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Della Casa 09: rime

Post n°1165 pubblicato il 31 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

XLI

Ben mi scorgea quel dì crudele stella
e di dolor ministra e di martìri,
quando fur prima vòlti i miei sospiri
a pregar alma sì selvaggia e fella.

O tempestosa, o torbida procella,
che 'n mar sì crudo la mia vita giri!
donna amo io ch'Amor odia e suoi desiri,
che sdegno e feritate onore appella.

Qual dura quercia in selva antica, od elce
frondosa in alto monte, ad amar fôra,
o l'onda che Caribdi assorbe e mesce,

tal provo io lei, che più s'impetra ogniora
quanto io più piango, come alpestra selce
che per vento e per pioggia asprezza cresce.

Le Rime secondo la stampa del 1558
Rime di diversi Ecc. Autori, in vita, e in morte dell'Ill.S.Livia Columnae, 1555, pag. 64
Lirici italiani del Secolo Decimosesto con annotazioni, di Luigi Carrer, Venezia, 1836, Sonetto 40 (pag. 21)
Parnaso Italiano, Vol. 26, 1787, pag. 292

Note:
Sonetto scritto per Livia Colonna in nome d'un Farnese. I terzetti così leggonsi in un manoscritto di Francesco Melchiori da Oderzo, che fu proprietà di Vincenzo Casoni, benemerito autore di alcune lettere intorno la vita e gli scritti del Casa, e da noi altra volta citato:

Ch' io non vo' dir del suo passato orgoglio;
Ma il fuggir novo quanto amaro mesce
Entro a quest'alma, e quanto aspro cordoglio!

E se pianto dal cor mi stilla ed esce,
Vie più s'impetra; come alpestre scoglio,
Che per pioggia e per vento asprezza cresce.

Altre varianti avrei potuto notare, ma di minore importanza, tratte dal codice stesso. Vedile tutte nella edizione del Pasinello, vol. I, pag. 278 e seg. Ebbe questo sonetto una Lezione di Girolamo Vecchietti, letta nell'Accademia fiorentina il 14 aprile 1583.
(Carrer, cit., pag. 308)



XLII

Già non potrete voi per fuggir lunge,
né per celarvi in monte aspro e selvaggio,
tôrmi de' bei vostri occhi il dolce raggio,
ché da me lontananza no 'l disgiunge.

Nel mio cor, donna, luce altra non giunge
che 'l vostro sguardo, e sole altro non aggio;
e s'egli è pur lontan, lungo viaggio
è breve corso, ove Amor sferza e punge.

Portato da destrier che fren non have,
pur ciascun giorno ancor, sì com'io soglio,
se veder mi sapeste, a voi ne vegno:

e con la vista lacrimosa e grave
fo mesti i boschi e pii del mio cordoglio.
Sola in voi di pietà non scorgo io segno.

Le Rime secondo la stampa del 1558
Rime di diversi Ecc. Autori, in vita, e in morte dell'Ill.S.Livia Columnae, 1555, pag. 64
Lirici italiani del Secolo Decimosesto con annotazioni, di Luigi Carrer, Venezia, 1836, Sonetto 41 (pag. 21)
Parnaso Italiano, Vol. 26, 1787, pag. 293

Note:
Tutti e tre questi sonetti sono scritti sullo stesso argomento della Colonnese. Il secondo si legge nelle lume di diversi in onore della dama surriferita, Roma, 1555. Notabile è nel v. 7 [Sonetto 42] l'uso della parola sparso per sparito o scomparso. Può essere stata sola necessità di rima che inducesse il poeta ad usarlo, ma non oserei dire che non potesse adoprarsi felicemente, anche tolta una tale necessità.
(Carrer, cit., pag. 308)



XLIII

Vivo mio scoglio e selce alpestra e dura,
le cui chiare faville il cor m'hanno arso;
freddo marmo d'amor, di pietà scarso,
vago quanto più pò formar natura;

aspra Colonna, il cui bel sasso indura
l'onda del pianto da questi occhi sparso:
ove repente ora è fuggito e sparso
tuo lume altero? e chi me 'l toglie e fura?

O verdi poggi, o selve ombrose e folte,
le vaghe luci de' begli occhi rei,
che 'l duol soave fanno e 'l pianger lieto,

a voi concesse, lasso, a me son tolte;
e puro fele or pasce i pensier miei,
e 'l cor doglioso in nulla parte ho queto.

