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Il Meo Patacca 03-2

Post n°1222 pubblicato il 19 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

"Il Meo Patacca, ovvero Roma in feste ne i trionfi di Vienna" di Giuseppe Berneri

Titolo completo e frontespizio: Il Meo Patacca ovvero Roma in Feste ne i Trionfi di Vienna. Poema Giocoso nel Linguaggio Romanesco di Giuseppe Berneri Romano Accademico Infecondo.
Dedicato all'Illustriss. et Eccellentiss. Sig. il Sig. D. Clemente Domenico Rospigliosi. In Roma, per Marc'Antonio & Orazio Campana MDCXCV. Con licenza de' Superiori.

Ah ciafèo! che vantavi el Rodomonte,
Poi cagli, come un guitto, e un cacasotto".
E quì pe' rabbia, con la man la fronte
Si batte, e da più d'un s'intese il botto.
"Quel Fraschetta d'Amore, un Spaccamonte,
Come son'io, farà pare un merlotto?
Se da 'sto core presto non se stacca,
Glie fò vede glie fò, chi è Meo Patacca.

Vada a cuccà, 'sti gonzi, e cori afflitti
Avvezzi a sopporta malanni e doglie,
Mostri la su' potenza co' 'sti guitti,
E schiavi li riduca alle sue voglie,
Ch'in quanto a me, che son di quei più dritti,
Non me ce coglie più, non me ce coglie,
Se po' gratta, se po' 'sto Cupidetto,
E pelarzi la barba pe' dispetto".

Parlò a 'sto modo, e gnente gli sovvenne,
Per esser dalla collera infuscato,
Ch'a dire uno sproposito solenne
Pe' volè fa' el dottor, c'era cascato;
Si po' Amore strappà solo le penne,
Non pelarzi la barba, s'è sbarbato.
Così, diceva bene a maraviglia,
Perchè barba non ha: peli le ciglia!

Poi torna a tarroccà: "Va dove vuoi,
Amor! Se inzino a mò me l'hai sonata,
Un sasso in petto te pôi da te pôi,
Non me la fai più fa 'sta baronata.
Alla guerra, alla guerra! E Nuccia poi,
Che dirà, se la lasso sconsolata?
Eh, ch'alle smorfie sue non dò più fede,
Venga el cancaro a Nuccia, e a chi glie crede".

In questo mentre schiatta dalle risa,
Certa gente in t'un circolo confusa
Intorno ad un poveta, che improvisa,
E che propio ridicola ha la Musa.
S'accosta MEO, perchè il rumor l'avvisa,
Giusto s'infronta de sentì 'sta chiusa:
La tua fama anderà da Tile a Battro,
Sarai lodato più di volte quattro.

Subbito in sè PATACCA si raccoglie,
Rifrette a 'ste poetiche parole,
E dice: "O come ben costui ce coglie!
A seguì Marte stuzzicà me vuole,
Già dal penzier la dubbietà me toglie.
Mò sì, non dò più volta alle cariole,
Quel, che si canta in lode d'altri adesso,
Si dirà un giorno in lode di me stesso".

Tutto quel, che sentiva 'sto gradasso
Creder voleva, s'appricasse a lui,
Poi un tantino in là movendo el passo,
Sente discurre delli fatti sui.
Vede, ch'è gente di legnaggio basso,
Et assai ben ne ricognosce dui,
Senza fa' col fanale opera alcuna,
Se tanto quanto luccica la Luna.

Dice un di loro: "Ho inteso dir giust'oggi,
Che vônno annà 'sti sgherri romaneschi,
Benchè guida non habbiano nè appoggi
A squinternà l'esserciti turcheschi".
"Andaranno el malanno, che l'alloggi! -
Rispose un altro - O sò che stanno freschi!
Nelle sfavate hanno bravure assai,
Quel che dicono poi non fanno mai".

PATACCA in tel sentì la sbeffatura
Mastica ciodi, e rode catenacci;
Vorria lite piglià, non s'assicura,
Smania, soffia, non sa quel che si facci;
Mò par, che l'intrattenga la paura,
E mò, ch'ogni timor da sè discacci.
Troppo rischio poi stima il farzi avanti,
Per esser solo, e arrogantà con tanti.

