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Il Meo Patacca 02-3

Post n°1218 pubblicato il 18 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

"Il Meo Patacca, ovvero Roma in feste ne i trionfi di Vienna" di Giuseppe Berneri

Titolo completo e frontespizio: Il Meo Patacca ovvero Roma in Feste ne i Trionfi di Vienna. Poema Giocoso nel Linguaggio Romanesco di Giuseppe Berneri Romano Accademico Infecondo.
Dedicato all'Illustriss. et Eccellentiss. Sig. il Sig. D. Clemente Domenico Rospigliosi. In Roma, per Marc'Antonio & Orazio Campana MDCXCV. Con licenza de' Superiori.

Fava PATACCA intanto el su' disegno,
Di prestamente accorrere al bisogno
Della Città assediata et al su' ingegno
Dava lode, perchè già inteso ha 'l sogno.
Poi s'affaccia a sentì, s'ancor lo sdegno
Della grima è fornito, e 'l su' rampogno.
E mentre alla finestra s'intrattiene,
Gli pare di vedè Nuccia che viene.

Perchè la donna è da lontano assai,
Non pò scernere ancor, se sia colei,
Guarda, riguarda, e non fornisce mai
Di riguardà; s'accorge alfin ch'è lei:
"Me viè sicuro a raccontà i su' guai,
(Dice tra sè), che vorrà mai costei?
Come treccola in prescia, e viè de trotto.
Me manca adesso de sentì' sto fiotto".

Questa è amante di MEO, ma spasimata
A seguo tal, ch'attorno a lui si stregola;
Ma 'l vero bigna dire, ch'è onorata,
E che non puzza gnente de pettegola.
Non ha altro mal, ch'è troppo innamorata,
E che l'affetto suo punto non regola.
Spera ch'un dì la faccia MEO sua sposa,
Lui manco sa, se farà mai tal cosa.

Alza el grugno all'in su la pavoncella,
Quanno ch'arriva alla finestra sotto;
Azzenna a MEO, con darglie un'occhiatella,
Che vuò salì. PATACCA intenne el motto,
Appena tira lui la cordicella,
Che prima della ciospa entra de botto
Nuccia, e mentre va sù senza aspettalla,
Fa un basciamano a MEO, che viè a incontralla.

PATACCA te glie renne la pariglia,
Facendotene un altro più sfarzoso,
Presto la sedia di cordame piglia,
Acciò, s'è gnente stracca, habbia riposo;
Viè poi la vecchia, e mentre la spomiglia,
Si leva, con ghignetto saporoso
Saluta MEO, perchè ci ha confidenza,
E a piedi pari gli fa riverenza.

Lui l'invita a sedè; ma lei ritrosa
Dice: "Questo mi par che non convenga;
Scusatimi signor, che non è cosa,
Ch'io quì tra voi a mettere mi venga".
Nuccia, che de parlane è presciolosa
Glie commanna, che più non si trattenga.
Lei risponne: "Ubbidir è mio dovere",
E si mette a sedè sopra un forziere.

Voltasi Nuccia allora a MEO PATACCA,
Così gli parla: "Embè che nova è questa,
Che di te sento dir così bislacca,
Ch'a questo cor saria troppo molesta?
Dimmi, s'è avviso vero, o nova stracca,
Ch'a te un crapiccio sia saltato in testa,
D'andar senza raggion, senza consiglio,
Ad incontrar in guerra il tuo periglio".

"E che? forzi non ho raggion da vennere",
Rispose MEO, "e non s'havrà a commattere
Contro del Turco infame, che pretennere
Ce vuò, de piglià Vienna, e i nostri abbattere?
Giuro a Baccone, che ne voglio stennere,
Quanti con io là se verranno a imbattere.
PATACCA non sarò, non sarò quello,
Se de frabutti non ne fò un macello.