Le Rime secondo la stampa del 1558
Lirici italiani del Secolo Decimosesto con annotazioni, di Luigi Carrer, Venezia, 1836, Sonetto 42 (pag. 22)
Parnaso Italiano, Vol. 26, 1787, pag. 294

Note:
Tutti e tre questi sonetti sono scritti sullo stesso argomento della Colonnese. Il secondo si legge nelle lume di diversi in onore della dama surriferita, Roma, 1555. Notabile è nel v. 7 [Sonetto 42] l'uso della parola sparso per sparito o scomparso. Può essere stata sola necessità di rima che inducesse il poeta ad usarlo, ma non oserei dire che non potesse adoprarsi felicemente, anche tolta una tale necessità.
(Carrer, cit., pag. 308)



XLIV

Quella, che lieta del mortal mio duolo,
ne i monti e per le selve oscure e sole
fuggendo gir come nemico sòle
me, che lei come donna onoro e colo;

al penser mio, che questo obietto ha solo
e ch'indi vive e cibo altro non vòle,
celar non pò de' suoi begli occhi il sole,
né per fuggir, né per levarsi a volo.

Ben pote ella sparire a me dinanzi,
come augellin che 'l duro arciero ha scorto
ratto ver' gli alti boschi a volar prende:

ma l'ali del penser chi fia ch'avanzi?
cui lungo calle e aspro è piano e corto,
così caldo desio l'affretta e stende.

Le Rime secondo la stampa del 1558
Rime di diversi Ecc. Autori, in vita, e in morte dell'Ill.S.Livia Columnae, 1555, pag. 63
Lirici italiani del Secolo Decimosesto con annotazioni, di Luigi Carrer, Venezia, 1836, Sonetto 43 (pag. 22)
Parnaso Italiano, Vol. 26, 1787, pag. 295

Note:
Tutti e tre questi sonetti sono scritti sullo stesso argomento della Colonnese. Il secondo si legge nelle lume di diversi in onore della dama surriferita, Roma, 1555. Notabile è nel v. 7 [Sonetto 42] l'uso della parola sparso per sparito o scomparso. Può essere stata sola necessità di rima che inducesse il poeta ad usarlo, ma non oserei dire che non potesse adoprarsi felicemente, anche tolta una tale necessità.
(Carrer, cit., pag. 308)



XLV

Amor, i' piango, e ben fu rio destino
che cruda tigre ad amar diemmi, e scoglio
sordo, cui né sospir né pianto move,
e come afflitto e stanco peregrino,
che chiuso a sera il dolce albergo trove,
pur costei prego, e pur con lei mi doglio;
né perché sempre indarno il mio cordoglio
al vento si disperga
sì come nebbia suol che 'n alto s'erga,
men dolermi con lei, né pianger voglio.
E così tinge e verga
ben mille carte omai l'aspro mio duolo:
però che 'l cor quest'un conforto ha solo,
né trova incontra gli aspri suoi martìri
schermo miglior che lacrime e sospiri.

Qual chiuso albergo in solitario bosco
pien di sospetto suol pregar talora
corrier di notte traviato e lasso,
tal io per entro il tuo dubbioso e fosco
e duro calle, Amor, corro e trapasso
fin là 've 'l dolce mio riposo fôra:
ivi pregando fo lunga dimora.
Né perch'io pianga e gridi,
le selve empiendo d'amorosi stridi,
lasso, le porte men rinchiuse ancora
del mio ricetto vidi;
né per lacrime antiche o dolor novo
posa, o soccorso, o refrigerio trovo.
Così fe' 'l mio destin, la stella mia,
sorda pietate in lei ch'udir devria.

O fortunato chi sen gìo sotterra,
e col suo pianto fea benigna Morte,
sì temprar seppe i lacrimosi versi:
se non che gran desio trascorre ed erra.
A me non val ch'i' pianga e 'l mio duol versi,
quanto m'è dato, in dolci note e scorte;
né del martiro che mi duol sì forte
in quei begli occhi rei
ancor venne pietade. E ben torrei
senza mirar la cruda mia consorte
girmen per via con lei,
fin ch'io scorgesse il ciel sereno e 'l die.
Poi che non ponno altrui parole, o mie,
impetrar dal bel ciglio atti men feri,
fa' tu, signor, almen sì ch'io no 'l speri.