E pur la fa da bravo, i piedi sbatte,
Sbuffa de rabbia, e dice brontolanno:
"Ce s'annarà, ce s'annarà a combatte,
E ce saranno i capi, ce saranno!
Signorzì, che gran prove se son fatte
Da i romaneschi, e più se ne faranno".
Così finge sfogasse con sè stesso,
Ma pur si fa sentì da chi gli è appresso.

"Se potrà mò sapè, se chi l'ha sciolto -
Dice un di lor - costui che si risente?
Ora mai non potrà poco, nè molto
A su' modo discorrere la gente?"
Risponne MEO con impeto rivolto:
"Chi dice mal di Roma se ne pente!
Ce so qui sgherri, e ce ne so a bizzeffe,
Che meritano lodi, e no 'ste sbeffe.

So i romaneschi giovani da farlo
Quel che dicono, et io pozzo saperlo
Meglio assai di nisciun, per questo parlo,
C'hanno valor, so dirlo, e mantenerlo.
L'occasione gli manca di mostrarlo,
Ma el modo mai non gli mancò d'haverlo,
E chi dice di no da me si sfida:
Col ferro in man la lite si decida".

Giusto, come succede a un regazzino,
Che sciala assai contento, e a casa porta,
Pe' poi metterlo in gabbia, un cardellino;
Non vede l'hora d'arrivà alla porta,
La mano, in tel bussà, rapre - un tantino,
E l'uccello va via pe' la più corta,
Il putto allora al non penzato affronto,
Guarda, stupisce, e resta come tonto.

Così coloro, quasi interezziti
Restano a 'ste chiassate, e allora in faccia
Se guardano un coll'altro, e sbigottiti
Non san chi sia costui, ch'il bravo spaccia.
In tel vedè, che so' così sbiasciti,
MEO de potenza in mezzo a lor si caccia,
E dice: "Arreto là martufi! arreto!
Tutti ve ciarirò, sangue del deto".

Si stacca allor da quegli un homo sodo
Con gravità appoggiato a un bastoncello,
Tira da parte MEO, ma con bel modo,
Gli dice poi: "Sentite, signor Quello,
È grande il vostro spirito, vi lodo,
Ma in grazia compatiteli, fratello,
Che non hanno giudizio nè creanza,
Meritariano calci nella panza".

"E io glie li darò - MEO gli rispose,
- E glie farò vede, se chi è 'sto fusto,
E se parole dissero ingiuriose,
Voglio ci habbino, voglio, poco gusto.
No, che non pozzo sopporta 'ste cose,
Adesso proprio adesso io te li aggiusto".
Ripiglia il vecchio: "Oh via! fermate, amico,
Date udienza, vi prego, a quel ch'io dico.

Il vostr'onor non c'è, se mi credete,
Che vi sia servitor; questa è gentaglia.
A pigliarcela, assai ci rimettete
Di riputazion co 'sta marmaglia,
Vi farò sodisfar, come volete,
La prudenza alla collera prevaglia:
Fecero error di non parlar a tono,
Ma voglio che vi chiedino perdono".

In sentirzi toccà su 'sto puntiglio,
Stà MEO sopra penzier, ma dice poi:
"Via su, ve fò la grazia, e 'sto consiglio
Piglià imprometto, che me date voi. Per
amor vostro io non farò scompiglio, Ma
prima el patto s'ha da fa' tra noi, Che da
costoro innanzi d'annà via, Calche
sodisfattione me si dia.

Voglio ch'ogn'un di loro si disdica,
D'havè li nostri sgherri sbeffeggiati,
Che quanno disse romaneschi, mica
Intese di' noi altri in Roma nati,
Che de i sgherri parlò, voglio che dica,
Forastieri, e poi qui romanescati,
E che han valore, e san menar le mani,
Quelli che sono in realtà Romani".

Subbito l'homo serio s'intromese
Co' i su' compagni, ch'erano restati,
Perchè pe' non trovarsi alle contese
N'erano via parecchi scivolati,
'Sti scioti, gente son d'altro paese
Pe' lavoranti a Roma capitati,
Hanno calche virtù nel manuale,
Del resto son cocuzze senza sale.

Ubbidiscono i gonzi, e tutti in flotta,
(Qui MEO tra sè di ridere si schiatta),
Si vengono a disdine; ogn'un ciangotta
Meglio che pò, ma poco ce s'adatta.
A beve poi l'invitano alla grotta
Pe' contrasegno della pace fatta:
"No - dice MEO - venì non vi rincresca,
A beve quattro giare d'acqua fresca".

