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Il Meo Patacca 03-1

Post n°1220 pubblicato il 19 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

"Il Meo Patacca, ovvero Roma in feste ne i trionfi di Vienna" di Giuseppe Berneri

Titolo completo e frontespizio: Il Meo Patacca ovvero Roma in Feste ne i Trionfi di Vienna. Poema Giocoso nel Linguaggio Romanesco di Giuseppe Berneri Romano Accademico Infecondo.
Dedicato all'Illustriss. et Eccellentiss. Sig. il Sig. D. Clemente Domenico Rospigliosi. In Roma, per Marc'Antonio & Orazio Campana MDCXCV. Con licenza de' Superiori.

CANTO TERZO

ARGOMENTO

Spasseggianno PATACCA pe' Navona
Turbato sta, che lo tormenta amore;
Sente discurre della su' perzona,
Attacca bugila, e n'esce con onore.
Calfurnia poi, ch'a lui non la perdona,
E il fatto affronto tiè covato in core,
Fa crede a Nuccia, ch'ha di lei sparlato;
Dice, ch'alia vendetta ha già penzato.


Stava el Sole, per essere già sera,
Facenno un capitommolo nel mare;
Stracco della su' lucida carriera
Va in quel liquido letto a riposare;
L'aria incominza a sta de mala cera
Se la luce e il calor glie vie a mancare,
E diventata poi pallida e brutta,
Pe' non farzi vede, s'oscura tutta.

Già Nuccia in casa sua s'era imbucata,
Ch'in tell'annacce, gnente s'intrattenne;
Quanno ch'uscì da MEO, l'hebbe osservata
Calfurnia, e de ciamalla umor glie venne.
Ma in vedella trotta così affannata,
E ancor per esser tardi se n'astenne,
Bensì allor a costei va pe' la mente,
D'annà a trovalla a casa il dì seguente.

PATACCA in questo mentre si straluna
Nel ripenzà di Nuccia bella a i sciatti:
Poi vede che non c'è raggion nisciuna,
Che lassi pe' costei l'impegni fatti.
Si da mezzo stordito alla Fortuna,
Che quel Frasca d'Amor così lo tratti.
Mentre penzoso sta, nè trova loco,
Vuò uscì de casa pe' svariasse un poco.

Perchè di bruno mai senza el fanale "
Non ce marcia suisci, e senza el ferro,
Per esser questo el più gran capitale,
Che pozza havè chi vuò tira de sgherro,
Mette la cinquadea sotto al bracciale,
Poi la lanterna alluma, et io non erro,
In dirvi che di cera non fa sprego,
Se spesso addropa "i moccoli di sego.

Se n'esce a piglià fresco a passo lento;
Di tanto in tanto el caminà sospenne;
Par che l'ardore del suo ardir sia spento,
E timiglioso lui sè stesso renne.
L'amor di Nuccia, ora lo fa scontento,
Ora di bilia contro lei s'accenne;
Mentr'è il penzier di quà e di là sbattuto,
Più si mostra confuso e irresoluto.

C'è tal volta chalchun, ch'alia bassetta
Giocò su la parola in t'un ridotto,
E perze assai, perch'hebbe gran disdetta,
Se sempre el punto suo gli venì sotto.
Sa, che chi vinze le monete aspetta
Pel dì che viene, a casa cotto cotto
Se ne torna, facenno el su' disegno,
Se in prestito le piglia, o se fa' un pegno.

Simile a lui PATACCA va penzanno,
E nel pensier non si risolve ancora,
S'ha da restà, i consigli seguitanno
Di Nuccia, che non vuò che vada fora,
O s'ha da dare a 'st'amoretti el banno,
Pe' fa' vede' che solo s'innamora
Di quella Grolia, che ne fa l'acquisto
Chi va alla guerra, e da a' nemici il pisto.

Così sopra pensier, con passo tale,
Qual fa una donna gravida pedona,
Arriva al foro MEO, detto Agonale,
Che ciamano i plebei piazza Navona.
Qui la state, c'è un fresco badiale,
Ce se ricrea de notte la perzona:
È così bella che me so già accorto,
Che se non la descrivo, io glie fò torto.

Questa è una piazza, che fra l'altre tutte
Giusto una dama par tra le petine;
A piglialla con lei ce restan brutte
L'altre piazze vistose e pellegrine.
Son alfin queste a confessà ridutte,
Che son di quella al paragon meschine:
Se in tutta Roma, poi, ce n'è chalchuna,
Più sfarzosa di lei, sarà sol una.

