,
E s'ardì poi di perdermi il rispetto,
Con farmi una bruttissima creanza,
Ch'io più l'ami ha d'havè poca speranza.

E tu sappi alla fin, che ti perdono
La sfacciata insolenza che mostrasti,
Solo in grazia di Cencio, e ti fo dono
Della sferra, ch'in preda a me lassasti:
Fortuna havesti, e dettene de bono,
Ch'a 'sto mio grand'amico t'appoggiasti;
Senza lui, pe' le cose che m'hai fatte,
Ci annavi a fè ci annavi pe' le fratte.

Solo in riguardo suo ti lasso vive,
Se no te la sonavo assai di breve,
Che con le bone, e no co' le cattive
Da me piacer o grazia si riceve;
Ma non penzà, ch'io più te voglio scrive
Tra li mi' sgherri, che menà non deve
Un comannante 'sti ciafèi là dove,
Senza fuggì, s'intosta a fa' gran prove".

"Come commanna, Lei sarà servita",
Rispose Marco Pepe, et un inchino
Fece, ch'arrivò il capo a mezza, vita,
Nelle spalle stregnennosi el meschino:
"La vostra volontà s'è già sentita -
Ripigliò Cencio, - io puro a voi m'inchino".
Lui disse: "A rivedecce capitano"
E Marco Pepe a MEO basciò la mano.

Spariscono costoro come un lampo,
E doppo resce MEO, che gira attorno,
Pe' fa' sapè, che la comparza in campo
Da fa' s'haveva in tel seguente giorno.
Ecco s'infronta in un gustoso inciampo
D'un, che teneva molta gente intorno:
Stava costui facenno a 'sta brigata,
Di due tamburri al son la bandierata.

Questa è 'na certa festa, che la fanno
Innanzi alle lor case i bottegari,
E mentre uno sta in mezzo sbandieranno,
La gente ce se fenna a piedi pari.
Tocca ad ogn'arte una sol volta l'anno,
Questi per ordinario Macellari,
Pizzicaroli sono, Osti, Erbaroli,
Fornari, Ciammellari, e Fruttaroli.

Piglia un di loro in te la strada el posto,
L'asta della bandiera acchiappa e stregne;
Fan largo i riguardanti, e van discosto,
Stanno in circolo, e l'un l'altro poi spegne;
Suol'esser questo un giovane disposto,
Ch'habbia imparato a maneggià l'insegne;
Chalch'un ce fa gran studio, e se ne tiene,
Perchè riesce a maraviglia bene.

'Sta sorte di bandiera si fa solo
Di taffettano e di più teli uniti.
Larga e longa a misura d'un lenzolo;
So' i teli in bianchi e rosci scompartiti.
Colui, ch'è qui nel mezzo, è un tal Fasciolo:
Fa l'ortolano, et assai ben vestiti
Con lui sono i compagni, et è sol questa
La causa, ch'in quel giorno è la lor festa.

Ecco già si stambura a più potere
Giusto d'un erbarolo innanzi al banco;
Affollato sta il popolo a vedere,
Mentre Fasciolo tiè la mano al fianco.
Doppo, con sfarzosissime maniere,
Perchè in tel fa' questi esercizi è franco,
Per onorà di tutti la presenza,
Glie fa con la bandiera riverenza.

Stesa a mezz'aria poi la sventolicchia;
Hor con la punta al popolo un assalto
Finge di dare, all'asta hor l'avviticchia,
E attorcinata poi, la butta in alto;
L'incontra, la ripiglia, la sviticchia,
L'abbassa, e su ce zompa con un salto;
Hor la gira con furia, hora pian piano,
Hor la butta dall'una all'altra mano.

PATACCA osserva, e non se move gnente,
Ma sol, come succede a genti guappe,
In drento al petto el cor se gli risente
De tamburri battuti al tippe tappe.
Di farzi amico gli è venuto in mente,
E appiccicasse come fan le lappe
A questo tal, che sbandierà qui vede;
Gli vuò chiede un servizio gli vuò chiede.

Fasciolo la bandiera ancor non lassa,
Maneggianno la va com'una penna,
Mò de sotto alle gamme se la passa,
Mò fa, che sopra 'l capo si distenna;
Alla fin poi, mentre ch'in giù l'abbassa,
Tutti saluta, et a un compagno azzenna,
Che venga innanzi, e mentre fora scappa,
Glie la tira, e colui lesto l'acchiappa.

MEO, che vede la festa esser finita,
Largo si fa tra quei martufi e grisci,
Ch'erano attorno, e spara assai compita
Una cerimoniata allor suisci:
"Sete, - dice, - un gran homo, et applaudita
La virtù vostra è stata da nostrisci:
Ve voglio esser amico, e saperete
Chi è 'sto fusto, e gran gusto ci haverete".