Lo ringraziano i guitti, e la licenza
Chiedono de partì. MEO la concede,
Ma nel cerimonià, nel fa' partenza
La gonzaggine proprio ce se vede:
Gli fanno, ma alla peggio, riverenza,
E de novo el perdono ogn'un gli chiede.
PATACCA allor, che le risate ignotte,
Gli dice sodo sodo. "Bona notte...".

Poi tutto boria se la sbatte via,
Fa' gran prauso a sè stesso, e si rincora;
Gli pare già, che diventato sia
Homo da spaventà li Turchi ancora.
Nell'annà a casa una pizzicarla
Vede raperta, e si ricorda allora,
Che qui pel taffio può sborzà più penne,
Già che de giorno si vergogna a spenne.

Vorria rentrà, quanno però nisciuno
L'osservi, che da sè si crompa el vitto:
Rapre el fanal, se sbornia calcheduno,
Senza fermarsi allor passa e va ritto.
Non vuò proprio non vuò ci sia manc'uno,
Che mò gli veda fà spese da guitto;
Poi torna arreto, e quasi dissi, a volo
Rentra in bottega in tel vede ch'è solo.

Cosi chalch'un che satrapo se spaccia,
Ch'entra vuò in calche casa un pò sospetta,
E par che d'esser visto assai gli spiaccia,
Pe' fa la botta un contratempo aspetta;
Mò a 'na strada, mò a un vicolo s'affaccia,
Passa, ritorna, gira, i passi affretta,
Se nisciuno lo vede, in tun momento
Scivola lesto, e ce s'imbuca drento.

PATACCA, già provista la boccolica,
S'hora è di cena, a casa se n'annette,
E presto in sopra a un piatto de maiolica,
Prisciutto, cascio, e mortatella mette.
Penza al dolor di Nuccia, e assai ce strolica",
Mentre taffia. A sè stesso alfin promette,
D'annaglie a fà nel novo dì la scusa,
E dir che la partenza è già conclusa.

D'esser gli pare in obrigo assai stretto
Per quell'impegno, che in Navona ha preso,
D'annà senza havè dubbio nè rispetto,
A regge in guerra del commanno el peso.
Già risoluto va a colcasse a letto,
E perchè più non ha 'l penzier sospeso,
E contro Amore ha fatto un cor di sasso,
Dormì tutta la notte come un tasso.

Vedeasi già con lucido flagello
Di mattutini albori, al Ciel d'intorno,
Del Sol la messaggiera, il bel drappello
Delle stelle fugar a pro del giorno...
Ma dove, o tò!, dove me va el cervello!
Dove m'alza la Musa! Abbasso io torno,
Pe' non uscì della mi' strada fora,
Liscio liscio vi dico: "Era l'Aurora".

Calfurnia allor, che la vendetta in core
Contro PATACCA, ancor viva teneva,
Hor clamandolo infame, hor traditore
Lo voleva in ruina, lo voleva.
Era poi la su' rabbia e 'l su' rancore
Che quel, che far vorrìa, far non poteva;
Ma se il penzier fisso dell'ira ha 'l ciodo,
Trovato ha già della vendetta il modo.

Sin da quell'hora, ch'era Nuccia uscita
Dalla casa di MEO, si messe in testa,
(Per essere una vecchia assai scaltrita),
Nel vendicarzi aiuto haver da questa.
Già teneva una trappola ammannita,
Ch'a semina garbugli era assai lesta,
Da farce entrane, (e vuò provarci adesso),
E Nuccia e Meo Patacca a un tempo stesso.

Si veste in prescia, perch'a lei mill'anni
Glie pare ogn'hora de vedè tramata
L'infame tela dell'orditi inganni.
Va di Nuccia alla casa, e qui arrivata,
Vede, che stenne su la loggia i panni,
Segno, ch'haveva fatta la bucata.
Glie dice da la strada: "Siete sola?
Signora Nuccia, in grazia una parola".

Lei, che ciamarsi da lontano ascolta,
E non cognosce ancor, che voce è quella,
Subito l'occi inverso giù rivolta,
E vede sguercià in su la ciosparella.
Si ricorda che amica è d'una volta,
E te glie fa la bocca risarella,
Col capo la saluta, e con la mano,
Che salga azzenna, e lei va su pian piano.

 
 
 
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