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Il Meo Patacca 05-2

Post n°1246 pubblicato il 22 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

"Il Meo Patacca, ovvero Roma in feste ne i trionfi di Vienna" di Giuseppe Berneri

Titolo completo e frontespizio: Il Meo Patacca ovvero Roma in Feste ne i Trionfi di Vienna. Poema Giocoso nel Linguaggio Romanesco di Giuseppe Berneri Romano Accademico Infecondo.
Dedicato all'Illustriss. et Eccellentiss. Sig. il Sig. D. Clemente Domenico Rospigliosi. In Roma, per Marc'Antonio & Orazio Campana MDCXCV. Con licenza de' Superiori.

Così fa un debbitor, che va fuggenno
Da i perfidi bireni, scivolanno,
L'incontro di costoro assai temenno,
Si va di tanto in tanto rivoltanno.
El grugno inzino al naso va cropenno,
D'esse fermato sempre sospettanno,
E se chalchun sente discurre a sorte,
Gli par, che dica a lui: "Ferma, la Corte! "

Marco Pepe a 'sto modo, insospettito
Scarpina, e fa' vorria con MEO la pace;
Stima d'ogn'altro poi miglior partito,
Perzona havè, che sia mezzo efficace.
Sa, che tra i dieci sgherri el favorito
Di quello è Cencio, giovane vivace,
D'uno spirito granne, et assai pronto,
E che MEO gli vuò bene, e ne fa' conto.

Lo cerca, lo ricerca, alfin lo trova.
Perchè amico è d'un pezzo, gli confida
El travaglio fierissimo, che prova
Pe' causa sol della passata sfida.
Però lo prega, ch'a pietà se mova
Del su' spavento, e che non se ne rida,
Che se lui non l'aiuta, MEO PATACCA
Gli rapre il petto, o 'l cocuzzòl gli spacca.

Gli fa sapè gli fa, che fu un pretesto
Lo sfidà MEO per esser commannante,
Che pretennuto non havria mai questo,
Sapenno le su' prove e tali e tante.
Gli fece, il fine ch'hebbe, manifesto,
Che sol fu di servine a Nuccia amante,
Che d'un sbeffo, che MEO fatto gli haveva,
Voleva vendicassene voleva.

Ancor gli disse poi, che sospettava
De Calfurnia, che s'era intramettata
Per fagli fa' 'sta rissa, e dubitava,
Che colei te l'havesse impasticciata,
Perchè spacciò, che MEO dicenno annava,
Nuccia esser brutta, e nell'età avanzata.
Poi, per un certo affronto gli confessa,
Che la vendetta fa' volze lei stessa.

Conchiude alfin, ch'a MEO far voglia intennere.
Ch'è pronto a domannagli perdonanza
Dell'ardir, ch'hebbe in tel volè pretennere
D'havè commanno in guerra e patronanza.
Che la saracca poi gli voglia rennere,
Che non havrà mai più tant'arroganza
Di farci con suisci el bell'umore,
Ma sempre gli sarà bon servitore.

Cencio, perch'è cortese, e quanto affabile,
Quanto garbato sia non è credibbile,
Gli dice: "Il caso è a fè' considerabbile,
Ma per voi voglio fa' tutto el possibbile:
Io so, che MEO PATACCA è assai trattabile,
Però spero el negozio riuscibbile.
Benchè sia, come noi, di schiatta ignobbile,
Pure ha un cor generoso e un genio nobbile".

Marco Pepe in sentillo si rincora,
E gl'incominza a ritornà la cera
Già perza in tel duello, e da quell'hora
Il suo solito brio più in lui non era.
Animo gli fa Cencio, e questo allora
Tanto più si consola, e molto spera;
Hor dunque a trovà MEO vanno costoro,
E fa' castelli in aria ogn'un di loro.

Stava PATACCA in casa imbarazzato
Pe' negozio, ch'a lui molto premeva,
Perchè s'era già 'l tempo avvicinato,
Nel quale in Campo a comparì s'haveva.
Un vestito che fusse assai sforgiato
A nolo pe' quel dì piglià voleva:
Diverzi un cert'ebreo glie ne mostrava,
Lui fra tutti el meglior capanno stava.

Hor questi hor quello si metteva in prova,
Spogliato d'un, dell'altro si vestiva;
Al fine uno a proposito ne trova
Stretto alla vita, quanto ci capiva:
"Ingàinate ch'è de robba nova",
L'ebreo diceva. "Giusto giusto arriva,
Par fatto addosso a voi, ve parlo schietto,
Più belli robbi a' fè non ha lo Ghetto.

