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Il Meo Patacca 02-2

Post n°1216 pubblicato il 18 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

"Il Meo Patacca, ovvero Roma in feste ne i trionfi di Vienna" di Giuseppe Berneri

Titolo completo e frontespizio: Il Meo Patacca ovvero Roma in Feste ne i Trionfi di Vienna. Poema Giocoso nel Linguaggio Romanesco di Giuseppe Berneri Romano Accademico Infecondo.
Dedicato all'Illustriss. et Eccellentiss. Sig. il Sig. D. Clemente Domenico Rospigliosi. In Roma, per Marc'Antonio & Orazio Campana MDCXCV. Con licenza de' Superiori.

Calfurnia allor: "Questo a 'na para mia?
E questa è la mercede, che mi dai?
Forse ti par, che qualche donna io sia,
Da merita i strapazzi, che mi fai?
Perchè o crudel, tu m'usi villania
Quand'io tal civiltà con te n'usai?
O tu mantietti, qua! sin hor sei stato,
O lascia d'esser giovane garbato".

"Co' 'ste tu' ciancie no, non me la ficchi,
Co' 'ste frollosarìe non m'infinocchi"
Disse MEO. "Con ingiurie tu me picchi,
E poi non vuoi, ch'io contro te tarrocchi?
Non ci ho in testa, non ci ho grilli, nè chricchi
Nè accurre che 'sto tasto tu me tocchi:
Ch'il cancaro te venghi, e rogna, e tigna,
Vecchiaccia strega, perfida e maligna.

Più non pozzo havè flemma, già me sale
La mosca al naso, e tu qui incocci ancora?
Te dò 'no sganassone in sul guanciale,
Te fo' schizza quei pochi denti fora.
Va, che se no, te butto pe' le scale,
E d'ubbidì te verrà voglia allora".
Lei non se move, e fa di piagner finta,
E lui de posta te glie dà una spinta.

Bello stolzà fece la ciospa allora.
Da quella sedia, in dove assisa stava.
Schioppò in terra de fatto, e peggio ancora
Poteva havè, se via non scivolava.
Fece a zompi le scale, e mezza fora,
E mezza drento della porta stava,
Perch'era un po' socchiusa; alfin poi scappa
Con furia, e in tell'uscir, tutta si strappa.

S'accorge allor, ch'è un pianellon restato
A mezze scale, e che camina zoppa;
Vorria torna a pigliallo, ma infoiato
Vede Patacca, ch'all'in giù galoppa;
Vorria strilla, ma non glie serve el fiato,
E MEO la mira addrizza in su la groppa
Mentre dice: "Tò, piglia, vecchia becca".
Con la pianella in su la gobba azzecca.

Fa uno strillo Calfurnia così orrenno,
Che s'affacciano tutti li vicini,
Porta in man le pantofole currenno,
E non se cura d'imbrattà i scarpini;
Se n'entra in casa sua, sempre temenno,
Che PATACCA glie dia novi crostini.
Perchè dubbio di ciò non glie rimanga,
Serrò la porta, e ce mettè la stanga.

Va su de prescia, e in te la vesta inciampa,
Che longa glie strascina, e più la straccia,
Se su ci mette hor l'una hor l'altra zampa.
Arriva sopra, e lo scuffin si slaccia,
Il foco ha nelle guancie, e d'ira avampa
E alla finestra subbito s'affaccia.
A quella di PATACCA si rivolta,
E grida forte, e ogni vicin l'ascolta.

"Ah infame, traditor! senza creanza,
Indegno! ciurmator! bravo in credenza !
Pieno d'inganni! pieno d'arroganza!
Tutto riggiri! tutto impertinenza!
Possi per terra strascinà la panza,
Della tu' razza non ci sia semenza,
Che possi esser dal boia strangolato,
E a coda de cavallo strascinato".

Così dice, e la schiuma dalla bocca
d'esce pe' rabbia, e l'impannate sbatte,
Le serra de potenza, e ancor tarrocca,
Ma gran fischiate allor glie furno fatte.
Per non sentirne più, tacer glie tocca,
Se mette in piede certe su' ciavatte
E perchè attorno un su' cagnol glie gira,
Una ne piglia in mano, e glie la tira.

Fece MEO, pè mostra ch'era homo sodo,
A 'ste chiassate orecchia de mercante;
Stava penzanno, spasseggianno, el modo,
D'interpretà quel sogno stravagante.
Per sviluppà quell'intrigato nodo,
Stima de non havè saper bastante;
Rumina, e dice doppo ruminato:
"Ecco del sogno el fonno ho già trovato.

Laùt al campo è ver, che c'inciampai,
Ma però l'onor mio non ce perdei,
Perchè in piede assai lesto ce restai,
Gnente per questo già m'intrattenei.
Altro che Turchi non ponn'esser mai
I fonghi, che già cavoli vedei,
E l'osservalli sol, prova è bastante,
Perchè il fongo è un Turchetto col turbante.

Quel cavolo, che l'altri alla statura,
Fà parer regazzini, e lui pedante,
Giusto del gran Vissir è la figura,
Che delli Turcaccioli è il commannante.
Non voglio altro sapè, ciò m'assicura,
Che là in guerra farò prove tamante,
S'a trincia fonghi in sogno hebb'io penziero,
Questo co' i Turchi io poi farò da vero".

Tanto gusto non ha, nè si consola
A 'sto segno una donna, che smarrita
Cercò per molti giorni una cagnola,
Senza sapè, dove glie sia fuggita,
Quanno, ch'allimproviso la bestiola
Glie viene da chalchun restituita,
Quanto n'hà MEO, che crede haver trovato
Del suo gran sogno il ver significato.

