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Il Galateo (25-27)

Post n°1245 pubblicato il 22 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

25.
Secondo che racconta una molto antica cronica, egli fu già nelle parti della Morea un buono uomo scultore, il quale per la sua chiara fama, sì come io credo, fu chiamato per sopranome «maestro Chiarissimo»; costui, essendo già di anni pieno, distese certo suo trattato et in quello raccolse tutti gli ammaestramenti dell'arte sua, sì come colui che ottimamente gli sapea, dimostrando come misurar si dovessero le membra umane, sì ciascuno da sé, sì l'uno per rispetto all'altro, acciò che convenevolmente fossero infra sé rispondenti. Il qual suo volume egli chiamò Il Regolo, volendo significare che secondo quello si dovessero dirizzare e regolare le statue che per lo innanzi si farebbono per gli altri maestri, come le travi e le pietre e le mura si misurano con esso il regolo. Ma, con ciò sia che il dire è molto più agevol cosa che il fare e l'operare; et, oltre a ciò, la maggior parte degli uomini (massimamente di noi laici et idioti) abbia sempre i sentimenti più presti che lo 'ntelletto, e conseguentemente meglio apprendiamo le cose singolari e gli essempi che le generali et i sillogismi (la qual parola dèe voler dire in più aperto vogare «le ragioni»), perciò, avendo il sopra detto valent'uomo risguardo alla natura degli artefici, male atta agli ammaestramenti generali, e per mostrare anco più chiaramente la sua eccellenza, provedutosi di un fine marmo, con lunga fatica ne formò una statua così regolata in ogni suo membro et in ciascuna sua parte come gli ammaestramenti del suo trattato divisavano: e, come il libro avea nominato, così nominò la statua, pur «Regolo» chiamandola. Ora fosse piacer di Dio che a me venisse fatto almeno in parte l'una sola delle due cose che il sopra detto nobile scultore e maestro seppe fare perfettamente, cioè di raccozzare in questo volume quasi le debite misure dell'arte della quale io tratto! Perciò che l'altra di fare il secondo Regolo, cioè di tenere et osservare ne' miei costumi le sopra dette misure, componendone quasi visibile essempio e materiale statua, non posso io guari oggimai fare, con ciò sia che nelle cose appartenenti alle maniere e costumi degli uomini non basti aver la scientia e la regola, ma convenga oltre a ciò, per metterle ad effetto, aver etiandio l'uso, il quale non si può acquistare in un momento né in brieve spatio di tempo, ma conviensi fare in molti e molti anni: et a me ne avanzano, come tu vedi, oggimai pochi. Ma non per tanto non dèi tu prestare meno di fede a questi ammaestramenti, ché bene può l'uomo insegnare ad altri quella via per la quale caminando egli stesso errò, anzi, per aventura, coloro che si smarrirono hanno meglio ritenuto nella memoria i fallaci sentieri e dubbiosi che chi si tenne pure per la diritta. E se nella mia fanciullezza, quando gli animi sono teneri et arrendevoli, coloro a' quali caleva di me avessero saputo piegare i miei costumi, forse alquanto naturalmente duri e rozzi, et ammollirgli e polirgli, io sarei per aventura tale divenuto quale io ora procuro di render te, il quale mi dèi essere non meno che figliuol caro. Ché, quantunque le forze della natura siano grandi, non di meno ella pure è assai spesso vinta e corretta dall'usanza, ma vuolsi tosto incominciare a farsele incontro et a rintuzzarla prima che ella prenda soverchio potere e baldanza; ma le più persone nol fanno, anzi, drieto all'appetito sviate e sanza contrasto seguendolo dovunque esso le torca, credono di ubidire alla natura, quasi la ragione non sia negli uomini natural cosa, anzi ha ella, sì come donna e maestra, potere di mutar le corrotte usanze e di sovenire e di sollevare la natura, ove che ella inchini o caggia alcuna volta. Ma noi non la ascoltiamo per lo più, e così per lo più siamo simili a coloro a chi Dio non la diede, cioè alle bestie, nelle quali, non di meno, adopera pure alcuna cosa non la loro ragione (ché niuna ne hanno per sé medesime), ma la nostra; come tu puoi vedere che i cavalli fanno, che molte volte - anzi sempre - sarebbon per natura salvatichi, et il loro maestro gli rende mansueti et oltre a ciò quasi dotti e costumati, perciò che molti ne andrebbono con duro trotto, et egli insegna loro di andare con soave passo, e di stare e di correre e di girare e di saltare insegna egli similmente a molti, et essi lo apprendono, come tu sai che e' fanno. Ora, se il cavallo, il cane, gli uccelli e molti altri animali ancora più fieri di questi si sottomettono alla altrui ragione et ubidisconla et imparano quello che la loro natura non sapea, anzi ripugnava, e divengono quasi virtuosi e prudenti quanto la loro conditione sostiene, non per natura, ma per costume, quanto si dèe credere che noi diverremmo migliori per gli ammaestramenti della nostra ragione medesima, se noi le dessimo orecchie? Ma i sensi amano et appetiscono il diletto presente, quale egli si sia, e la noia hanno in odio et indugianla, e perciò schifano anco la ragione e par loro amara, con ciò sia che ella apparecchi loro innanzi non il piacere, molte volte nocivo, ma il bene, sempre faticoso e di amaro sapore al gusto ancora corrotto; perciò che mentre noi viviamo secondo il senso, sì siamo noi simili al poverello infermo, cui ogni cibo, quantunque dilicato e soave, pare agro o salso, e duolsi della servente o del cuoco che niuna colpa hanno di ciò, imperò che egli sente pure la sua propria amaritudine in che egli ha la lingua rinvolta, con la quale si gusta, e non quella del cibo: così la ragione, che per sé è dolce, pare amare a noi per lo nostro sapore, e non per quello di lei. E perciò, sì come teneri e vezzosi, rifiutiamo di assaggiarla e ricopriamo la nostra viltà col dire che la natura non ha sprone o freno che la possa né spingere né ritenere: e certo, se i buoi o gli asini o forse i porci favellassero, io credo che non potrebbon proferire gran fatto più sconcia, né più sconvenevole sentenza di questa. Noi ci saremmo pur fanciulli e negli anni maturi e nella ultima vecchiezza, e così vaneggeremmo canuti come noi facciamo bambini, se non fosse la ragione, che insieme con l'età cresce in noi, e, cresciuta, ne rende quasi di bestie uomini, sì che ella ha pure sopra i sensi e sopra l'appetito forza e potere, et è nostra cattività e non suo difetto, se noi trasandiamo nella vita e ne' costumi. Non è adunque vero che incontro alla natura non abbia freno né maestro: anzi ve ne ha due, ché l'uno è il costume e l'altro è la ragione, ma, come io ti ho detto poco di sopra, ella non può di scostumato far costumato sanza l'usanza, la quale è quasi parto e portato del tempo. Per la qual cosa si vuole tosto incominciare ad ascoltarla, non solamente perché così ha l'uomo più lungo spatio di avezzarsi ad essere quale ella insegna, et a divenire suo domestico et ad esser de' suoi, ma ancora però che la tenera età, sì come pura, più agevolmente si tigne d'ogni colore, et anco perché quelle cose alle quali altri si avezza prima sogliono sempre piacer più. E per questa cagione si dice che Diodato, sommo maestro di proferir le comedie, volle essere tuttavia il primo a proferire egli la sua, come che degli altri che dovessero dire innanzi a lui non fosse da far molta stima; ma non volea che la voce sua trovasse le orecchie altrui avezze ad altro suono, quantunque verso di sé peggior del suo. Poiché io non posso accordare l'opera con le parole, per quelle cagioni che io ti ho dette, come il maestro Chiarissimo fece, il quale seppe così fare come insegnare, assai mi fia l'aver detto in qualche parte quello che si dèe fare, poiché in nessuna parte non vaglio a farlo io; ma, perciò che in vedendo il buio si conosce quale è la luce et in udendo il silentio sì si impara che sia il suono, sì potrai tu, mirando le mie poco aggradevoli e quasi oscure maniere, scorgere quale sia la luce de' piacevoli e laudevoli costumi. Al trattamento de' quali, che tosto oggimai arà suo fine, ritornando, diciamo che i modi piacevoli sono quelli che porgon diletto, o almeno non recano noia ad alcuno de' sentimenti, né all'appetito, né alla imagination di coloro co' quali noi usiamo: e di questi abbiamo noi favellato fino ad ora.