"Oh signor MEO PATACCA! ve so' schiavo;
- Disse Fasciolo, - io già ve conoscevo,
Ma a dirla giusta non m'arrisicavo
De fa' con voi, quello che fa' dovevo;
So, che tra sgherri voi sete il più bravo,
Di venirvi a trovà gran voglia havevo;
So ch'annate alla guerra, e se sentivo,
Che per me c'era loco, io ci venivo".

"Vi stimo, - dice MEO, - m'havete cera
D'un giovane de garbo, e v'ho per tale.
Già m'accorci, ch'in voi spirito c'era
Che non sete uno sgherro dozzinale:
Mi bisogna, pe' dilla, 'sta bandiera,
Dell'istessa, e di voi fo capitale;
Et assai più vostrodine m'onora,
Se mi fa havè li tamburrini ancora.

Domani doppo pranzo el mi' squadrone
Farà in Campo Vaccino la gran mostra;
Perchè sia tutta scialo 'sta funzione
Ci manca solo la perzona vostra;
Appena v'allampai, che con raggione
Incrapicciato el genio mio si mostra,
Già che pratico sete del mestiero,
D'havervi in detto giorno per alfiero.

Se inverso VIENNA poi marcià volete,
Ci haverò gusto ci haverò più assai,
E la carica vostra riterrete,
Nè quest'onor vi sarà tolto mai".
"M'haverete fidele, m'haverete,
- Fasciolo risponnè, - ch'io già penzai,
S'a tempo lo sapevo, da me stesso,
Chiedervi quel, ch'a me chiedete adesso.

Verrò alla guerra e con me ancor verranno
Li tamburrini, che costoro vònno
Quel che vogl'io, perchè a mi' modo fanno,
E a me non pònno contradì non pònno.
Con noi 'sto viaggio volentier faranno,
Che ci hanno gusto di girane el monno;
Hor mentre, del favor grazie vi renno,
Obrigo me con loro al vostro cenno".

Fu di PATACCA allor tale il contento,
Che gonfio non capiva in te la pelle;
De fatto te gli dà l'appuntamento,
E li essorta a venì con foggie belle.
Ma all'improviso la bandiera attento
Guarda e fa certe smorfie, e certe quelle,
Che Fasciolo, ch'osserva si stordisce,
E perchè così faccia non capisce.

Alfin dice PATACCA: "O quanta guazza Chi
contro l'altri ogn'hor l'ingegno aguzza
A noi darà, con dir: Che gente pazza!
Ci vuò fa' tanta vernia e tanta puzza,
Poi tiè nella bandiera, che svolazza,
Una rapa dipinta e 'na cucuzza.
Ben fa vede, ch'è a baronate avvezza,
Se per arme 'sta robba ricapezza.

Ma zitto! c'è rimedio. Ecco sentite,
Di fa' quel ch'io vi dico non v'increschi;
Con carte gialle e roscie ricropite
'Sti cibbi grossolani ortolaneschi;
Di questi in scammia siano qui sculpite
L'insegne di noi altri romaneschi,
Che so' cose civili, e no villane,
Fionne, rocci, stortini, e dorindane".

"Il non farlo sarìa gran pregiudizio,
- Disse Fasciolo, - a fè', che non me sazio
Di far apprauso al vostro gran giudizio,
E dell'avvertimento vi ringrazio.
Un certo amico mi farà el servizio,
Che dipigne, e si chiama Scotifazio;
Però tempo non c'è da star in ozio,
Mò me la sbatto ad aggiustà 'l negozio".

Assai piacque a Patacca 'sta risposta,
E 'l discorzo fu allor così fornito.
Si spartirno, e si dettero la posta
Di trovarzi in tel loco stabbilito.
Va quello dal pittor, va MEO de posta
Di gente maiorenga a fa' l'invito,
Ch'havè prauso da questa, e busca insieme
Chalche aiuto di costa assai gli preme.

Hor mentre è intento a 'st'opera onorata,
Nuccia un'altra ne fa poco civile;
Resce de casa sua tutta infoiata,
Mena Tuzia con sé, com'è 'l su' stile.
Va per far a Calfurnia una piazzata,
E peggio ancora, pe' sfogà la bile,
Che glie rosica el cor, perchè gli è nota,
Quella che lei piantò grossa carota.

Già Marco Pepe e Cencio in compagnia,
Per ubbidir a MEO, che glie l'impose,
A Nuccia fatt'havevano la spia
Di quello, che la ciospa a lei suppose;
Par ch'una furia scatenata sia,
Che vada in prescia in prescia a fa' gran cose;
Di Calfurnia alla porta alfin arriva,
E giusto per uscir costei l'apriva.