Ce saranno con me, sì ce saranno,
Credi Nuccia alle cose, che dich'io,
Cinquecent'altri sgherri, e tutti havranno
Quasi quasi un valor simile al mio".
Ma lei, ch'intrattenè non può l'affanno,
"Oh quanto, - dice, - è vano il tuo desìo!
Ah, che già questo t'ha levato i senzi,
Vai la morte a incontrar, e non ci penzi!".

Da capo a' piedi io già stremir mi sento,
E già i spasimi al cor mi son venuti,
Pensando, che vuoi far combattimento
Con quella razza d'asini forzuti.
E a chi non metteriano spavento
Quei brutti ceffi d'homini baffuti?
In vederli dipinti il cor mi salta,
Per la paura, e allor tremo tant'alta".

"Pur troppo è verità! "da fianco scappa
La ciospa e dice: "Eh! date orecchio, o figlio
Alla signora Nuccia, che non sfrappa,
Ma vi dà con giudizio un bon consiglio;
Scuro quel poveraccio, che c'incappa...".
Più seguità non può, perchè un sbaviglio,
Che fece longo longo l'impedisce;
Poi cominza a tossì, nè mai finisce.

Ripiglia intanto MEO: "Non più parole!
Ciarlate proprio come sarapiche.
Un par mio non dà retta a donnicciole,
Che son di grolia, e di valor nemiche.
Sì, che ci voglio annà, (dica chi vuole),
In guerra a sbaraglià squadre nemiche:
Tu parli per amor, (vorria scusarte),
Ma quest'amor, bigna che ceda a Marte".

"Lo sò, crudel! Lo sò che tu non m'ami",
Dice allor Nuccia, "e che lasciar mi vuoi,
Lo sò, che solo idolo tuo mi chiami
Per farmi scherno dell'inganni tuoi.
Và, discortese, và dove più brami,
Godi in tradirmi, e come far lo puoi?
Dimmi, che t'ho fatt'io? Ma troppo ho errato,
Perchè amare è gran colpa un core ingrato.

Me la merito sì, me sta pur bene
Questa, ch'ai cor mi dài sì cruda stretta,
Et il gran gusto, ch'hai delle mie pene,
Se troppo nell'amarti io corzi in fretta.
Ma senti quel ch'a te operar conviene,
Prima d'andar de i Turchi a far vendetta:
Tu di te stesso vendicar ti dei,
Se con Nuccia, che t'ama, un Turco sei.

Ma se infierir non vuoi contro te stesso,
Per conservarti alle tue gran prodezze,
Già, ch'il pensiero in capo ti sei messo,
Ch'habbi a provà del tuo rigor l'asprezze,
Almen, (di dir così, mi sia concesso),
Per avvezzarti a barbare fierezze,
E di pietà per non haver più niente,
Strazji incomincia a far d'un'innocente.

Carico allor sarai di quelle lodi,
Che bastano a dar credito a un guerriero,
Per haver maltrattata in mille modi
Chi un finto cor seguì, con amor vero.
Ma forse in vita me lasciar tu godi,
Per farti allor nella pietà più fiero:
Ben sai, ch'io proverò, (dura mia sorte!)
Con viver al dolor, peggio che morte.

Viverò sì, ma cibbo mio saranno
I sospiri, ch'un barbaro alimento
Al core infelicissimo daranno
Ministrati per mano del Tormento.
La bevanda le Lagrime offriranno,
(Affogatoci dentro il mio Contento).
E farò allor, della mia vita a scorno,
Senza saziarmi mai, più pasti il giorno".

Mentre così parlava Nuccia bella
Fattoci studio, in punta di forchetta,
Per esser dottorina e saputella,
Che non par, benchè sia, romaneschetta,
Fisso la guarda MEO, che s'appuntella
La guancia con la mano, e queto aspetta
Che fornisca di dir. D'essa all'angosce,
In lui chalche pietà già si conosce.

