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I Trovatori (4)

Post n°1077 pubblicato il 18 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Dalla Prefazione di "Poesie italiane inedite di Dugento Autori" dall'origine della lingua infino al Secolo Decimosettimo raccolte e illustrate da Francesco Trucchi socio di varie Accademie, Volume 1, Prato, Per Ranieri Guasti, 1847

XLV. La Sicilia, dopo essere stata, fin dall' 820, corsa e devastata dalle scorrerie degli arabi, fu altresì la prima delle province italiane a sentir l' influenza della civiltà orientale. Nel 920 gli arabi presero Palermo, e occupata tutta l' isola, vi si fermarono, vi ordinarono uno stabile governo, vi fecero fiorir l' agricoltura, il commercio, l' industria, le lettere e le arti. Allora, come già nell' antica civiltà greca, le muse siciliane si destarono le prime a cantar con novo linguaggio, col linguaggio del buon popolo italiano, le grazie e gli amori, su lo stile degli arabi dominatori: onde le muse italiane, come le antiche greche e latine, furon dette siciliane, Sicelides musae paulo malora canamus, come canta Virgilio; e Dante, nel libro della volgar eloquenza: «Con ciò sia che tutti i poemi, che fanno gl' italiani, si chiamino siciliani».

XLVI «Sin dalla più rimota antichità, dice il Ginguené, gli arabi ebbero sempre una particolare inclinazione alla poesia. La loro lingua pieghevole e copiosa, e per eccellenza imitaliva e poetica, era favorevole alla loro immaginazione feconda, al loro ingegno vivace, alla loro naturale eloquenza spoglia d' ogni artifizio». Tutti questi elementi, il genio per la poesia e la musica, il linguaggio poetico, e la vivacità degl' ingegni si trovano tanto negli arabi che nei siciliani. I modi, le sentenze, e i sentimenti degli arabi s' incontrano sovente nei primi saggi della poesia dei trovatori siciliani, onde apparisce manifesta l' imitazione dei primi maestri. I trovatori siciliani, come i poeti arabi, cantarono le loro poesie accompagnandole con istrumenti, e con melodie semplici ed espressive, non disgiungendo mai l' arte de' versi dal canto, la poesia dalla musica; onde ne vennero i nomi musicali alle poesie italiane, di suono, tono, nota, melodia, sonetto, canzone, ballata, come si trova negli antichi codici, e come dimostra chiaramente il sommo poeta Dante Allighieri nel suo libro della volgar eloquenza.

XLVII. Questo amore per la musica e per la poesia, destato dagli arabi in Sicilia, maggiormente si diffuse sotto il regno dei primi re normanni, quando riunite le due corone di Sicilia e di Puglia sul capo del gran Ruggiero, Palermo divenne capitale di un vasto, ricco, temuto e glorioso reame.
La corte di Guglielmo II, re di Sicilia, che salì sul trono nel 1166, era il convegno dei migliori trovatori italiani. Il Buti, nel commento alla Divina Commedia, confermato quasi colle stesse parole da altri scrittori, di questo generoso principe lasciò scritto: «Costui (Guglielmo II) era liberalissimo. Non era cavaliere, né d'altra condizione uomo, che fosse in sua corte - o che passasse per quella contrada, che da lui non fosse proveduto; ed era lo dono proporzionato a sua virtude. In essa corte si trovava d'ogni professione gente. Quivi erano li buoni dicitori in rima d' ogni condizione; quivi erano li eccellentissimi cantatori i quivi erano persone d' ogni sollazzo, che si può pensare, virtudioso ed onesto».

XLVIII. E qui subito corre alla mente una riflessione. Se nel 1166 erano in corte del buon Guglielmo re di Sicilia tanti buoni dicitori in rima d' ogni condizione, non si può, e non si deve credere che tutto ad un tratto sorgessero all' improvviso tanti trovatori; che nata appena la così detta gaia scienza, l' arte della poesia, tutto ad un tratto diventasse civile, e aulica, e cortigiana, come si vide a tempi di questo buon re Guglielmo, né che fosse con tanto ardore coltivata da grandi personaggi, come si vide dal cancellier del regno, Pier delle Vigne, e dai principi stessi, come dagli imperatori Federigo I Barbarossa, e da Federigo II lo svevo, e dai tre suoi figli, Arrigo re di Sicilia, Enzo re di Sardegna e 'l ben nato re Manfredi, se prima questa nobile scienza non avesse corso un lungo periodo di gloria e di applausi popolari.

XLIX. La Sicilia ebbe adunque, prima della venuta dei provenzali, un periodo letterario arabo, un periodo letterario normanno, e un periodo letterario svevo. Il primo periodo arabo è poco conosciuto, e ci mancano di altronde i documenti. Il poema in nona rima è pieno delle reminiscenze di quella scuola, ed è l' unico documento insino a noi pervenuto, che ce ne faccia avvertiti.

