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Della Casa 10: rime

Post n°1169 pubblicato il 01 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

XLVI

Come fuggir per selva ombrosa e folta
nova cervetta sòle,
se mover l'aura tra le frondi sente,
o mormorar fra l'erbe onda corrente,
così la fera mia me non ascolta;
ma fugge immantenente
al primo suon talor de le parole
ch'io d'amor movo: e ben mi pesa e dole,
ma non ho poi vigor, lasso dolente,
da seguir lei, che leve
prende suo corso per selvaggia via,
e dico meco: or breve
certo lo spazio di mia vita fia.

Ella sen fugge, e ne' begli occhi suoi
gli spirti miei ne porta
nel suo da me partir, lasciando a' venti
quant'io l'ho a dir de' miei pensier dolenti:
né già viver potrei, se non che poi
ritorna, e ne' tormenti,
onde questa alma in tanta pena è torta,
quasi giudice pio mi riconforta.
Non che però 'l mio grave duol s'allenti;
ma spero, e ragion fôra,
pietà trovar in quei begli occhi rei;
ond'io le narro allora
tutte le insidie e i dolci furti miei.

Né taccio ove talor questi occhi vaghi
sen van sotto un bel velo,
s'avien che l'aura lo sollevi e mova,
e come il dolce sen mirar mi giova
(non che l'ingorda vista ivi s'appaghi),
e qual gioia il cor prova
dove 'l bel piè si scopra, anco non celo:
così gli inganni miei conto e rivelo,
né questo in tanta lite anco mi giova.
Deh chi fia mai che scioglia
ver' la giudice mia sì dolci prieghi,
ch'almen non mi si toglia
dritta ragion, se pur pietà si nieghi?

Donne, voi che l'amaro e 'l dolce tempo
di lei già per lungo uso
saper devete, e i benigni atti e i feri,
chiedete posa a i lassi miei pensieri,
i quai cangiando vo di tempo in tempo;
né so s'io tema o speri,
già mille volte in mia ragion deluso:
sì m'ha 'l suo duro variar confuso,
e 'l dolce riso, e quei begli occhi alteri
vòti talor d'orgoglio,
ch'altrui prometton pace e guerra fanno.
Né già di lei mi doglio,
che 'n vita tiemmi con benigno inganno.

Pietosa tigre il cielo ad amar diemmi,
donne, e serena e piana
procella il corso mio dubbioso face:
onde talora il cor riposa e tace,
talor ne gli occhi e ne la fronte viemmi
pien di duol sì verace,
ch'ogni mia prova in acquetarlo è vana.
Allor m'adiro, e con la mente insana
membrando vo che men di lei fugace
donna sentìo fermarsi
a mezzo il corso, e se 'l buon tempo antico
non mente, arbore farsi,
misera, o sasso; e lacrimando dico:

Or vedess'io cangiato in dura selce,
come d'alcuna è scritto,
quel freddo petto; e 'l viso e i capei d'oro,
non vago fior tra l'erbe o verde alloro,
ma quercia fatti in gelida alpe, od elce
frondosa, e 'l mio di loro
penser, dolce novella al core afflitto,
contra quel che nel ciel forse è prescritto,
recar potesse. Ahi mio nobil tesoro,
troppo inanzi trascorre
la lingua e quel ch'i' non detto ragiona:
colpa d'Amor, che porre
le devria freno, ed ei la scioglie e sprona.

Canzon, tra speme e doglia
Amor mia vita inforsa, e ben m'avveggio
che l'altrui mobil voglia
colpando, io stesso poi vario e vaneggio.

Le Rime secondo la stampa del 1558
Lirici italiani del Secolo Decimosesto con annotazioni, di Luigi Carrer, Venezia, 1836, Canzone 3 (pag. 37)
Parnaso Italiano, Vol. 26, 1787, pag. 301

