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Della Casa 02: sonetti

Post n°1118 pubblicato il 24 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

VI

Nel duro assalto, ove feroce e franco
guerrer, così com'io, perduto avrebbe,
a voi mi rendei vinto; e non m'increbbe
privo di libertà pur viver anco.

Or tal è nato giel sovra 'l mio fianco,
che men fredda di lui morte sarebbe
e men aspra; ch'un dì pace non ebbe
l'alma con esso, né riposo unquanco.

Ove il sonno talor tregua m'adduce
le notti, e pur a' suoi martir m'invola,
questi del petto lasso ultimo parte:

poi come in sul mattin l'alba riluce,
io non so con quai piume o di che parte,
ma sempre nel mio cor primo sen vola.

Le Rime secondo la stampa del 1558
Lirici italiani del Secolo Decimosesto con annotazioni, di Luigi Carrer, Venezia, 1836, Sonetto 6 (pag. 4)
Parnaso Italiano, Vol. 26, 1787, pag. 254



VII

Io mi vivea d'amara gioia e bene
dannoso assai, ma desiato e caro,
né sapea già che 'l mio signor avaro
a' buon seguaci suoi fede non tene.

Or l'angeliche note e le serene
luci, che col bel lume ardente e chiaro
lieto più ch'altri in festa mi menaro
sì lungo spazio, fra tormenti e pene;

e 'l dolce riso, ov'era il mio refugio
quando l'alma sentia più grave doglia,
repente ad altri Amor dona e dispensa,

lasso: e fuggir devria di questa spoglia
lo spirto oppresso da la pena intensa;
ma per maggior mio mal, procura indugio.

Le Rime secondo la stampa del 1558
Lirici italiani del Secolo Decimosesto con annotazioni, di Luigi Carrer, Venezia, 1836, Sonetto 7 (pag. 4)
Parnaso Italiano, Vol. 26, 1787, pag. 255

Note:
Ricalca quello del Petrarca in vita di madonna Laura: Io mi vivea di mia sorte contento.
(Carrer, cit., pag. 301)



VIII

Cura, che di timor ti nutri e cresci,
e più temendo maggior forza acquisti,
e mentre con la fiamma il gielo mesci,
tutto 'l regno d'Amor turbi e contristi;

poi che 'n brev'ora entr'al mio dolce hai misti
tutti gli amari tuoi, del mio cor esci:
torna a Cocito, a i lagrimosi e tristi
campi d'inferno: ivi a te stessa incresci,

ivi senza riposo i giorni mena,
senza sonno le notti, ivi ti duoli
non men di dubbia che di certa pena.

Vattene: a che più fera che non suoli,
se 'l tuo venen m'è corso in ogni vena,
con nove larve a me ritorni e voli?

Le Rime secondo la stampa del 1558
Lirici italiani del Secolo Decimosesto con annotazioni, di Luigi Carrer, Venezia, 1836, Sonetto 8 (pag. 5)
Parnaso Italiano, Vol. 26, 1787, pag. 256
Scelta di Sonetti con varie Critiche osservazioni, ed una dissertazione intorno al sonetto in generale, Teobaldo Ceva, in Venezia, Presso Domenico Occhi, 1737, pag. 90

Note:
Sonetto notissimo nelle scuole, lodato dal Tasso, e dal Pallavicino nel trattato dello stile e dal Varchi, e dal Muratori, e da tutti; ma a parer mio più ingegnoso che appassionato, se non forse nell'ultima terzina, ove l'interrogazione ristora della stanchezza cagionata dal visibile artifizio dei versi antecedenti. Ad altri potrà sembrar altro; né io intendo spacciar lezioni, ma pareri. Il Varchi leggeva il secondo verso così: E tosto fede a' tuoi sospetti acquisti. V'ha chi dice imitato da uno del Bembo: Speme che gli occhi nostri veli e fasci, ec. E non è il solo che il Casa scrivesse premendo i vestigj di quel poeta, sempre però in modo che l'imitazione sovrasta.
(Carrer, cit., pag. 301)


IX

Danno (né di tentarlo ho già baldanza)
fuggir mi fôra il vostro ardente raggio,
bench'io n'avampi, o donna; e non vantaggio,
sì cara e di tal pregio è mia speranza.

E se talor contra l'antica usanza
mi fermo, e seguir voi forza non aggio,
fo come chi posando in suo viaggio
vigor racquista, e 'n ritardar s'avanza:

per poter poi, quando sì rio tal volta
con tai due sproni il mio signor mi punge,
correr veloce, e con ben salda lena.

Quanto la vostra luce alma m'è tolta,
tanto 'l diletto mio m'è posto lunge:
perch'io precorro Amor, ch'a voi mi mena.

Le Rime secondo la stampa del 1558
Lirici italiani del Secolo Decimosesto con annotazioni, di Luigi Carrer, Venezia, 1836, Sonetto 9 (pag. 5)
Parnaso Italiano, Vol. 26, 1787, pag. 257



X

Dolci son le quadrella ond'Amor punge,
dolce braccio le aventa, e dolce e pieno
di piacer, di salute è 'l suo veneno,
e dolce il giogo ond'ei lega e congiunge.

Quant'io, donna, da lui vissi non lunge,
quanto portai suo dolce foco in seno,
tanto fu 'l viver mio lieto e sereno;
e fia, finché la vita al suo fin giunge.

Come doglia fin qui fu meco e pianto,
se non quando diletto Amor mi porse,
e sol fu dolce amando il viver mio,

così fia sempre: e loda aronne e vanto,
che scriverassi al mio sepolcro forse:
Questi servo d'Amor visse e morìo.

Le Rime secondo la stampa del 1558
Lirici italiani del Secolo Decimosesto con annotazioni, di Luigi Carrer, Venezia, 1836, Sonetto 10 (pag. 6)
Parnaso Italiano, Vol. 26, 1787, pag. 258

Note:
Il voto dell'epitaffio è fantasia tibulliana. Ma nel latino si trova espressa con più affetto, perché determina più minutamente le circostanze della morte. In generale è sonetto lodatissimo dal Tasso nel "Discorso del Poema eroico". Questo e il seguente si citano da Mario Colonna in un suo "Ragionamento", per dimostrare che il Casa, volendo, sapeva comporre dolcissimamente.
(Carrer, cit., pag. 302)

 
 
 
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