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Rime di Celio Magno (284-299)

Post n°1098 pubblicato il 21 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Rime di Celio Magno

284

Dolce madre e di Dio sposa diletta,
Vergine sempre immaculata e pura,
specchio del sommo sol, bontà perfetta,
fonte di grazia in cui stupì Natura;
o del mondo salute, o benedetta
del ciel regina, o scorta a Dio sicura;
ricorro umile a te: porgimi aita,
che senza il tuo favor morta è mia vita.

285

Ragion è ben ch'in Dio non sol deponga
ma dentro orecchia d'uom la soma grave
de' miei gran falli: acciò più l'alma aggrave
rossor e tema, e al ciel più la disponga.

Ma perché d'uopo aver ch'altri le ponga
spron a virtute, e fren da voglie prave?
perché da sé non si vergogna e pave
tal ch'innanzi morir ch'errar proponga?

Io, vil fior matutin ch'a sera langue,
debil falda di neve al sole ardente,
che sarò tosto in sen di morte essangue;

contra il gran re del cielo onnipotente
che mi creò, che mi salvò col sangue,
ardirò l'opre armar, non che la mente?

286

Cristo oggi nacque; ond'io debbo mostrarmi
Lieto o dolente? E starne in festa o in lutto?
M'empie di gaudio il ben con lui produtto,
poi ch'in terra dal ciel venne a salvarmi;

ma tra la gioia il cor sento piagarmi
ch'ei colse del su' amor sì acerbo frutto,
in alto abisso di martir condutto,
degnando per sua morte a vita trarmi.

Benché, se 'l mio dever guardo e 'l suo merto,
che vale il mio gioir, che vale il pianto
a le sue fasce, a la sua croce offerto?

Tu, che nato per me patisti tanto,
con tua grazia fa degno il mio demerto:
e in me cresci a tua gloria e 'l duolo e 'l canto.

287

Qual sì fera, crudel, nefanda mano
sul duro legno il mio Signor confisse?
Perch'a se stesso il cor pria non trafisse
ch'esser a chi 'l fec'uom tanto inumano?

Ma che parl'io d'altrui, misero insano?
Io fui cagione ond'ei morte soffrisse
e che quel sangue immacolato uscisse
per lavar il mio lezzo empio e profano.

Io, quasi poco fosse il suo tormento,
con ingiusti desir, con perfid'opre
riporlo in croce mille volte or tento.

Oh quanta in me la sua pietà si scopre!
Poiché sì gravi error, quand'io me n' pento,
largo perdona, e col suo merto copre.

288

Sozzo verme son io, vil terra indegna
di serbar te mio vero alto tesoro,
cui con sì freddo affetto amo ed adoro,
sì ardente al falso ben che 'l mondo insegna.

Ahi cor mio cieco, or chi la luce sdegna
la notte amando, e 'l fango agguaglia a l'oro?
Dunque vita dispregio e morte onoro?
E, ragion posta in bando, il senso regna?

Ma qual mi sia, Signor, tu mi creasti
a tua sembianza; e mia carne prendendo
la mia bassezza a la tua gloria alzasti.

Ben infinita la mia colpa intendo;
ma nulla al sangue che per me versasti:
per cui mercé ti chieggo, umil piangendo.

289

O non più di terror, non più di morte
ma di vita e sperar pegno sicuro,
divin sepolcro, in cui deposte furo
le membra di Giesù, lacere e morte.

Oggi usciron di te vive e risorte,
in corpo pien di gloria eterno e puro,
acciò simil godesse il ben futuro,
fatta felice a pien l'umana sorte.

Così beò col suo morir nostr'alma,
e col risuscitar il fragil manto,
doppio in noi del su' amor trionfo e palma.

Infinità pietà, che per me tanto
sofferse, e presa in sé mia grave salma,
volse in premio la pena, in gioia il pianto.

290

Al signor Alberto Lavezuola per il cocchio prestato

Febo, se pur talor languidi e stanchi
i tuoi destrier dal camin lungo senti,
questi al carro non men destri e possenti
prendi e gli adopra insin chi tuoi rinfranchi.

Ma, se tu forse ancor ti sazi e stanchi
quando la via del ciel più ratta tenti,
ch'entri in tua vece il lor signor consenti;
né temer che poc'atto al freno ei manchi.

Splendor di senno e cortesia ch'appressi
più la tua luce, in null'altro dimora;
né d'esser caro a te, segni più espressi.

Poich'in Parnaso a lui tu presti ancora
la lira e 'l plettro co' tuoi carmi istessi,
onde ognun dopo te l'ama ed onora.

291

All'illustre signor Carlo Pallavicino ambasciator di Savoia

Trovar contra 'l dolor fermo riparo
quando sue piaghe in noi fortuna imprime,
di virtù splende infra le glorie prime
e prova è sol di spirto illustre e raro.

Tal voi del figlio estinto al colpo amaro,
signor, mostrate un cor franco e sublime,
e che 'l voler di Dio per voi si stime
più ch'ogni falso ben del mondo avaro.

Quinci il buon padre ebreo l'unico figlio
su l'altar pose in sacrificio pio
con man costante e con asciutto ciglio.

Ma che? Diè 'l suo per noi l'istesso Dio
e noi de' nostri (ingrato, empio consiglio)
farem piangendo ingiuria al suo desio?