Note:
Se continuasse come incomincia, non avrebbe uguale in vaghezza.
St. 2, v. 7. Onde quest' alma in tanta pena è torta. Qui torto per tormentato, dal latino. Il vocabolario della Crusca non lo ammise, sebbene, come notarono il Quattromani e il Menagio, si legga nel lib. VIII, capo 1, della Guerra di Troja di Guido Giudice, il seguente passo: E quando Agamennone vide il suo fratello Menelao torto di tanto dolore, ec. (Venezia, 1481, in foglio). Ma gli Accademici leggevano forse nell'edizione napolitana del 1665, ove "il torto di" è fatto "involto in". Ad ogni modo basterebbe questo esempio del Casa per autorizzarne l'ammissione nel vocabolario. Vedi anche qui, dopo la nota alla st. 3, della canz. IV.
St. 3.1 primi cinque versi di questa strofa hanno forse inspirato al Tasso una delle ottave più voluttuose del suo poema; veggasi, da chi ama i confronti, la Gerusalemme, c. IV, st. 32.
St. ult, v. 6-7. E 'l mio di loro - Penser dolce. Come altrove, son. II, il mio di voipensier fido e soave.
(Carrer, cit., pag. 315)

La metafisica della Canzone è degna dei riflessi d'un genio, che ama la poesia dell'intelletto. E' permesso con queste due righe richiamare il lettore a una lentezza necessaria sopra i versi d'un grande poeta, che scrivea più spesso colla meditazione, che colla penna.
(Rubbi, cit., 301)



XLVII

Errai gran tempo, e del camino incerto
misero peregrin molti anni andai
con dubbio piè, sentier cangiando spesso,
né posa seppi ritrovar giamai
per piano calle o per alpestro ed erto,
terra cercando e mar lungi e da presso:
tal che 'n ira e 'n dispregio ebbi me stesso,
e tutti i miei pensier mi spiacquer poi
ch'i' non potea trovar scorta o consiglio.
Ahi cieco mondo, or veggio i frutti tuoi
come in tutto dal fior nascon diversi!
Pietosa istoria a dir quel ch'io soffersi,
in così lungo esiglio
peregrinando, fôra:
non già ch'io scorga il dolce albergo ancora,
ma 'l mio santo Signor con novo raggio
la via mi mostra, e mia colpa è s'io caggio.

Nova mi nacque in prima al cor vaghezza,
sì dolce al gusto in su l'età fiorita,
che tosto ogni mio senso ebro ne fue;
e non si cerca o libertate o vita,
o s'altro più di queste uom saggio prezza,
con sì fatto desio com'i' le tue
dolcezze, Amor, cercava; e or di due
begli occhi un guardo, or d'una bianca mano
seguìa le nevi, e se due trecce d'oro
sotto un bel velo fiammeggiar lontano,
o se talor di giovenetta donna
candido piè scoprìo leggiadra gonna
(or ne sospiro e ploro),
corsi, com'augel sòle
che d'alto scenda e a suo cibo vole.
Tal fur, lasso, le vie de' pensier miei
ne' primi tempi, e camin torto fei.

E per far anco il mio pentir più amaro,
spesso piangendo altrui termine chiesi
de le mie care e volontarie pene,
e 'n dolci modi lacrimare appresi,
e 'n cor piegando di pietate avaro
vegghiai le notti gelide e serene,
e talor fu ch'io 'l torsi; e ben convene
or penitenzia e duol l'anima lave
de' color atri e del terrestre limo,
ond'ella è per mia colpa infusa e grave:
ché se 'l ciel me la diè candida e leve,
terrena e fosca a lui salir non deve.
Né pò, s'io dritto estimo,
ne le sue prime forme
tornar giamai, che pria non segni l'orme
pietà superni nel camin verace,
e la tragga di guerra e ponga in pace.

Quel vero Amor dunque mi guidi e scorga
che di nulla degnò sì nobil farmi;
poi per sé 'l cor pure a sinistra volge,
né l'altrui pò né 'l mio consiglio aitarmi,
sì tutto quel che luce a l'alma porga
il desir cieco in tenebre rivolge.
Come scotendo pure alfin si svolge
stanca talor fera da i lacci e fugge,
tal io da lui, ch'al suo venen mi colse
con la dolce esca ond'ei pascendo strugge,
tardo partimmi e lasso, a lento volo;
indi cantando il mio passato duolo,
in sé l'alma s'accolse,
e di desir novo arse
credendo assai da terra alto levarse:
ond'io vidi Elicona, e i sacri poggi
salii, dove rado orma è segnata oggi.