Di questa pe' rispetto io non ne parlo,
Che la mente in penzacce se confonne;
Il loco in dove sta, pozzo accennarlo,
Ch'è in fin dei Borghi, e questo sol dironne,
Che teatro da sempre mentovarlo
Glie fanno centinara di colonne.
Ma ritorno a Navona, che di questa,
Non d'altra ho da cantà, quello che resta.

È longa giusto passi quattrocento
Di quelli ch'uno fa quanno scarpina,
Com'è il solito suo, ma larga è cento,
E solo ce ne manca una dozzina.
Glie fanno in più d'un loco adornamento
Fabriche di bellezza soprafina.
Oltre a queste, ce stanno intorno spase,
Tutte a un paro però, botteghe, e case.

C'è una fontana in cima, e un'altra in fonno
Che a dir la verità senza sfavate,
Sin da coloro, che han girato el monno,
Vengono con ragion magnificate;
Son le vasche maiuscole, ma tonno
Non hanno el giro, perchè son'ovate,
E sopra l'orlo poi, di tratto in tratto,
Ce s'alluma un cantone assai ben fatto.

Tutte due somiglianti hanno i Vasconi
Di marmoro, ma c'è 'sta differenza:
Quella de sotto ha quattro Mascheroni,
Che fan su l'orlo gran compariscenza;
Altri e tanti ridicoli Tritoni
Ci son più arreto, con tal avvertenza
Messi, che tutti sparpagliati stanno,
E un concerto bellissimo pur fanno.

In mezzo della vasca, ritta ritta
Ce sta una statua sopra un travertino;
Par che figuri una perzona guitta,
Perchè giusto el su' grugno è di burrino,
Verzo el fianco sinistro la man dritta
Con la manca, la coda ad un Delfino
Tiè con gran forza, e par ch'habbia el tavano
Paura che gli scivoli di mano.

Poi tra le gamme di quest'hom di sasso,
Dereto attorcinatosi el gran pesce,
Cava fora la testa, e con fragasso
Un capo d'acqua dalla bocca gli esce;
Con quella poi, che for dell'orlo abbasso
Buttano i Mascheroni, non si mesce,
Et ecco, qual de 'sta fontana è l'opra,
Ma liscia liscia è poi quella di sopra.

E pur son tutte due scialose e belle,
Ma poi manco pe' sogno, hanno che fàne
Con la fontana, che pe' dritto a quelle
In mezzo della piazza vien a stane.
La fà parè fontane ciumachelle
Chi a quest'altra le vuò rassomigliàne,
Benchè chi de scoltura se rintenne,
Le metta in tra le cose più stupenne.

Ha la gran vasca un giro, ch'è perfetto,
De fora attorno, poi, mattoni in costa
Formano una platea larga un pochetto
Con tantin di pendiva fatta a posta:
Se mai l'acqua rescisse dal su' letto,
Scola subbito via giù pe' 'sta costa;
Basse colonne stanno attorno, e c'è
Tra l'una e l'altra un ferro da sedè.

Di pietre appiccicate una gran massa
Forma quasi uno scoglio, et aperture,
Ch'una di qua, l'altra di là trapassa,
Ci son di sotto, e in alto più sfissure.
Su certi sassi, in dove l'acqua passa,
Nascettero insinenta le verdure;
L'occhio se gabba, e lo faria el penziero,
Ma questo sa che non è scoglio vero.

Par che voglia slamà, 'sta gran montagna,
Che sia stupor, che già non si sfragassi,
Che ce se veda più d'una magagna,
E ch'assai crepature habbiano i sassi.
Se chalche forastier pappallasagna
Capita qui, ferma intontito i passi,
E tra sè dice: "Pah! che bella cosa!
Ma troppo è de cascà pericolosa".

Così i scioti, ch'intennere non sanno
L'astuzie de 'sta bella architettura,
Guardan lo scoglio, e maraviglie fanno,
E quasi che tracolli, hanno paura.
Tanto ciarvello de capì non hanno,
Che spesso l'arte scontrafà natura,
Come succede a questo gran disegno:
Pare il caso architetto, e fu l'ingegno.

