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« Il Meo Patacca 05-1Il Galateo (25-27) »

Rime del Berni 43-50

Post n°1244 pubblicato il 22 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

43

Descrizione del Giovio

Stava un certo maestro Feradotto
col re Gradasso, il quale era da Como.
Fu da' Venti, fanciullo, in là condotto,
poi ch'ebbon quel paese preso e domo;

non era in medicina troppo dotto,
ma piacevol nel resto e galantuomo;
tenea le genti in berta, festa e spasso
e l'istoria scriveva di Gradasso.

Stavali inanzi in pie' quando mangiava;
qualche buffoneria sempre diceva
e sempre qualche cosa ne cavava;
gli venìa voglia di ciò che vedeva,

laonde or questo or quell'altro affrontava;
d'esser bascià grand'appetito aveva;
avea la bocca larga e tondo il viso:
solo a vederlo ogniun moveva a riso.



44

AL VESCOVO SUO PADRONE

S'io v'usassi di dire il fatto mio,
come lo vo dicendo a questo e quello,
forse pietà m'avresti
o qualche benefizio mi daresti.
Ché, se 'l dicessi Dio,
pur fo, pur scrivo anch'io
e m'affatico assai e sudo e stento,
ancorch'io sappi ch'io non vi contento.
Voi mi straziate e mi volete morto;
et al corpo di Cristo avete 'l torto.



45

SI DUOLE DELLA SUGGEZIONE IN CHE STAVA IN VERONA

S'io posso un dì porti le mani addosso,
puttana libertà, s'io non ti lego
stretta con mille nodi e poi ti frego
così ritta ad un mur co i panni in dosso,
poss'io mal capitar, siccome io posso
rinegar Cristo, che ogni ora il riniego,
da poi che non mi val voto né priego
contra 'l giogo più volte indarno scosso.
A dire il vero, ell'è una gran cosa
ch'io m'abbi sempre a stillare il cervello
a scriver qualche lettera crestosa,
andar legato come un fegatello,
vivere ad uso di frate e di sposa
e morirsi di fame! Oh 'l gran bordello!



46

SONETTO A MESSER FRANCESCO SANSOVINO

Verona è una terra c'ha le mura
parte di pietre e parte di mattoni,
con merli e torre e fossi tanto buoni
che mona Lega si staria sicura;

dietro ha un monte, dinanzi una pianura,
per la qual corre un fiume senza sproni;
ha presso un lago che mena carpioni
e trote e granchi e sardelle e frittura;

drento ha spilonche, grotte e anticaglie,
dove il Danese, Ercole et Anteo
presono il re Bravier con le tanaglie,

due archi sorian, un culiseo,
nel qual son intagliate le battaglie
che fece il re di Cipri con Pompeo;

la ribeca ch'Orfeo
lasciò, ché n'aparisce un instrumento,
a Plinio et a Catullo in testamento.

Appresso ha anche drento,
come hanno l'altre terre, piazze e vie,
stalle, stufe, spedali et osterie,

fatte in geometrie
da fare ad Euclide et Archimede
passar gli architettori con un spiede.

E chi non me lo crede
e vol far prova della sua persona,
venga a sguazzar otto dì a Verona;

dove la fama suona
la piva e 'l corno, in accenti asinini,
degli spiriti isnelli e pellegrini,

che van su pei camini
e su pei tetti la notte in istriazzo,
passando in giù e 'n su l'Adice a guazzo;

e dietro han un codazzo
di marchesi, di conti e di speziali,
che portan tutto l'anno gli stivali,

perché i fanghi immortali,
ch'adornan le lor strade graziose,
producon queste et altre belle cose;

ma quattro più famose,
da sotterrarvi un dentro insino a gli occhi,
fagioli e porci e poeti e pidocchi.



47

RICANTAZIONE DI VERONA

S'io dissi mai mal nessun di Verona,
dico ch'io feci male e tristamente;
e ne son tristo, pentito e dolente,
come al mondo ne fusse mai persona.

Verona è una terra bella e buona,
e cieco e sordo è chi no 'l vede o sente.
Tu, se or si perdona a chi si pente,
alma città, ti prego, or mi perdona,

ché 'l martello ch'io ho del mio padrone,
qual tu mi tieni a pascere il tuo gregge,
di quel sonetto è stata la cagione.

Ma se con questo l'altro si corregge,
perdonatemi ogniun c'ha discrezione:
chi pon freno a' cervelli o dà lor legge?