26.
Ma tu dèi oltre a ciò sapere che gli uomini sono molto vaghi della bellezza e della misura e della convenevolezza, e, per lo contrario, delle sozze cose e contrafatte e difformi sono schifi: e questo è spetial nostro privilegio, ché gli altri animali non sanno conoscere che sia né bellezza né misura alcuna; e perciò, come cose non comuni con le bestie, ma proprie nostre, debbiam noi apprezzarle per sé medesime et averle care assai, e coloro viepiù che maggior sentimento hanno d'uomo, sì come quelli che più acconci sono a conoscerle. E come che malagevolmente isprimere appunto si possa che cosa bellezza sia, non di meno, acciò che tu pure abbi qualche contrasegno dell'esser di lei, voglio che sappi che, dove ha convenevole misura fra le parti verso di sé e fra le parti e 'l tutto, quivi è la bellezza: e quella cosa veramente «bella» si può chiamare, in cui la detta misura si truova. E per quello che io altre volte ne intesi da un dotto e scientiato uomo, vuole essere la bellezza uno quanto si può il più e la bruttezza per lo contrario è molti, sì come tu vedi che sono i visi delle belle e delle leggiadre giovani, perciò che le fattezze di ciascuna di loro paion create pure per uno stesso viso; il che nelle brutte non adiviene, perciò che, avendo elle gli occhi per aventura molto grossi e rilevati, e 'l naso picciolo e le guance paffute, e la bocca piatta e 'l mento in fuori, e la pelle bruna, pare che quel viso non sia di una sola donna, ma sia composto d'i visi di molte e fatto di pezzi. E trovasene di quelle, i membri delle quali sono bellissimi a riguardare ciascuno per sé, ma tutti insieme sono spiacevoli e sozzi, non per altro, se non che sono fattezze di più belle donne e non di questa una, sì che pare che ella le abbia prese in prestanza da questa e da quell'altra: e per aventura che quel dipintore che ebbe ignude dinanzi a sé le fanciulle calabresi, niuna altra cosa fece che riconoscere in molte i membri che elle aveano quasi accattato chi uno e chi un altro da una sola; alla quale fatto restituire da ciascuna il suo, lei si pose a ritrarre, imaginando che tale e così unita dovesse essere la bellezza di Venere. Né voglio io che tu ti pensi che ciò avenga de' visi e delle membra o de' corpi solamente, anzi interviene e nel favellare e nell'operare né più né meno, ché, se tu vedessi una nobile donna et ornata posta a lavar suoi stovigli nel rigagnolo della via publica, come che per altro non ti calesse di lei, sì ti dispiacerebbe ella in ciò, che ella non si mostrerebbe pure «una», ma «più», perciò che lo esser suo sarebbe di monda e di nobile donna e l'operare sarebbe di vile e di lorda femina; né per ciò ti verrebbe di lei né odore né sapore aspero, né suono né colore alcuno spiacevole, né altramente farebbe noia al tuo appetito, ma dispiacerebbeti per sé quello sconcio e sconvenevol modo e diviso atto.