Havete gran fortuna, uno Signore
Non po' meglio porta. Guardàti poi
Li trini d'oro, i mostri, il bel colore,
Se de più se po' fa, ditelo voi.
È proprio de monà 'sto giustacore,
Un'altro non ce n'è tra tutti i goi".
Così gli dà pastocchie, e tavarimme,
Per esse dritto assai lo Jaccodimme.

In questo mentre su Cencio salisce",
Ma non già Marco Pepe, c'ha paura,
E s'a fa' pace MEO non s'ammollisce,
D'annaglie in faccia lui non s'assicura.
Cencio quanto più pò lo compatisce,
Va da PATACCA, e con disinvoltura
Dando in prima un'occhiata a quell'ebbreo,
Dice: "La riverisco signor MEO".

"Oh! Ben venuto Cencio! Ho propio gusto"
Disse Patacca, "di quì havervi adesso:
Allampate un po' in grazia, se va giusto
Quest'abbito, che in prova me so' messo?
Che, se co' 'sto bacurre il prezzo aggiusto,
Che de famme piacere m'ha impromesso,
A nolo me lo piglio pe' dimane,
Che la comparza in Campo s'ha da fane".

Squatra Cencio la giubba, e attorno gira
Coll'occhiate, facennone rivista,
E quanto più l'osserva, e più la mira,
S'accorge tanto più, che fa gran vista.
Perchè l'ebreo non tenga alta la mira,
La sprezza, e dice: "È un'abbito d'artista,
È assai zacchenne, e c'è più d'un difetto".
Ma però in tanto a MEO fece l'occhietto.

Finta fa questo allor che non gli piaccia,
Perchè di Cencio il gergo ben intenne;
Assai presto da dosso se lo caccia,
Quasi nol voglia, et al giudio lo renne.
Allor si costui fece agra la faccia,
Ma tanto disse: "Che volete spenne?
'Sto signori de grazia me perdoni,
Questi, per vita mia, so' robbi boni".

Hor doppo c'hanno taccolato un pezzo,
Pe' più non fa' de st'abbiti strapazzo,
Perchè in realtà PATACCA non c'è avvezzo
De fàne "in te lo spennere schiamazzo,
Si piglia, ma di tutto aggiusta il prezzo,
Un abbituccio ancor per un ragazzo,
Perchè in Campo Vaccino, e no in tel viaggio,
Di Mi' Signore vuò tirà col paggio.

Per sè pur Cencio allor se n'accaparra
Uno, che gli dia giusto in tell'umore,
Perchè ogni sempre tra la gente sbarra
Fu solito costui di farzi onore.
Pe' fa' compariscenza assai bizzarra,
S'è capato un vistoso giustacore;
In gala, solo a MEO ceder intenne,
Ma più d'ogn'altro sverzellà pretenne.

Hor dunque, dato termine al contratto,
Se ne tornò lo Jaccodimme al Ghetto;
Ogn'un delli due sgherri è sodisfatto,
Ch'a giusto prezzo fu 'l partito stretto.
Brillano pel negozio, che s'è fatto,
D'havè a fa' scialo in campo hanno diletto;
Benchè questo sarà nel giorno appresso,
Pur col penzier ci fanno vernia adesso.

Ma intanto Cencio fa' vorria el servizio
A Marco Pepe, che de fora aspetta,
E perchè cosa longa piglia vizio,
Lui cerca di spicciassene con fretta:
Pe' dà principio, e pe' passà l'offizio",
Gli par già tempo, che a parlà se metta.
Perchè in tel cocuzzolo ha gran ciervello,
Nel discorzo così rentra bel bello.

"Signor MEO! Mi rallegro tanto tanto,
Et un gusto grannissimo ne sento,
Che havesse poi con vostra grolia e vanto,
Quel gran duello, un così bon evento.
E poi me ne congratulo altrettanto,
Che senza sangue fu 'l combattimento;
Basta il roscior, ch'hebbe fuggenno el vinto,
Nè importa, se non è di sangue tinto.

E poi, pe' dire il vero, è compatibbile
Marco Pepe il meschino, et è scusabbile;
Seppe che voi con tutto l'irascibbile
Faceste a Nuccia ingiuria assai notabbile.
In quanto a me, ciò non mi par credibbile,
Perchè so, ch'in amor voi sete stabbile,
E sareste, sprezzannola, volubbile,
Con trattarla da vecchia in età nubbile.