Ce so' poi sopra quattro cantonate,
Et altrettante statue, una pe' parte;
Ce stanno iofamente qui assettate,
Se i posti da sedè glie fece l'arte.
Questi so' fiumi con le foggie usate,
Assai famosi in tell'antiche carte:
Nilo, Gange, Danubio, e c'è di più,
Detto rio della Piatta, il gran Pegù.

Estatico un di loro si strabilia,
E un altro iscontro a lui pe' meraviglia,
Reggenno con la man l'arme PANFILIA,
Arme d'eccellentissima famiglia:
A questa già la Musa mia s'umilia,
E lei puro inarcanno va le ciglia,
Et a raggion di venerà glie tocca
La gran Colomba c'ha l'olivo in bocca.

Pensà noi altri tutti doveressimo,
Che della sorte pe' favor grannissimo,
In drento a questa alma città nascessimo,
Ch'a 'sta gran Casa è ogn'un obligatissimo:
'Sta bella vista a fè non goderessimo,
Se il bel penziero, e il genio nobilissimo
Stato non fusse, che noi già ammirassimo
Di quel signor, che fu tre volte Massimo.

Ma fratanto a chiarirzi io ciamo i secoli,
E qui si, che c'invito i bell'ingegni,
Ogn'un di questi, quanto po' ce specoli,
Dica, se vede mai sì bei disegni:
Chi ha comprendoria, bigna che strasecoli,
E passi ancor di maraviglia i segni,
Perchè stupir fa' lo stupore istesso
La machina, ch'a voi descrivo adesso.

Benchè sotto 'sto scoglio sia scavato,
E che non para a sostenè bastante
Un peso, ancor che fusse moderato,
S'ha cera d'anticaglia già cascante;
Pur ci sta sopra un obelisco alzato,
Che ciama guglia el popolo ignorante:
Alto, grosso, e sta saldo, e ci vuò stàne,
Ch'a ogn'altra cosa penza, ch'a cascàne.

Questo è quel, ch'i due fiumi, come tonti
Guardano in su voltati, e stanno in atto,
Con mani alzate, et increspate fronti
Di chi vede stupori, e resta astratto.
Da i quattro seditori escono fonti,
E ancor dalle sfissure, et in un tratto,
Mentre ch'in larghe striscie in furia casca
L'acqua di qua e di là, s'impe la vasca.

Come fa in tel pantano un'anatrozza,
Così appunto un Delfin quì a noto sguazza,
E un'altro pesce, e ogn'un di loro ingozza
L'acqua, che spasa è già nella gran tazza;
Questa resce de sotto, e poi l'impozza
La ciavica, ch'in mezzo è della piazza.
Un cavallo sguazzà puro s'allampa,
Ch'alta denanzi ha l'una e l'altra zampa.

Da cupa tana, ch'è pur quìi sculpita
Assetato Lion se n'esce in fora,
Sta in sopra a i sassi, e regge lì la vita,
Piega le spalle, e abbassa il collo ancora.
L'arida lingua dalle fauci uscita
Al pian dell'acqua non arriva, e allora
Si slonga quanto po', non quanto deve,
Tocca e non tocca, e lui beve e non beve.

Un arboro di palme sta appoggiato
Allo scoglio, e in tel tronco è brozzoloso;
C'è un coccodrillo poi, mezzo arrizzato,
E dereto a un canton quasi nascosto.
Et ecco, che già tutto v'ho mostrato,
Sol resta a dirvi, che fu autor famoso
Di quest'opera granne, (et io m'inchino
Alle sue grolie), il Cavalier BERNINO.

Quest'è il loco, pe' dove ce spasseggia
Chi vuò godè un po' d'aria inzeffirita;
Più d'ogn'altra 'sta piazza si corteggia,
Quanno la staggion calla è inferocita.
Hor dunque Meo, ch'ai par dell'acqua ondeggia
Con la su' mente incerta e impenzierita,
Gira qui attorno si, ma più che mai,
Senza riposo havè, si trova in guai.

Così tra sè poi sotto voce parla:
"Non me credevo Amor! non me credevo,
Che pretendessi ad un par mio sonarla:
A Nuccia un pò di bene glie volevo,
Ma che m'havesse da bruscià il lassarla
Non lo sapevo a fe', non lo sapevo;
Che s'a 'sto brusciacore io ce pensavo,
Priopio con lei, non favo amor, non favo.

 
 
 
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Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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