27.
Convienti adunque guardare etiandio da queste disordinate e sconvenevoli maniere con pari studio, anzi con maggiore che da quelle delle quali io t'ho fin qui detto, perciò che egli è più malagevole a conoscer quando altri erra in queste che quando si erra in quelle, con ciò sia che più agevole cosa si veggia essere il sentire che lo 'ntendere. Ma, non di meno, può bene spesso avenire che quello che spiace a' sensi spiaccia etiandio allo 'ntelletto, ma non per la medesima cagione, come io ti dissi di sopra, mostrandoti che l'uomo si dèe vestire all'usanza che si vestono gli altri, acciò che non mostri di riprendergli e di correggerli; la qual cosa è di noia allo appetito della più gente, che ama di esser lodata, ma ella dispiace etiandio al giudicio degli uomini intendenti, perciò che i panni che sono d'un altro millesimo non si accordano con la persona che è pur di questo; e similmente sono spiacevoli coloro che si vestono al rigattiere: ché mostra che il farsetto si voglia azzuffar co' calzari, sì male gli stanno i panni indosso. Sì che molte di quelle cose che si sono dette di sopra, o per aventura tutte, dirittamente si possono qui replicare, con ciò sia cosa che in quelle non si sia questa misura servata, della quale noi al presente favelliamo, né recato in uno et accordato insieme il tempo e 'l luogo e l'opera e la persona, come si convenia di fare, perciò che la mente degli uomini lo aggradisce e prendene piacere e diletto: ma holle volute più tosto accozzare e divisare sotto quella quasi insegna de' sensi e dello appetito che assegnarle allo 'ntelletto, acciò che ciascuno le possa riconoscere più agevolmente, con ciò sia che il sentire e l'appetire sia cosa agevole a fare a ciascuno, ma intendere non possa così generalmente ogniuno, e maggiormente questo che noi chiamiamo bellezza e leggiadria o avenentezza.

 
 
 
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