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« Colonna Infame 07I Trovatori (2) »

I Trovatori (1)

Dalla Prefazione di "Poesie italiane inedite di Dugento Autori" dall'origine della lingua infino al Secolo Decimosettimo raccolte e illustrate da Francesco Trucchi socio di varie Accademie, Volume 1, Prato, Per Ranieri Guasti, 1847

Dalla Prefazione di "Poesie italiane inedite di Dugento Autori" dall'origine della lingua infino al Secolo Decimosettimo raccolte e illustrate da Francesco Trucchi socio di varie Accademie, Volume 1, Prato, Per Ranieri Guasti, 1847

I. Egli è destino dello spirito umano, dice un filosofo francese, che i versi, in tutti i tempi e presso tutti i popoli, sieno i primi parti dell' ingegno, e i primi esemplari dell' eloquenza. I più antichi scrittori, in tutte le lingue, presso tutte le nazioni, antiche e moderne, furono i poeti, i quali, arditamente partendosi dalle consuetudini del volgo, ridussero le umane favelle a ferma e ordinata ragione.
Questo volle significare Dante Allighieri nel libro della volgar eloquenza, la dove scrisse: «Ma perchè quelli che scrivono in prosa pigliano esso volgare illustre dai poeti, perciò quello ch' è in versi rimane fermo esempio alle prose». Non altrimenti avvenne dopo il decadimento della lingua latina, nel nostro volgar idioma.

II. L' amore fu quello che ispirò il primo canto ai trovatori. Volendo essi far conoscere il loro ingegno, e il loro affetto alle amate donne, le quali poco intendevano la lingua latina, cominciarono a trovar versi in lingua volgare. Ed il primo che cominciò a dire in lingua volgare, scrisse Dante nella Vita Nova, si mosse, perocché volle far intendere le sue parole ad una donna, alla quale era malagevole ad intendere versi latini».

III. All' amore si deve adunque il dirozzamento e la coltura delle lingue, il ritrovamento della musica e della poesia. Null' uomo non può ben cantare, senza amare, dice un trovator provenzale. E più nobilmente scrisse l' anonimo autor del poema in nona rima:
Che lo primo pensier che nel cor sona,
Non vi saria, se amor prima noi dona.

IV. I nostri primi trovatori infatti non sanno che cantare in semplice favella, come natura ispira, della maravigliosa bellezza dell' amata donna, dei gravi affanni per lei sofferti, e della ricca gioia, che per lei, da loro si spera. I poeti poi furon quelli, che colla potenza dell' arte, e col magistero dell' armonia, mostrando tutta la forza e tutta la dolcezza del dir comune, innalzarono questa lingua italiana a stato civile di nobiltà e di gentilezza.

V. Ma quando ebbe veramente principio la poesia volgare? a qual trovatore, fra gli italiani, si deve il pregio e la gloria della maggior antichità? Qual provincia d' Italia si può giustamente vantar del primato della lingua, e della poesia volgare?

VI. Il Quadrio afferma, che fin dalla metà del mille cento si cominciò a verseggiare in lingua volgare; e porta un esempio di un' iscrizione di quattro versi, posta nella tribuna della cattedrale di Ferrara, l'anno 1135.

Il mille cento trenpta cinque nato
Fo questo tempio, e a Zorsi dicato.
Fo Nicolao scolptore,
E Glielmo fo l' autore.

Il Borghini ci ha conservata un' iscrizione del 1184, incisa in una lapide, ch' era in casa degli Ubaldini, in Firenze, composta in versi volgari, mezzo latini e mezzo italiani. Citerò alcuni versi per saggio.

Cacciato da veltri
A furore per quindi eltri
Mugellani cespi un cervo
Per li corni olio fermato
Ubaldino genio anticato,
Allo sacro imperio servo.
U' co' piedi ad avacciarmi
E con le mani aggrapparmi
Alli corni suoi d' un tracto
Lo magno sir Fedrico,
Che scorgeo lo 'ntralcico,
Acorso, lo svenò di facto.

VII. La prima iscrizione è cosa si meschina, che non merita discussione. L' autenticità della seconda è messa in dubbio da molti scrittori, ed io la tengo apocrifa; non perchè scritta nel 1184 in lingua volgare, ma perchè in quel tempo, e precisamente nel 1184, ed anche molti anni prima, la lingua volgare era già meglio formata, e più corretta, e più colta, e più ricca, ed aveva una fisonomia più bella e più graziosa, e un suono più espressivo e più armonioso, che non si trova in questi barbari versi; ne' quali, ad ogni parola, ti par di scorgere lo sforzo impossente di un volgar ingegno per imitare, senza riuscirvi a mille miglia, lo stile dei primi trovatori italiani.

VIII. Alcuni danno il primo vanto della lingua e della poesia italiana a Lucio Drusi da Pisa, che fiorì, secondo essi, nel 1170, e fu il primo, che congiungendo le bellezze e le grazie dei volgari toscani colle bellezze e le grazie del colto linguaggio siciliano, innalzò colle sue poesie la gloria del volgare comune d' Italia all' altezza di lingua nazionale, secondo che canta Agatone de' Drusi, discendente di Lucio, nel seguente sonetto diretto a Cino da Pistoia.