L. Sono trovatori del periodo letterario normanno Giulio d' Alcamo, il re di Gerusalemme, messer Rinaldo d' Aquino, messer Folco di Calabria, e Ruggeri Pugliese, Iacopo d' Aquino ed altri ancora, i quali fiorirono sotto la dinastia normanna, che si spense nel 1189. I trovatori del periodo svevo sono meglio conosciuti, e trovansi in tutte le raccolte di rime antiche.

LI. Se questo volgare intorno al 1150, come abbiam dimostrato, e non nel secolo XIV, come afferma Ginguenè era già determinato, e non solo determinato, ma colto a tal segno da poter vestire le forme di un nobile poema, a qual tempo si deve far risalire l' origine della lingua italiana? È questa una quistione molto antica, e molto difficile a risolvere. Né io intendo qui di voler fare la storia della lingua italiana, che né 'l tempo né la natura del lavoro nol mi permetterebbero: ma poiché vanno attorno fra gli applausi del volgo tante dottrine oltraggiose al nome italiano, contrarie alla storia, alle tradizioni, ai monumenti, e all' umana ragione; a maggior chiarezza di quanto per me è stato asserito, credo far cosa utile, e all' intendimento di quanto sarò per dire necessaria, di ricercare, e il più brevemente che mi sarà possibile dimostrare con tutta chiarezza ed evidenza la prima origine della lingua italiana, della lingua francese, e del dialetto provenzale.

LII. Se in molte cose io mi discosto dall' opinione dei più autorevoli, non è per istudio di novità, ne per ispirito di contradizione, ma sì per difender il vero, e l' onor della patria, a cui si vorrebbe strappar l' ultima corona che ancor le rimane, la più bella e la più invidiata corona, la corona della più ricca e della più sublime poesia.

LIII. Nulla curando se biasimo o lode mi vien dagli uomini volgari, liberamente e con tutta franchezza sottopongo all' esame e al giudizio degli uomini intelligenti, qualunque sieno, le osservazioni che han fatto sorgere la scoperta e l' esame di queste rime antiche.

LIV. Volendo io rintracciar la prima origine della lingua italiana, esaminai tre diversi ordini di fatti. 1. i monumenti latini. 2. lo stato della lingua volgare nel primo secolo, e le affinità dei dialetti viventi. 3. l' autorità degli storici e de' grammatici. Questi studi, fra loro tanto diversi, mi condussero al medesimo risultato, e mi confermarono nella medesima opinione. La qual opinione, affinchè possa acquistar qualche fede appresso gl' intendenti, e non sembri, al parer de' volgari, un' invenzione da romanzo, proverommi a esporre i sommi capi dei documenti, delle ragioni, e delle autorità degli, scrittori, su cui è fondata: onde il lettore discreto possa, con piena conoscenza di causa, giudicar da se stesso.

LV. Quasi tutte le scritture, e pubbliche e private, anteriori all' undecimo secolo, sono state distrutte dalle guerre, dagl'incendi, dalle inondazioni, tranne le scritture dei diritti delle chiese e dei monasteri, le quali scritte in pergamena, e per lo più in doppio originale, e inserite nel bollettone o caleffo, ossia registro generale degli atti del monastero, furono diligentemente e religiosamente conservate. Queste pergamene, questi caleffi, che contengono per lo più donazioni o censi a favor de' monasteri, enfiteusi livelli a' privati, privilegi di sovrani, dichiarazioni di protezione, confermazioni di giurisdizione, di possesso, e simili, sono invariabilmente scritte in latino: ma i nomi propri delle tenute, ville, terre e castella, e i nomi propri dei luoghi confinanti con quelle, sono scritti per lo più in italiano; soprattutto quando son nomi composti, che non si possono tradurre in latino.

LVI. Chi volesse darsi la briga di rovistare i papiri ravennati, gli annali benedettini, i diplomi sardeschi, il codice diplomatico toscano, le pergamene dell' archivio lucchese, dell' archivio sanese, e quelle dell' archivio della cava nel regno, e quelle dell' archivio diplomatico fiorentino che cominciano dal sesto e settimo secolo, e sono più di trentamila, io credo veramente che mediante quelle pergamene latine, una parola qua, e due là, si verrebbe a scoprire e ricostruire gran parte dell' antica lingua italiana, qual era fin dal sesto e settimo secolo, dacché si ha memorie officiali e legali, detta impropriamente rustico romano, del quale si trova ancora una traccia luminosa nelle monete, negli epitaffi, nelle iscrizioni, nei bronzi, ne' sigilli, nelle pietre incise, e in tutto ciò che di quei secoli barbari è sopravanzato all' ingiuria degli uomini e dei tempi.

LVII. E per citar alcuni esempi fra mille. Per istrumento del 1092, esistente in pergamena nell' archivio diplomatico fiorentino, Cunizza, badessa del monastero di Lugo ricusa «omnes albergherias ad omnes homines qui fuerint de filiis Gabizi de Rio freddo, et Casa nova».
In un diploma dell' anno 1052, estratto dall' archivio capitolare volterrano, Arrigo II imperatore conferma alla chiesa volterrana l' acquisto di alcune terre e castella, e fra le altre si nomina una porzione dell' antico castello di «Rocca dei Cori cum suis pertinentiis».

