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Dalla Prefazione di "Poesie italiane inedite di Dugento Autori" dall'origine della lingua infino al Secolo Decimosettimo raccolte e illustrate da Francesco Trucchi socio di varie Accademie, Volume 1, Prato, Per Ranieri Guasti, 1847

XVII. Ciullo d'Alcamo fiorì certamente a' tempi del Saladino, rammentato nella canzone:

Se tanto aver donassimi quant' ha lo Saladino,
E per aiunta quant' ha lo soldano,
Toccarème non potoria la mano.

Il Saladino divenne famoso soprattutto nel 1171, nel qual anno riuscì a sottoporre l' Egitto, e, colla morte del califfo Aded, s' impadronì dell' impero dei Fatimiti, e per far tacere le dicerie che correvano sulla morte del califfo, e acquistarsi la grazia dei sudditi, si mostrò oltremodo largo, liberale, generoso e magnifico verso i soldati e verso i popoli, col profondere a piene mani l' immenso tesoro da tanti anni ammassato dai califfi, onde la sua liberalità e magnificenza passò ben tosto in proverbio anche in occidente.

XVIII. Senza queste ragioni, la maniera e lo stile e la lingua di Ciullo son cosa affatto diversa dalla maniera dallo stile e dalla Hngua dei trovatori italiani che cominciarono a fiorire dopo la seconda meta del secolo duodecimo, e manifestamente apparisce essere più antico di quello che da molli si crede. Evidentemente Ciullo fioriva tra 'l 1172 e 'l 1178, vivente Saladino.

XIX. Questa canzone è scritta in basso dialetto siciliano, e l' autore di essa è giustamente perciò biasimato da Dante come plebeo nel suo libro della volgar eloquenza.

XX. La più antica poesia, finora conosciuta, scritta in lingua italiana, è una canzone di Folcacchiero de' Folcacchieri, cavaliere e trovatore senese. I compilatori della raccolta de' poeti del primo secolo lo pongono all'anno 1200, al solito, senza addur alcuna ragione, ma l'abate De Angelis di Siena ha dimostrato con autentici documenti, che questo trovatore nacque nel 1150, e che cantando i suoi versi di amore, si fece conoscer trovatore nel 1178. Per questo cavalier trovatore pareva per sempre acquistato ai toscani il pregio della maggior antichità, e dell' eccellenza della lingua e della poesia italiana.

XXI. Ma il ritrovamento della romanza del re di Gerusalemme, scritta in una lingua più bella, più colta e più gentile, la scoperta della canzone della partenza del Crociato di messer Rinaldo d' Aquino, e della canzone di messer Folco di Calabria; tutte scritte in quel medesimo tempo; senza far conto di Ciullo d' Alcamo. sono sufficienti a ricondurre indubitatamente il vantaggio dalla parte dei siciliani.

XXII. Si aggiunge ancora la scoperta del poema in nona rima, di anonimo siciliano, di cui si pubblica, per ora, un frammento; il quale è, senza alcuna contradizione, il più antico, il più ricco e il più prezioso monumento conosciuto della lingua e della poesia italiana del primo secolo. Il qual poema, come dal frammento che si pubblica per saggio si può scorgere, non è scritto in basso dialetto, come la canzone di Ciullo d'Alcamo, non con la ruggine delle canzoni di messer Folcacchieri, di messer Folco di Calabria, ma bensì è dettato in una lingua, tutto che antica, bella e maestosa; in quella lingua, meno alcune voci antichissime, che Dante AUighieri tanto cercava, e chiamava buona, cardinale, aulica, cortigiana, e illustre lingua italiana, composta e formata delle voci e dei modi più radicali di tutti i volgari e i dialetti italiani.

XXIII. Questo poema in nona rima, che non può essere stato dettato più tardi del 1150, e queste romanze e canzoni nuovamente scoperte, che risalgono certamente al 1178, produrranno un gran cangiamento nelle opinioni, comunemente più ricevute sulla prima origine della lingua e della poesia italiana, che si volevano da molti far derivare dai saggi poetici del povero e meschino dialetto provenzale.