IX. Si oppone da molti: se Lucio Drusi da Pisa si rese tanto benemerito dell' italiana poesia, com' è avvenuto che niuno, finora, ne abbia fatto menzione, di quelli che han date le debite lodi ai primi poeti? Ai quali io potrei rispondere, e dir loro: come va che nò i dotti cinquecentisti, nò alcuno dei moderni eruditi abbiano mai fatto menzione di quell' insigne poeta che fu Rustico di Filippo, le cui poesie per la prima volta vedon la luce in questa nostra raccolta? Come va che dopo tanti secoli diricerche, di studi, e di diffusione d' ogni maniera di cognizioni, è rimasto ancora inedito e sconosciuto il prezioso poema in nona rima de' tempi normanni, da noi scoperto?
Come va che cento autori di pregevolissime poesie inedito si trovano in questa raccolta, de' quali perfino il nome è rimasto finora sconosciuto alle genti?

X. Molte ragioni si adducono per metter in dubbio l' esistenza di questo antico poeta, e si contesta perfino l' autenticità del sonetto di Agatone de' Drusi, che è il fondamento principale della tradizione: e tali sostengono che questo sonetto non ha tutto il colore de' tempi di Cino, perchè vi si trova uno stile troppo franco, e troppo svelto, e troppo gentile, dicono essi, per un contemporaneo di Cino, e lo dicono opera di tempi più bassi, e in conseguenza contraffatto.

XI. E in questo s' ingannano a gran partito, perchè tale è per l' appunto lo stile di messer Agatone de' Drusi da Pisa; e a meglio persuaderli voglio qui trascrivere da un codice antico un bellissimo sonetto di questo messer Agatone, precisamente del medesimo stile, in risposta ad un sonetto direttogli dallo stesso messer Cino, che comincia: "Druso, se nel partir nostro in periglio", che si trova a fronte in quel codice, ch' è il 118 laurenziano palatino.

Se tra noi puote un naturai consiglio
Nelle dubbie speranze e negli affanni,
Vaglino i miei, che già molti e molti anni,
Saggiamo alla fortuna e 'l petto e 'l ciglio.

Ed alla fin costretto dall' artiglio
Di quella eh' ognor sembra il mondo inganni,
Lassai la patria, e gli onorati scanni,
E il sicuro cammin di virtù piglio.

Donna tranquillo tiemmi, e son contento
D' aver fuggito il sangue, il fuoco e l' armi,
Per cui la gloria muor de' toschi lidi.

Voi che aspettate? di morte il talento
So che averete, e già d' intender parmi
Novellaccia de' vostri ultimi stridi.

Un altro sonetto ancora dello stesso Agatone, sul medesimo stile, non so se stampato o inedito, si trova nel medesimo codice.
Afferma il Giambullari, nel suo Gello, che Lucio Drusi fu uomo faceto, e dotto, e scrisse in rima un libro delle Virtù, e un altro della Vita amorosa, i quali portando egli in Sicilia al re, per fortuna li perse in mare; di che dolendosi fuori di modo, poco dopo se ne morì».

XII. Però c' è tutta ragione di creder autentico il sonetto di Agatone, e vera la notizia delle poesie di Lucio Drusi. Quel verso Non Brunellesco o Dante sarian letti si deve intendere quando Dante non era conosciuto che come poeta lirico, e non avea ancor pubblicata la Divina Commedia.

XIII. Su questi dati noi possiamo francamente scriver il nome di Lucio Drusi tra i primi trovatori in lingua volgare; ma non c' è pervenuto di lui neppur un verso che si conosca. Il primo trovatore, di cui si conoscano le rime, è Ciullo d'Alcamo, castello arabo, poche miglia distante da Palermo. Nulla di lui sappiamo, se non che scrisse una canzone, che da molti è stimata la più antica composizione poetica in lingua volgare. Vi è chi la crede, come il Maffei, dettata nel 1195; e vi è chi la vuole, come il Valeriani, scritta nel 1197.

XIV. Questa data ancor vien contraddetta da molti, e si vorrebbe posteriore almeno di venticinque anni, cioè del 1222 circa, per la ragione che in quella canzone trovansi nominati li agostari.

Una difesa mettoci di dumilia agostari.

Gli agostari, dicono essi, furon fatti coniare da Federigo II imperatore. Nato nel 1197, non potè far coniare gli agostari prima del 1222.

XV. Se questa ragione valesse, gli agostari di Federigo II non furon fatti coniare, secondo Riccardo da s. Germano, che nel 1231, bisognerebbe in conseguenza trasferire la canzone di Ciullo d' Alcamo dopo il 1251.

XVI. Che Federigo II facesse coniare nel 1222 o nei 1251 i famosi agostari d' oro colla sua effigie, per correzione di disegno, in un tempo di universale rozzezza in fatto di belle arti, cotanto lodati dai numismatici, non si contraddice; ma prima di Federigo vi erano monete d' oro e d' argento dette agostari, ed erano le antiche monete augustales, le monete dei Cesari augusti, le monete imperiali. Il Cesari, nel suo Vocabolario della Crusca edito in Verona nel 1806, la voce agostaro diffinisce così: «Agostaro, nome di moneta d' oro antica, di valuta di un fiorino e un quarto d'oro; da una banda della quale era improntata, per esempio, la testa dell' imperator Federigo, e dall'altra un'aquila, al modo degli antichi Cesari augusti, dai quali ebbe tal nome». Agostaro in Sicilia, come suona la voce, era termine generico di qualunque moneta sull' antica impronta de' Cesari augusti, sia d' oro, sia d' argento; e Ciullo d' Alcamo dice che metteva duemila agostari d' argento per difendersi da qualunque ingiuria gli potesse venir intentata dal padre e dai parenti dell' amata. Duemila agostari d' oro era a quel tempo una gran somma; e bastava per dote e corredo di due principesse, non che di una cittadina.

 
 
 
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Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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