Si gonfia, ci pretenne, e non la cede
Manco a un stroligo, e manco a un indovino
Nell'azzeccane a quel c'ha da succede,
Glie pare da sapè più de Merlino.
Intanto si divolga, e piglia piede
La nova, che PATACCA el su' camino
Vuò far inverso VIENNA, risoluto
De dar con i su' sgherri a quella aiuto.

Lo sa 'na certa Nuccia romanesca,
E se n'accora, quanto dir se possa,
Ma c'è calche raggion, che glie rincresca,
Perchè di lui l'amor glie va per l'ossa.
Nell'interno, a una nova così fresca,
Si sentì pe' dolor tutta commossa,
Crede e non crede, e mentre in ciò patisce,
Non è contenta, se non se ciarisce.

Se ne và al pozzo subbito de posta,
E piglia in un catin l'acqua dal secchio,
In camera lo porta, e poi s'accosta
Vicino al muro in dove sta lo specchio.
Bagna un panno di lin, che tien lì a posta,
Che bianco di bucata è un straccio vecchio;
Un certo impiastro poi sopra ci caccia,
Strufina, e lustra fa venì la faccia.

Perchè d'usà quell'armi assai s'invoglia,
Che giovano d'amor nella battaglia,
Dà de mano ad un fiasco, e te lo spoglia
Levandogli la vesta ch'è di paglia.
Lo spezza, et è sottil com'una foglia,
Si capa un di quei vetri, che più taglia,
E per armarsi allor da bella figlia,
A foggia d'arco accomoda le ciglia.

Fatta 'sta cosa, subbito si veste,
E per annà su l'amorosa vita,
Un abbito se mette delle feste,
Col quale esser glie pare insignorita.
Di più fettuccie e cuffie, ma di queste
Ne farò poi descrizion compita,
Che già in penziero mi venì de dilla,
E voi ce scialarete in tel sentilla.

D'annar a trovà MEO s'è risoluta,
Che vuò sapè, se vera è la partenza,
Perchè ha spirito granne, et è braguta,
Và per non dargli di partì licenza.
La donna d'accompagno è già venuta;
Tuzia se ciama, e non ne va mai senza;
Zerbina è Nuccia, ma se l'altra vedi,
T'accorgerai, che non ha scarpe in piedi.

Spesso in città si fanno de 'ste scene:
Comparisce un'amazzone vestita
Con drappi marlettati, con catene,
Con perle, e gioje, e tutta ingalantita.
Co' sfarzo alla damesca se ne viene,
Glie và dereto, lacera, e scuscita
Ciospa, che penne cenci, e ogni perzona
S'accorge, ch'una guitta è la patrona.

Così Nuccia ce fa' la squarcioncella,
Ma poi, si sà, ch'è rancichetta, e sbriscia.
Pur cammina alla moda, e ce sverzella,
E pe' serva, menà se vuò la griscia.
Pè soprannome è detta Nuccia bella.
Come se picca, e come entra in valiscia,
Se così non la ciamano le genti,
Guai a lor, se l'havesse fra li denti.

Ha vint'ott'anni, e dirlo non si cura,
Che fa' la pupa tra le giovanette.
Benchè li mostri al viso e alla statura,
Non ne confessa più che dicissette;
Alta è di vita, e stretta di centura,
Brunettina, ha le guancie un pò rosciette,
Riccio e bruno è il capello, il viso allegro,
Assai bianchi li denti, e l'occhio negro.

È la vesta di tela, ma incarnata,
Piena di fiori di color turchino;
Da lontano par giusto riccamata,
Benchè diverza poi sia da vicino;
Puro fa vernia, et è robba stampata.
Di donne vili è un artifizio fino,
Un'usanza trovà, che dia nell'occhi,
E che costi alla fin pochi baiocchi.

Ha un bustarel di seta, ma rigato,
Di colori diverzi, assai zachenne,
Che pochi giorni prima in tel mercato
Crompo l'haveva, e lo pagò tre penne.
Più di quel ch'era l'ha poi lei lograto,
Se in casa sempre addosso se lo tenne;
Ma non gl'importa, se sia bello o brutto,
Perchè la sciarpa glie lo crope tutto.

La sciarpa è un nero e bel faraioletto
Fatto di taffettano o d'ormisino,
Crope alle donne e schina, e braccia, e petto,
E fà più scialo assai, s'è di lustrino.
Attorno da per tutto ha un gran marletto,
E al giro ancor, ch'al collo sta vicino;
Longa è denanzi, ma s'aggruglia, e caccia,
Perchè poi penda in giù, sott'alle braccia.

Nere sono, e puntute le scarpette,
Alto un terzo di palmo è il calcagnino,
E di legno, e a cropillo ce se mette
Pelle, ch'è di colore cremesino.
Sono alla moda, e calzano assai strette,
Così fà più comparza el bel piedino;
Sono scommode è ver, ma pur con queste
Le donne ce zampettano assai leste.

Ha i capelli all'usanza accommodati,
(Ch'a fà zerbinarìe le mani ha pronte),
Perchè all'in sù son tutti rivoltati,
Fanno restà scuperte, e guancie, e fronte.
Ricci poi sopra ricci incavalcati
Alzano in cima della testa un monte,
Pe' fallo regge in alto, e star a segno,
Di fil di ferro lo sostiè un ordegno.

C'è un bel galano in cima al zazzarino,
Ch'è largo e teso a coda di sparviero;
C'è sopra a foggia d'arco uno scuffino
Fatto de velo bianco assai leggiero;
Su questo, di colore cremissino,
Ci son più cappi, e Nuccia col cimiero,
(Perchè hà la faccia longarella e asciutta),
Benchè sia bella, comparisce brutta.

 
 
 
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Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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