XXIV. Crescimbeni è di avviso che gl' italiani non solo tolsero dai provenzali le forme poetiche, e le rime, ma ancora la lingua tutta, e i pensieri stessi. «Che i provenzali fiorissero innanzi i siciliani, e da loro i poeti siciliani, italiani che vogliam dirli, prendessero non solo r uso delle rime, ma la maggior parte delle forme de' loro componimenti, noi stimiamo essere evidentissima cosa».

XXV. Allevato fra le nenie accademiche, e le arcadiche pastorellerie del suo secolo, Crescimbeni conobbe e ammirò la vergine poesia dei trovatori provenzali; e se ne invaghì oltre misura. Tradusse in volgare le vite di quei trovatori scritte da Nostradama. La freschezza, la grazia il candore di questa nova e ingenua poesia, a fronte de' sonettini per monaca, o per una bella donna spiritata, de' secentisti, gli parvero cosa divina, e avea ragione. Se non che trascorse tant' oltre in questa pazza e frenetica adorazione dei trovatori provenzali, che per innalzar i pregi di quelli, e insieme dell' opera sua, egli biasima e vitupera indegnamente, e senza ragione, e senza intenderli, i migliori trovatori italiani, Guido dalle Colonne, Iacopo da Lentino, e Federigo II. «Le rime de' Siciliani, dic' egli, a noi pervenute, sono debolissime, e scipite, e infelici a segno, che non possono leggersi senza estrema noia e rincrescimento, ancor che siano dei più rinomati, cioè di Guido e Odo da le Colonne, di Iacopo da Lentino, dell' imperator Federigo II e d' altri lor pari; i quali, se si hanno a dir successori d' altri poeti siciliani, che molto tempo innanzi e prima che i provenzali fiorirono, più tosto che primi padri della poesia italiana, allora nascente, o poco dianzi nata; non solo perderanno ogni lode, ma dovranno riputarsi degni di riso e di scherno, come quei che vituperarono la nazional poesia coi lor miserabili componimenti».

XXVI. Ei si maraviglia altamente, che tutta la repubblica letteraria non convenga in questa sua pazza adorazione dei trovatori provenzali, e preso da un movimento di magnanimo sdegno, per la preminenza che il dottissimo e profondissimo Castelvetro, detto dal Gravina il Varrone della lingua italiana, sull' autorità del Petrarca, toglie ai suoi cari trovatori provenzali, e' grida a tutta voce: «Non dobbiamo attenerci al Castelvetro, che di suo capriccio caccia i provenzali la dove il Petrarca mai non si sognò di cacciarli, e ve li caccia con tal forza, che non solo li pone sotto i siciliani, ma anche sotto gT italiani», XXVII. E poi, mosso a compassione della fiacchezza dell' umano ingegno, in generale, e di quello del Castelvetro, in particolare, esclama, quel che con più ragione si può dir di lui stesso: «Oh quanto s'ingannano lomenti degli uomini, anche grandi, quando sono occupate da qualche passione!».
Così in tempi a noi più vicini il Cesarotti, scoperto e tradotto l' Ossian, per aver trovata una nova e originale, benché strana, poesia, si credette in buona fede averci regalato un tesoro inestimabile, e mette alcune volte il suo bardo celtico poco men che al di sopra del Tasso, del Petrarca, di Dante, di Virgilio, e di Omero; e osa istituir de' paragoni con que' sommi scrittori, nei passi più notevoli del suo nebuloso poeta, che si lasciò cader dalla penna: Cavalcanti le nubi ombre de' padri.

XXVII. Fra i più recenti, e i più autorevoli scrittori, Ginguené si lascia andar a dire, che fino al secolo XIV gl'italiani non ebbero lingua, e che fino al secolo XIV non ebbero determinata favella; e che «un gran numero d' italiani che avevano genio per la poesia, ma a cui mancava una favella», furon presi dalla vaghezza «di far versi provenzali, e di mettersi in ischiera co' trovatori»: e cita fra questi Giorgi da Venezia, Calvi, e Boria da Genova, e Sordello da Mantova.