La spegne Nuccia, e rentra de potenza
Lì dove a piana terra c'è una stanza;
Ma però dice Tuzia: "Co' licenza",
Pe' non parè de fa' mala creanza.
Hebbe Calfurnia allor tanta temenza,
Cognoscenno, di Nuccia alla baldanza,
Che haveva in testa calche sghiribizzo,
Ch'addosso glie venì gran tremolizzo.

Ma Nuccia potenziuta fa un cert'atto
A 'sta vecchia ribalda, di dispetto,
Perchè entrata con impeto, de fatto
Slarga la mano, e glie la dà in tel petto.
Colei strillanno dice: "E che v'ho fatto?
Sapete pur, quanto vi porto affetto;
Questa mi par, che stravaganza sia,
Con me, che havete gnora Nuccia mia?".

"Ecco se che cos'ho, tò, piglia, e impara,
Busciarda! a mette male tra le genti",
Quella così glie dice, e colpi spara
Di spallate, di pugni, e sciacquadenti.
Meglio che pò, Calfurnia si ripara,
Ma non fa già, che i sganassoni allenti
Nuccia, che perticona e assai forzuta
Li ridoppia, e continua la battuta.

"Aiuto! ahimè! - grida colei, - che fate
Monna Tutia? perchè non ci spartite?"
Questa si mette in mezzo. "Oh via! fermate
Signora Nuccia! - dice, - e me sentite,
Voi già a bastanza glie n'havete date,
È troppo, se con lei più v'infierite.
È vero in quanto, che raggione havete,
Ma poi stroppia per questo la volete?".

Vedenno ch'il piglialla con le bone
Gnente giova, e che lei più s'inasprisce,
Intrattenè la vuò, ma uno spintone
Glie dà Nuccia, e così te la ciarisce.
Va Tutia abbasso, co' 'no stramazzone,
Che longa stesa giù la sbalordisce.
Più allor Nuccia s'infuria, e fa la sgherra.
Et a Calfurnia casca il core in terra.

Poi pell'osso del collo te la piglia,
Gli fa abbassa la gnucca, e glie la torce,
Par, che voglia strozzalla, e rassomiglia
Giusto una gatta, ch'aggranfiato ha il sorce.
Te glie straccia la scuffia e la scapiglia;
Per uscirglie di man, quella si storce,
E tanto fa, che scivola e glie scappa,
Ma per li ciurli allor Nuccia l'aggrappa.

O mò ci ha dato, o mò ce so' de guai,
Perchè 'sta giovenotta risoluta,
Glie fa alla peggio, e glie li tira assai,
E già una fezza in man glie n'è venuta,
Glie dà botte spietate. "E che farai?",
Grida la ciospa, e come può s'aiuta,
E le vendette fa de i pugni e schiaffi,
Con pizzichi, con mozzichi, e co' sgraffi.

Nuccia si scioglie allor peggio di prima,
Se gl'avventa alla vita, e al muro stretta,
Quì 'l capo glie vuò sbattere, e la grima
Di restà sfragassata, già s'aspetta.
Perchè così gran impeto reprima,
Tutia alzatasi alfin, curre all'infretta,
Nè potenno con altro, con la voce,
Procura di placà Nuccia feroce.

Ma non per questo già costei si stacca,
E mentre più s'aggruma e più s'ammucca,
Alla ciospa, in resistere assai fiacca,
Glie fa in te la muraglia urtà la gnucca;
In vede, ch'in pistalla non si stracca,
S'intontisce la vecchia mammalucca,
Ma sazia Nuccia alfin, più non la tocca,
E te la fa restà come un'alocca.

Ma tra c'ha l'occi gonfi et ammaccati,
E sguerci, e piagnolosi, e spauriti,
Tra che i capelli, che glie so' restati,
Glie l'ha già lo spavento interrezziti.
Per esser questi poi tutti impicciati,
E corti, e setolosi, e incanutiti;
Tra che la faccia è scolorita e biega,
Più non pare una donna, ma una strega.

Nuccia intanto le scuffie si riaggiusta,
E il capo ancor, che s'era tutta sconcia
Con tanto maneggiarzi, e no glie gusta
L'uscir così sciattona, e si riacconcia.
Parte con Tutia, e una vendetta giusta
Crede havè fatta, e quella vecchia moncia
Resta a sfogane el su' dolor col pianto,
Et io mo' glie la sono, e lasso il canto.

Fine del Quinto Canto.

 
 
 
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