"Quietati, - dice, - Nuccia, perchè hai torto,
A fa' con me tante frollosarìe.
Vuoi sol della partenza il disconforto,
E gnente penzi alle vittorie mie,
E non sai, ch'alla guerra, io farò 'l morto,
E buscherò delle galantarie?
Sappi, che i Turchi, (a me già par d'haverle),
A iosa ne i turbanti hanno le perle.

Bel ramaccià, che voglio fà di queste,
Quanno, che scapocciati ho quei babussi;
Maneggiarò le mescole assai preste,
Massime intorno alli Bassà, e Chiassi,
Perchè costoro, cariche le teste
Hanno di gioie, e marciano con lussi;
E come torno poi, che te regalo,
Voglio, che tu, ce pozzi fa' gran scialo".

"S'altri doni non ho, - risponne Nuccia, -
Di quei, che tu mi porti, io starò fresca!
O ritorni appoggiato a una cannuccia,
Quanno salvà la vita ti riesca,
O pur, se ricco venghi, una fettuccia
Manco mi donaresti, e non t'incresca,
Ch'il dica, perchè sò, dal duol trafitta,
Che più nel libro tuo non ci stò scritta.

Se fuor della Città un sol passo dài,
Allor di me, tu subbito ti scordi,
Come se vista non m'havessi mai,
E più del mio dolor non ti ricordi,
E mentre il sodo et il guerrier ci fai,
Forse con altra a far l'amor t'accordi.
Sarà di me più bella, io posso dirti,
Ma non di me più pronta nel servirti".

Sta attenta monna Tuzia, e manco sbatte
Le palpebre, e a parlà così si mette:
"O quante son le cose, che v'ha fatte
Signor MEO, quante notti in piedi stette,
Hora ad innamidarvi le corvatte,
Ora a turarvi i busci alle calzette;
E quante volte, e furno pur parecchie,
V'ha ripezzate le camiscie vecchie.

Non vi si dice nò, per rinfacciarvi,
Quel che fece per voi con il suo stento,
Mentre lei nel servirvi, et acconciarvi
Provò, per vostr'amore ogni contento,
Ma solo, perchè habbiate a ricordarvi,
Ch'è crudeltà di darglie 'sto tormento.
Se così la piantate, per dolore,
Questa povera figlia se ne more".

Piagneva intanto Nuccia, et il singozzo
Gli annava intrattenenno li sospiri,
E puro chalchedun glie n'esce smozzo
Tra l'affannati e languidi respiri.
Questi, (tacer la verità non pozzo),
Son della donna soliti riggiri,
Se vuò, ch'in cor d'un'homo amor rinasca,
Fa quattro lagrimuccie, e il gonzo casca.

Così succede a MEO, che intenerito
A i piantusci di lei, par che pietoso
La guardi, e di partir mezzo pentito,
Tra 'l sì, tra 'l nò, sta tutto penzieroso.
Dice: "Nuccia! Non più, tutto ho sentito,
Bigna alla mente dar chalche riposo.
Va, ch'è già tempo, e lassarne un pò stane,
Ch'io meglio penzerò quel ch'ho da fané".

S'alza in piedi, e s'avvia verzo la porta;
Fan l'istesso le donne, e Nuccia allora,
Ch'in far azzi d'amor fu sempre accorta,
Scegne il primo scalin, nè parla ancora;
Torce un pò 'l capo, e lagrimosi porta
I sguardi verzo MEO, che più s'accora.
Poi, senza rinovar altre querele,
Solo gli dice: "Ah non partir crudele".

Van così via le donne, e lui s'arresta,
Come intontito, della scala in cima,
Et a vederlo con la faccia mesta,
Più non pare lo sgherro, ch'era prima.
Quel, che poi succedè di dir mi resta,
Ma già sento che stracca è la mia rima,
Ch'il canto è divenuto e fiacco e roco,
Però è dover, ch'io mi riposi un poco.

Fine del Secondo Canto

 
 
 
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Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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