Qual peregrin, se rimembranza il punge
di sua dolce magion, talor se 'nvia
ratto per selve e per alpestri monti,
tal men giv'io per la non piana via
seguendo pur alcun ch'io scorsi lunge,
e fur tra noi cantando illustri e conti.
Erano i piè men del desir mio pronti,
ond'io del sonno e del riposo l'ore
dolci scemando, parte aggiunsi al die
de le mie notti anco in quest'altro errore,
per appressar quella onorata schiera.
Ma poco alto salir concesso m'era.
Sublimi elette vie,
onde 'l mio buon vicino
lungo Permesso feo novo camino,
deh come seguir voi miei piè fur vaghi!
Né par ch'altrove ancor l'alma s'appaghi.

Ma volse il penser mio folle credenza
a seguir poi falsa d'onore insegna,
e bramai farmi a i buon di fuor simile:
come non sia valor, s'altri no 'l segna
di gemme e d'ostro, o come virtù senza
alcun fregio per sé sia manca e vile.
Quanto piansi io, dolce mio stato umile,
i tuoi riposi e i tuoi sereni giorni
vòlti in notti atre e rie, poi ch'i' m'accorsi
che gloria promettendo angoscia e scorni
dà il mondo, e vidi quai pensieri e opre
di letizia talor veste e ricopre.
Ecco le vie, ch'io corsi,
distorte: or vinto e stanco,
poi che varia ho la chioma, infermo il fianco,
volgo, quantunque pigro, indietro i passi,
ché per quei sentier primi a morte vassi.

Picciola fiamma assai lunge riluce,
canzon mia mesta, e anco alcuna volta
angusto calle a nobil terra adduce.
Che sai, se quel pensero infermo e lento
ch'io mover dentro a l'alma afflitta sento,
ancor potrà la folta
nebbia cacciare, ond'io
in tenebre finito ho il corso mio,
e per secura via, se 'l ciel l'affida,
sì com'io spero, esser mia luce e guida?

Le Rime secondo la stampa del 1558
Lirici italiani del Secolo Decimosesto con annotazioni, di Luigi Carrer, Venezia, 1836, Canzone 4 (pag. 40)
Parnaso Italiano, Vol. 26, 1787, pag. 305

Note:
Bellissima fra le canzoni del Casa, da competere colle più belle del Petrarca e di tutta la poesia italiana. Il Tasso, oltre le lodi amplissime date a questa canzone nel dialogo altra volta citato della Cavalletta, ne imitò visibilmente il cominciamento nell' ottantesimoterzo sonetto de' suoi amorosi: Arri gran tempo e del mio foco indegno, ec.
St. 2, v. 9, e segg. E se due treccie d'oro, ec. Ricalca l'idee con cui è principiata la stanza terza della canz. antecedente, ma con più modestia.
Si 3, v. 5. E 'n cor piegando, ec. E 'n cor pregando leggesi nel più delle recenti edizioni, ma senza conforto d'autorità o di ragioni. Il codice Melchiori ha piangendo. Ho lasciato correre piegando perchè sta nelle antiche stampe, e risponde al "torsi" del settimo verso. Il Casa ama ripetersi nelle frasi, e ciò darebbe nuovo soggetto a pensare sulla vera intenzione del poeta nell'uso del torta notato nella st. 2, v. 7, della canz. III.
St. 4, v. 3. Poi per poichè, usato da altri poeti. Petrarca, fra gli altri: Ma poi vostro destino a voi pur vieta (parte I, son. XLI, v. 12).
St. 5, v. 5. Seguendo pur alcun, per alcuni; troncamento da notare.
V. 14. Onde 'l mio buon vicino. Intendi il Petrarca nato in Arezzo, ossia nella stessa Toscana dov' era nato il Casa. E il Petrarca aveva detto in morte di Cino:
Pianga Pistoia, e i cittadin perversi,
Che perdut'hanno sì dolce vicino.
Dopo il Casa, il Tasso, in un sonetto a Gio. Donato Cuchetti, parlando del Sannazzaro:
Ciò che ammirò già Manto e Siracusa
Ne' due famosi, e ciò che al mio vicino
Dettò già spirto di celeste Musa.
St. 6, v. 4-5. "Come non sia valor s'altri nol segna - Di gemme e d'ostro". Con piccola mutazione, vedi qui addietro il principio del sonetto XLIV.
(Carrer, cit., pag. 316)



XLVIII

Come splende valor, perch'uom no 'l fasci
di gemme o d'ostro, e come ignuda piace
e negletta virtù pura e verace,
Trifon, morendo esempio al mondo lasci.