LVIII. Un istrumento in pergamena del 900, esistente nell' archivio diplomatico fiorentino, contiene la vendita di una tenuta posta «in podio dicto delle querce». Nel caleffo del monastero di s. Antimo, da me visto in Siena, si leggono più istrumenti del 700 e 800, ove, fra gli altri, osservai piìi di venti nomi italiani di tenute, ville, terre e castella (nomi annotati in margine per mano di Celso Cittadini, l' autore della preziosa operetta sull' origine della lingua italiana), e fra le altre cose ricordo un istrumento dell' 800, la donazione di un podere «dicium fonte buona» colla declinazione italiana.

LIX. Nel giuramento di pace e di alleanza tra Carlo re di Francia e Lodovico re di Germania nell' anno 842, fatto in volgare italico, detto rustico romano, riferito e illustrato nella Difesa di Dante dal chiarissimo Perticari, si trovano le radici, le inflessioni e le forme tutte caratteristiche della lingua italiana, e vi si legge in catauna cosa, altresì, siccom', om', per siccome, uomo; modi francamente usati anche dai nostri primi trovatori.

LX. Per un istrumento del secolo ottavo, registrato nel bolletlone arcivescovile fiorentino, il vescovo Rambaldo locava alcune terre «quasdam terras positas ubi Rio malore vocatur»: modo della lingua italiana di allora, ancora vivente tra la plebe toscana delle alpi.
E nell'archivio del capitolo de' canonici fiorentini si trova un istrumento in pergamena del 724, in cui Specioso cittadino e vescovo fiorentino, dona al capitolo de' canonici una tenuta detta «a Cintoia», la quale ancor a' nostri giorni, dopo undici secoli, con li stessi nomi e li stessi confini, è da loro posseduta; perchè i nomi dei luoghi, monti, laghi, fiumi, ville, tenute, terre, castella e città, non sono passeggieri come i nomi degli uomini, ma durano invece per secoli e secoli, a traverso tutte le umane vicende.

LXI. Se nel 1092 vi era un villaggio che si chiamava «Rio freddo», e una terra che si chiamava «Casanova»; se nei 1052 il castello del vescovo volterrano era chiamato «Rocca dei Cori»; se quella tenuta, citata dell' archivio diplomatico, nel 900 era chiamata «Delle querce», e l' altra del caleffo senese nell' 800 era detta «Fonte buona»; se quella tenuta del vescovo fiorentino era chiamata nell' 800 «Rio malore»; se la tenuta dei canonici fin dal 724 era detta «a Cintoia»; non si deve già credere che quelle tenute, quei villaggi, quei castelli nascessero o ricevessero il nome per l' appunto nell' anno e giorno citato nell' istrumento della pergamena; ma c' è tutta ragione probabile di credere, che avessero già più secoli di esistenza, e che da più secoli portassero quel nome.

LXII. Affermano gli storici più accreditati, che in Ercolano e in Pompei, al tempo della catastrofe, si scriveva latino; ma il popolo parlava l' antico volgare italico degli oschi. Non è gran tempo, è stato rinvenuto in Pompei una breve iscrizione di un' offerta di un soldato a Venere, in lingua mezzo latina e mezzo volgare.

LXIII. I classici comici latini, quel che in bocca a uomini di lettere, di corte, o del foro, scrivono ager, ignis, equus, pulcher, caput, domus, in bocca degli schiavi, e de' servi; sapendo che non possono conoscere le eleganze latine, imitando il linguaggio popolare del trivio e del mercato, scrivono campus, focus, caballus, bellus, testa, casa, che sono voci latinizzate dell' antico volgare italico degli oschi.

LXIV. Secondo Salmasio, citato dal Menagio, la vera lingua italiana cominciò a formarsi fin dai tempi dell' iraperator Giustiniano. Giusto Lipsio, citato dallo stesso, intende provare che la lingua italiana, al suo tempo, avea più di mille anni.

LXV. L' Alciato, il Filelfo, il Poggio, il Giambullari, il Castelvetro, il Tolomei, il Cittadini, il Maffei, ed altri dottissimi e profondissimi filologi e filosofi, opinarono che il volgar italico esistesse in gran parie presso il popolo romano, fin da quando era più in fiore la lingua latina.

LXVI. Di più, noi abbiamo dagli storici, che fin dai primi secoli di Roma si rappresentavano su' teatri romani delle commedie nell' antico volgare degli oschi, la gente ausonia dei greci, i più antichi popoli italiani aborigeni conosciuti da che si ha ricordanza di storie; i quali siccome furono stipite da cui derivarono tutti gli antichi popoli italici, così la lingua osca si trova esser la più antica lingua nazionale e la radice di tutto le lingue, di tutti i volgari, e di tutti i dialetti italiani.

 
 
 
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