Stimò d'esse obrigato alla vendetta,
Perchè amante la spera, e pe' 'sta cosa
Venne a fa' quella sfida maledetta,
Che gli riuscitte poi si' vergognosa.
Cercanno hora il perdon, la dice schietta,
Nè vuò, che sia la verità nascosta:
Chiese in guerra el comanno, ma fu questo,
Pe' venire alle brutte un sol pretesto.

Ha però in capo lui chalche suspetto,
Che questa di Calfurnia opera sia.
Che voi Nuccia ingiuriassivo, l'ha detto
A lui stesso, et è certo una buscìa.
Ch'abbia voluto far a voi dispetto,
Io chalche cosa ci scommetterìa,
Perchè 'sta grima, non ci mette gnente
Co' i su' riggiri a inzampognà la gente".

Stava PATACCA col penzier sospeso,
Tenenno in Cencio le lanterne fisse;
E come, che di quanto haveva inteso
Facesse un caso granne, così disse:
"Da Marco Pepe assai me ciamo offeso,
Che a squarcionà con me costui venisse;
Dirò, che non fu solo balordaggine,
Ma ancora un'insolente sfacciataggine.

Parlo pe' verità, non già da scherzo,
Un gran gastigo merita el su' sfarzo;
È ver, che in campo lui l'onor ha perzo,
Benchè con sverniarìa ce sia comparzo;
Pur doveria sonagliela pel verzo,
Et affogallo in tel su' sangue sparzo,
Ma sol per amor vostro oggi mi sforzo,
D'intrattener alla mi' rabbia el corzo.

Chalche dubbio ho però, mò che ci penzo,
Che l'habbia quella griscia ingarbugliata,
Perchè una certa spinta, a lei gran senzo
Glie fece, che da me quì gli fu data;
E quanto più a 'sta cosa ci ripenzo,
Più me cresce el suspetto, ma salata
Gli ha da costà, giuro a Baccone giuro,
Se di chalche su' imbroglio io m'assicuro".

"Da Marco Pepe, - disse Cencio, - il vero
Sapè potrete, ch'è rimasto in strada,
Se voi vi contentate, come spero
E ve ne prego, ch'a chiamarlo io vada.
In qua con me è venuto con penziero
De chiedeve il perdono, e la su' spada.
Si confida in nostrodine, e si crede
Ch'io 'sta grazia da voi pozza intercede".

Rispose Meo: "Di già m'ero ammannito
Di dagli presto più solenne un pisto;
Che s'una volta è lui da me fuggito,
Se l'altra gli riusciva haveria visto.
Dissi, ch'el ferro mai ristituito.
Non gli saria, se non ne fa l'acquisto,
Ma bigna, ch'io me plachi a i vostri preghi:
A chi merita assai, gnente si neghi".

"Già che mi date, signor MEO, speranza
Di perdonagli la su' impertinenza, -
Disse Cencio, - per atto di creanza
Vorria venisse a favve riverenza.
Potrebbe mò salire in questa stanza,
Quanno vi piaccia dargliene licenza".
"Venga pur", - MEO risponne, e lui veloce,
Va a mezze scale, e te gli dà una voce.

Allora Marco Pepe, che lo sente,
Non s'intrattiè, ma subbito ubbidisce;
Coll'occi bassi, e 'l viso macilente,
Dinanzi a MEO PATACCA comparisce.
Mentre inchina el cotogno riverente,
A poco a poco più s'impallidisce,
Sta con le mani giunte, e su ci tiene
El fongo, e 'na gran paccheta gli viene.

Vorria parlà vorria, ma già confuso
Nel volè cominzà costui si trova.
MEO PATACCA con gruma gli fa el muso,
E intonato gli dice: "Embè? Che nova?
Sei più di quell'umore? Hai più per uso
Lo sbravazzà? Forzi chalch'altra prova
Te va pel cirignolo? Se vuoi farla,
Dì puro el fatto tuo, libero parla".

"Vossignoria mi burla, et ha ragione",
Rispose lui con voce tremolante,
"Di me si piglia gusto, et è patrone,
Ch'io so' stato un bel pezzo di forfante.
Volzi sfacciatamente far custione,
Con chi poteva ben darmene tante,
Se presto non battevo la calcosa,
Che non si fusse mai vista tal cosa.

Sopra tutto, in penzar io mi mortifico,
Ch'in guerra commannà", pazzo cercai,
Ma come annò la cosa, io vi notifico,
Che trappolà da gonzo mi lassai;
La pura verità mo' vi chiarifico,
E del cattivo termine, ch'usai,
Perdon vi chiedo, e d'ogni mi' parola
Mi disdico, e me pento pe' la gola.

 
 
 
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