48

CAPITOLO ALLI SIGNORI ABBATI

Signori abbati miei, se si può dire,
ditemi quel che voi m'avete fatto,
ché gran piacer l'arei certo d'udire.
Sappeva ben ch'io era prima matto,
matto, cioè, che volentieri amavo,
ma or mi par aver girato affatto.
Le virtù vostre me v'han fatto schiavo
e m'han legato con tanti legami,
ch'i' non so quando i pie' mai me ne cavo.
E` forza ch'io v'adori, non che v'ami;
d'amor però di quel savio d'Atene,
non di questi amorazzi sporchi e infami.
Voi sète sì cortesi e sì da bene
che, non pur da me sol, ma ancor da tutti,
amore, onor, rispetto vi si viene.
Ben sapete che l'esser anco putti
non so che più vi conciglia e v'acquista,
massimamente che non sète brutti;
ma, per Dio, siavi tolta dalla vista,
né dalla vista sol, ma dal pensiero,
una fantasiaccia così trista;
ch'i' v'amo e vi vo' ben, a dir el vero,
non tanto perché siate bei, ma buoni.
E potta, ch'io non dico, di san Piero,
chi è colui che di voi non ragioni?
Che la virtù delle vostre maniere,
per dirlo in lingua furba, non canzoni?
Ché non è oggi facile a vedere
giovane, nobil, bella e vaga gente
ch'abbia anche insieme voglia di sapere,
che adorni il corpo ad un tratto e la mente,
anzi che a questa più che a quello attenda,
come voi fate tutti veramente.
Però non vo' che sia chi mi riprenda,
s'io dico che con voi sempre starei
a dormir et a fare ogni facenda.
E se i fati o le stelle o sian gli dei
volesser ch'io potessi far la vita
secondo gli auspici e' voti miei,
da poi che 'l genio vostro sì m'invita,
vorrei farla con voi; ma il bel saria
che, com'è dolce, fusse anco infinita.
O che grata, o che bella compagnia!
Bella ciò è per me; ma ben per voi
so io che bella non saria la mia.
Ma noi ci accorderemmo poi fra noi:
quando fussimo un pezzo insieme stati,
ogniuno andrebbe a fare i fatti suoi.
Fariamo spesso quel gioco de' frati,
che certo è bello e fatto con giudizio
in un convento ove sian tanti abbati:
diremmo ogni mattina il nostro uffizio;
voi cantaresti, io vel terrei secreto,
ché non son buono a sì fatto essercizio;
pur, per non stare inutilmente cheto,
vi farei quel servigio, se voleste,
che fa chi suona a gli organi di drieto.
Qual più solenni e qual più allegre feste,
qual più bel tempo e qual maggior bonaccia,
maggior consolazion sarien di queste?
A chi piace l'onor, la robba piaccia:
io tengo il sommo bene in questo mondo
lo stare in compagnia che sodisfaccia:
il verno al foco, in un bel cerchio tondo,
a dire ogniun la sua; la state al fresco:
questo piacer non ha né fin né fondo.
Et io di lui pensando sì m'adesco,
che credo di morir se mai v'arrivo:
or, parlandone indarno, a me rincresco.
Vi scrissi l'altro dì che m'espedivo
per venir via, ch'io moro di martello,
et ora un'altra volta ve lo scrivo.
Io ho lasciato in Padova il cervello:
voi avete il mio cor serrato e stretto
sotto la vostra chiave e 'l vostro anello.
Fatemi apparecchiare in tanto il letto,
quella sedia curule e due cuccini,
ch'io possa riposarmi a mio diletto;
e state sani, abbati miei divini.