E col ciel ti rallegri, e 'n lui rinasci
come a parte miglior translato face
lieto arboscel talora, e 'n vera pace
ti godi e di saper certo ti pasci.

Né di me, credo, o del tuo fido e saggio
Quirino unqua però ti prese oblio,
ch'ambo i vestigi tuoi cerchiam piangendo:

ei dritto e scarco e pronto in suo viaggio,
io pigro ancor, pur col tuo specchio amendo
gli error che torto han fatto il viver mio.

Le Rime secondo la stampa del 1558
Lirici italiani del Secolo Decimosesto con annotazioni, di Luigi Carrer, Venezia, 1836, Sonetto 44 (pag. 23)
Parnaso Italiano, Vol. 26, 1787, pag. 310

Note:
In morte di Trifon Gabriele veneziano, uomo dottissimo, e detto il Socrate de'suoi tempi. E diretto a Girolamo Quirini. A questo Gabriele medesimo indirizzò il Bembo quel suo che incomincia, Trifon, che 'n vece di ministri e servi; e il Varchi l'altro, La riposata vostra e lieta vita. Vedi anche l'Ariosto nell' enumerazione de'begli ingegni del suo tempo. Orlando furioso, canto ultimo.
(Carrer, cit., pag. 308)



XLIX

Poco il mondo giamai t'infuse o tinse,
Trifon, ne l'atro suo limo terreno,
e poco inver' gli abissi onde egli è pieno
i puri e santi tuoi pensier sospinse.

E or di lui si scosse in tutto e scinse
tua candida alma, e leve fatta a pieno
salìo, son certo, ov'è più il ciel sereno,
e quanto lice più ver' Dio si strinse.

Ma io rassembro pur sublime augello
in ima valle preso, e queste piume
caduche omai pur ancor visco invoglia,

lasso; né ragion pò contra il costume:
ma tu del cielo abitator novello
prega il Signor che per pietà le scioglia.

Le Rime secondo la stampa del 1558
Lirici italiani del Secolo Decimosesto con annotazioni, di Luigi Carrer, Venezia, 1836, Sonetto 45 (pag. 23)
Parnaso Italiano, Vol. 26, 1787, pag. 311

Note:
Ha lo stesso argomento dell'antecedente. Pompeo Garigliano l' espose in una delle cinque Lezioni recitate nell'accademia degli Umoristi in Roma, e quindi stampate in Napoli nel 1616.
(Carrer, cit., pag. 309)



L

Curi le paci sue chi vede Marte
gli altrui campi inondar torbido insano,
e chi sdruscita navicella invano
vede talor mover governo e sarte,

ami, Marmitta, il porto. Iniqua parte
elegge ben chi il ciel chiaro e sovrano
lassa, e gli abissi prende: ahi cieco umano
desir, che mal da terra si diparte!

Quando in questo caduco manto e frale,
cui tosto Atropo squarcia e no 'l ricuce
giamai, altro che notte ebbe uom mortale?

Procuriam dunque omai celeste luce,
ché poco a chiari farne Apollo vale,
lo qual sì puro in voi splende e riluce.

Le Rime secondo la stampa del 1558
Lirici italiani del Secolo Decimosesto con annotazioni, di Luigi Carrer, Venezia, 1836, Sonetto 46 (pag. 24)
Parnaso Italiano, Vol. 26, 1787, pag. 312

Note:
È scritto il presente sonetto in risposta ad uno del Marmitta, che incomincia: Se l'onesto desio che 'n quella parte. Di Jacopo Marmitta vedi la nostra raccolta a pag. 112, e le note a quel luogo. Sopra questo sonetto compose una lezione il dottor Giuseppe Bianchini, e la lesse nell'Accademia fiorentina il 5 giugno 1711: è stampata nell'ultimo volume dell' edizione del Pasinello. Cito quanti più mi cadono sott'occhio di tali lavori composti intorno le rime del Casa, perchè si vegga il gran conto che in ogni tempo e da ogni ordine di letterati si fece di questo poeta.
V. 5-6. Iniqua parte- Elegge ben. E frase evangelica: Maria optimam partem elegit.
(Carrer, cit., pag. 309)

 
 
 
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