292

[A Giorgio Gradenigo]

Quali occhi al pianto e qual petto a' sospiri
più deono aprire il corso? Oh qual ingegno
che di saldo giudizio arrivi al segno
puote a l'alma apportar maggior martiri,

Gradenico, che i tuoi? Che più non miri,
più non ascolti il tuo pregiato pegno;
e lui, d'eterna laude e gloria degno,
che già in terra fruisti, in ciel sospiri.

Tu 'l vedesti, l'udisti e 'l conoscesti;
tu più ch'altro l'amasti e l'onorasti:
ond'or più ch'altro doloroso resti.

Piangerlo non puoi tu ch'al merto basti;
lodarlo sì, poiché dal cielo avesti
le rime pronte, come i desir casti.

293

A messer Lodovico Dolce

Suo studio volge a gloriosa parte
che d'Arpin segue orando il figlio eletto:
come indicio ne dan con chiaro effetto
mille degne memorie al mondo sparte.

Né da' fioriti campi in tutto ei parte
ov'han le Muse il lor dolce ricetto;
arma a questi non men d'ardente affetto
la lingua Febo, e spirto infonde ed arte.

Dunque il mio ingegno in tal camin s'affanni,
più per fama acquistar che per tesoro;
e s'io la spero invan, ciò mi conforte:

che potrà, Dolce, il vostro stil canoro,
in cui scorgo d'amor cortesi inganni,
serbarmi eterno a più felice sorte.

294

A messer Paulo Tron

De' miei trascorsi dì picciol guadagno
dietro a le Muse, ond'io prima m'accensi,
trovo; e s'avien ch'al mio stato ripensi,
di me medesmo, e pi? del ciel, mi lagno.

Che, qual da dolce madre innocente agno
presso a cui lieto a pien l'ore dispensi,
da l'alme dee, che già mia scorta fensi,
lasso, per rio destin pur mi scompagno.

E, s'io vivo, cangiar conviemmi il pelo,
per sentier novo, a me gravoso ed erto,
spendendo in corta gloria i dì migliori.

Ma se seguir quel primo, ardente zelo
mi dava il ciel, forse in perpetuo offerto
m'era di Magno il nome onde m'onori.

295

A monsignor Giovan Mario Verdizzoti

Già furo ad altra età, col mondo in fiore,
le sacre dive e 'l figlio di Latona;
e quella fronde ch'i lor crin corona,
di virtù si tenea vanto maggiore.

Or anzi stima il procacciarla orrore
il secol che per l'or tutto abbandona:
onde a l'opinion dietro mi sprona
duro destin, bench'al ver pieghi il core.

E non lunge a Parnaso il camin piglio,
perch'a lui presso di sue cime apriche
s'altro non puote, almen si pasca il ciglio.

Voi, cui stella non è che 'l passo intriche,
seguite de le Muse il bel consiglio:
ch'agguaglierete ancor le glorie antiche.

296

A messer Pietro Nardino

Or sì che, mentre nel tuo stil risuono,
splende chiaro il mio nome infra i migliori;
or sì che m'ergo al ciel dal volgo fuori
assiso in alto e glorioso trono.

Ma in farmi tal d'assai men degno e buono,
sembri, mastro gentil, che ferro indori;
o qual pittor ch'esprima in suoi colori
il più bel posto il vero in abbandono.

Così per te di quel ch'io manco abondo,
del mio avaro destin le forze dome,
e m'assicuro dal morir secondo;

che, del tuo lauro anch'io cinte le chiome,
sotto il tuo ricco e glorioso manto
vivrò ne la tua vita a Febo a canto.

297

A ...

Pon fine a questi tuoi dogliosi lai,
nobil seguace de l'Aonio coro;
e 'n piacer cangia il tuo grave martoro,
che dolce porto ancor seguendo avrai.

La bella stella tua, s'io ben mirai,
promette in vista sol pace e ristoro;
e tal è 'l merto, ond'io t'amo ed onoro,
che sirti e scogli da temer non hai.

Ma dove pur mercé ti venga meno,
l'aver quel divin lume in terra scorto
dovrà far il tuo cor contento a pieno:

ch'è grazia tal che ti dorresti a torto
se ti fesse anco amor, di sdegno pieno,
restar tra l'onde sue sepolto e morto.

298

Al signor Giovan Francesco Pusterla

Quando i begli occhi, ardor de' tuoi desiri,
in quest'aria spiegar sua luce pura
lasciando notte nubilosa e scura
a te, che sole al mondo altro non miri;

al lampeggiar de' lor celesti giri
onde Amor l'alme e i cor sì dolce fura,
a quell'altera, angelica figura
statua sembrai che meraviglia spiri.

Onde, non che per te formar pur detto,
ma non potei, me stesso avendo perso,
ricovrar salvo a pena in altro canto;

e certo indi scampar m'era disdetto
se la bella sirena in me converso
avesse un guardo, o s'io n'udiva il canto.

299

Per Venezia

S'ove nido avean sol palustri merghi
e lorde canne, e vili alghe infeconde,
or regie stanze e d'ogni ben feconde
alzan da l'acque al ciel la fronte e i terghi,

opra fu, quando al ver con gli occhi t'erghi,
di Dio, ch'amico a' servi suoi risponde
benché del rio venen ch'in te s'asconde,
lingua crudel, sì nobil frutto asperghi.

Da Dio sono i tesor, da Dio fra noi
scende ogni essempio degli onor vetusti
per non men chiari e gloriosi eroi.

Tu da regni di Pluto arsi e combusti
vieni, e l'Italia ammorbi, e 'l mondo annoi,
mostro, che 'l fel ne l'altrui dolce gusti.

 
 
 
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Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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