49

VAGHEZZE DI MAESTRO GUAZZALLETTO MEDICO

O spirito bizzarro del Pistoia,
dove sei tu? Ché ti perdi un soggetto,
un'opra da compor, non che un sonetto,
più bella del Danese e dell'Ancroia.
Noi abbiam qui l'ambasciador del boia,
un medico, maestro Guazzalletto,
che, se m'ascolti infin ch'io abbia detto,
vo' che tu rida tanto che tu moia.
Egli ha una beretta, adoperata
più che non è lo breviar d'un prete
ch'abbia assai divozione e poca entrata;
sonvi ritratte su certe comete
con quel che si condisce l'insalata,
di varie sorti, come le monete.
Mi fa morir di sete,
di sudore, di spasimo e d'affanno
una sua vesta che fu già di panno,
c'ha forse ottant'un anno
e bonissima robba è nondimanco,
che non ha pelo e pende in color bianco.
Mi fanno venir manco
li castroni, ancor debiti al beccaio,
che porta il luglio in cambio del gennaio.
Quegli li scusan saio,
cappa, mantel, stivali e covertoio;
intorno al collo par che sia di coio.
Saria buon colatoio:
un che l'avesse a gli occhi vedria lume,
se non gli desse noia già l'untume;
di peluzzi e di piume
piena è tutta e di sprazzi di ricotte,
come le berettaccie della notte.
Son forte vaghe e ghiotte
le maniche in un certo modo fesse:
volsero esser dogal e f-r brachesse.
Piangeria chi vedesse
un povero giubbon ch'ei porta indosso,
che 'l sudor fatto ha bigio, giallo e rosso;
ché mai non se l'ha mosso
da sedici anni in qua che se lo fece
e par che sia attaccato con la pece.
Chi lo vede e non rece,
lo stomaco ha di porco o di gallina,
che mangion gli scorpion per medicina.
La mula è poi divina:
aiutatemi, Muse, a dir ben d'essa.
Una barcaccia par vecchia dismessa,
scassinata e scommessa:
se le contan le coste ad una ad una,
pàssala il sole, le stelle e la luna;
e vigilie digiuna,
che 'l calendario memoria non fanne;
come un cinghial di bocca ha fuor le sanne.
Chi la vendesse a canne,
et a libre, anzi a ceste, la sua lana,
si faria ricco in una settimana.
Per parer cortigiana,
in cambio di basciar la gente, morde
e dà co' pie' certe zampate sorde.
Ha più stringhe e più corde,
intorno a' fornimenti sgangherati,
che non han sei navilii ben armati.
Non la vorrieno i frati.
Quando salir le vuol sopra il padrone,
geme che par d'una piva il bordone.
Allor, chi mente pone,
vede le calze sfondate al maestro
e la camiscia ch'esce del canestro
con la fede del destro;
scorge, chi ha la vista più profonda,
il coliseo, l'aguglia e la ritonda.
Dà una volta tonda
la mula e va zoppicando e traendo;
dice il maestro: "Vobis me commendo".
Non so s'io me n'intendo,
ma certo a me ne par che costui sia
colui che va bandendo la moria.



50

Sonetto alla mula

Dal più profondo e tenebroso centro,
dove Dante ha alloggiato i Bruti e i Cassii,
fa, Florimonte mio, nascere i sassi
la vostra mula per urtarvi dentro.

Deh, perch'a dir delle sue lode io entro,
che per dir poco è meglio io me la passi?
Ma bisogna pur dirne, s'io crepassi,
tanto il ben ch'io le voglio è ito adentro.

Come a chi rece, senza riverenza,
regger bisogna il capo con due mani,
così anche alla sua magnificenza.

Se, secondo gli autor, son dotti e sani
i capi grossi, questo ha più scienza
che non han sette milia Prisciani.

Non bastan cordovani
per le redene sue, né vacche o buoi,
né bufoli né cervi o altri cuoi:

a sostenere i suoi
scavezzacolli dinanzi e di drieto,
bisogna acciaio temperato in aceto.

Di qui nasce un secreto,
che, se per sorte il podestà il sapesse,
non è di lei denar che non vi desse:

perché, quando ei volesse
far un de' suoi peccati confessare,
basteria darli questa a cavalcare,

che per isgangherare
dalle radici le braccia e le spalle,
corda non è che si possa agguaglialle.

Non bisogna insegnalle
le virtù delle pietre e la miniera,
ché la è matricolata gioielliera;

e con una maniera
dolce benigna da farsele schiave,
se le lega ne' ferri e serra a chiave.

Come di grossa nave,
per lo scoglio schivar, torce il timone,
con tutto il corpo appoggiato, un padrone,

così quel gran teschione
piegar, tirar bisogna ad ogni sasso,
chi d'aver gambe e collo ha qualche spasso;

bisogna ad ogni passo
raccomandarsi a Dio, far testamento
e portar nelle bolgie il sacramento.

Se siete mal contento,
se avete alcuno a chi vogliate male,
dategli a cavalcar questo animale;

o con un cardinale
per paggio la ponete a far inchini,
che la li fa volgar, greci e latini.

 
 
 
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