XXIX. Vi furono, è vero, alcuni italiani che, o per trovarsi in Provenza, come Bonifacio Calvi, o per amicizia con quei trovatori, come la donzella di casa Cibo e Sordello da Mantova, o per amore a quelle gentili dame provenzali, come Folchetto e Boria, scrissero ancora dei versi provenzali; non già perché mancasse loro la nativa lingua, poiché la lingua italiana, antichissima di origine, era già formata e colta quando non esisteva ancora il provenzale. Si legge infatti che moltissimi dei primi trovatori provenzali inserirono nei loro discordi ( che era una specie di poesia che Dante direbbe illegittima, composta di tre, quattro o cinque lingue ) de' versi interi in lingua italiana, come in quel discordo di Rambaldo di Vacchiera, citato dal Crescimbeni, che comincia:

Io son quel ben che ben non ho.

E in un altro discordo dello stesso autore, per la disdetta della marchesa di Monferrato, si leggono ancora de' versi interi italiani, come quello dell' intercalare:

Se per la mia donna non l' ho.

Anche di Bonifacio Calvi si ha a stampa un discordo in tre lingue; provenzale, spagnola e italiana. Questi discordi ne dimostrano, che la lingua italiana era già colta e illustre, e perfettamente conosciuta ne' primi esordi della poesia provenzale. E quasi tutti quegl' italiani, citati dallo storico francese, che trovarono in provenzale, dettarono ancora versi nella propria lingua: onde apparisce chiaramente, che se «quegl' italiani conoscevano la lingua provenzale, non ignoravano l' italiana. Di messer Prinzivalle Doria si hanno due canzoni in lingua italiana nel libro reale, una già edita sotto nome di Semprebene da Bologna, e l' altra finora inedita, che si trova in questa raccolta. Di Sordello mantovano Dante Allighieri rammenta le poesie italiane nel libro della volgar eloquenza. Così Brunetto Latini, trovandosi in Francia, dettò in francese il suo Tesoro, ma non lasciò per questo di scriver tante belle opere nella sua lingua nativa.
E qui non vo' passar sotto silenzio che quella poesia di Federigo I imperatore, edita dal Crescimbeni, in lode di tutte le nazioni che l' avevano seguito nelle vittorie, non è altro che un vero discordo in lingua italiana e provenzale, onde l' autore di esso più tosto si deve scriver tra i trovatori italiani che tra i provenzali; per questa sola ragione, che quell' unica poesia che ci è di lui pervenuta, ponendo mente che risale al 1160, e forse anche prima, contiene più dell'italiano che del provenzale, come si può conoscere da chiunque sa leggere.

Plas mi cavalier frances
E la dama catalana
E r onrar del genoes
E la cour de castellana,
Lo cantar provenzales
E la danza trivisiana
E lo corps aragones
E la perla iuliana,
La mans e cera d' angles
E lo donzel de Touscana.

Questa poesia, quantunque semplice, e breve di soli dieci versi, è scritta con mente tranquilla e con riflessione, e non improvvisata, come ci dà a intendere il monaco dalla Costo d' Oro. Nè mi reca meraviglia il veder con quanto poco discernimento Nostradama e Crescimbeni han copiata, parola per parola, la novella che ci conta il monaco: ma bensì quanto facilmente Voltaire e Maffei e Corniani e Sismondi e Galvani e Ginguenè han creduto e copiato il monaco, Nostradama e Crescimbeni.

XXX. Il Galvani poi si dà la briga di scrivere in grosso volume per dimostrare, che tulle le forme poetiche, i metri, le rime, la lingua, e gli stessi concetti poetici degl'italiani, tutto è imitato, copiato, e rubato ai trovatori provenzali. «I nostri primi verseggiatori italiani», dic' egli, «andavano piede dopo piede seguendo i provenzali. E altrove». Gl' italiani moltissimi del dugento, e del trecento, scossi dal troppo grido che menavano i trovatori, abbandonarono la loro lingua, che non avevano cuore e senno da ripulire e aggentilire, per seguir quella accetta ogni dove: e come per la somiglianza trovavano breve la fatica dell' impararla, si univano alla folla dei giuocolari e poeti, che occupando i castelli de' nostri signori, accrescevano quella parità che non più, come dicemmo, dovea restar nel dire, ma sì nei pensieri, e nei metri, e nelle forme, prima trovate dai provenzali, perche incoraggiati o piaciuti.

 
 
 
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Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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