Ch'io pur m'inganno, e 'n quelle acerbe luci,
per cui del mio dolor giamai non taccio,
dico le rime mie pietà desta hanno;
e forse (o desir cieco ove m'adduci?)
lacriman or sovra 'l mio lungo affanno,
e noia è lor quant'io mi struggo e sfaccio.
Così corro a madonna, e neve e ghiaccio
le trovo il cor, e 'nvano
di quel nudrirmi, ond'io son sì lontano,
col penser cerco; anzi più doglia abbraccio,
qual poverel non sano
cui l'aspra sete uccide e ber gli è tolto,
or chiaro fonte in vivo sasso accolto,
e ora in fredda valle ombroso rio
membrando, arroge al suo mortal desio.

Lasso, e ben femmi e assetato e 'nfermo
febre amorosa, e un penser nudrilla,
che gioia imaginando ebbe martiro.
Così m'offende lo mio stesso schermo,
non pur mi val; ché s'io piango e sospiro
incominciando al primo suon di squilla,
già non iscema in tanto ardor favilla:
anzi il mio duol mortale
cresce piangendo e più s'infiamma, quale
facella che commossa arde e sfavilla.
Fero destin fatale,
quando fia mai che la mia fonte viva,
perch'io pur lei nel cor formi e descriva
e per lei mi consumi e pianga e prieghi,
le sue dolci acque un giorno a me non nieghi?

Forse (e ben romper suol fortuna rea
buono studio talor) ne la dolce onda
ch'i' bramo tanto, almen per breve spazio
dato mi fia ch'un dì m'attuffi, e bea
fin ch'io ne senta il cor, non dico sazio,
però che nulla riva è sì profonda
qualora il verno più di piogge abonda,
ma sol bagnato un poco.
O fortunato il dì, beato il loco,
ben potrei dire, adversità seconda
mi diede Amore, e foco
m'accese il cor di refrigerio pieno,
s'un giorno sol, non avampando io meno,
la grave arsura mia, la sete immensa,
larga pietà consperge e ricompensa.

Che parlo? o chi m'inganna? a tanta sete
le dolci onde salubri indarno spera
il cor, che morta ha presso e mercé lunge.
Ma tu, signor, ché non più salda rete
omai distendi? e qual più adentro punge
quadrello, aventi a questa alpestra fera?
sì ch'ella caggia sanguinosa e pèra,
e quel selvaggio core
ne le sue piaghe senta il mio dolore;
e biasmando l'altrui cruda e guerrera
voglia, il suo proprio errore
e la sua crudeltà colpi e condanni:
e fia vendetta de' miei gravi affanni
veder ne' lacci di salute in forse
l'acerba fera, che mi punse e morse.

Già non mi cal s'in tanta preda parte,
canzon, non arò poi;
e so che raro i dolci premi suoi
con giusta lance Amor libra e comparte:
pur ch'ella, che di noi
sì lungo strazio feo, con le sue piaghe
la vista un giorno di questi occhi appaghe.
Ma, lasso, a la percossa ond'io vaneggio
vendetta indarno e medicina cheggio.

Le Rime secondo la stampa del 1558
Lirici italiani del Secolo Decimosesto con annotazioni, di Luigi Carrer, Venezia, 1836, Canzone 2 (pag. 34)
Parnaso Italiano, Vol. 26, 1787, pag. 296

Note:
Bella canzone, da anteporsi a quante il Casa ne scrisse, se non fosse la quarta; e quantunque frequente di lambiccature petrarchesche, calda a quando a quando di vera passione.
St. 3. Allude in tutta questa strofa alla nota favola di Orfeo. Pieno di forza e di verità è il concetto dell'ultimo verso, e, benchè accennato da altri e prosatori e poeti, non mai con tanta efficacia, e tanto a proposito quanto qui dal Casa.
St. 6, v. 1-2. "Romper suol fortuna rea - Buono studio talor". È modo proverbiale d'antico filosofo. V. Gio. Villani, lib. VII, cap. 3; e Matteo, lib. IV, cap. 33. Proverbio che, fosse pure non vero, conforta e nobilita la natura umana togliendola alla cieca soggezione della Fortuna.
V. 4. È voto più che discreto. E ricorda un consimile del Petrarca, parte I, sestina 1, v. 31-33.
(Carrer, cit., pag. 315)

 
 
 
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