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Rime di Celio Magno (86-87)

Post n°1026 pubblicato il 11 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Rime di Celio Magno

86

Trovandosi alla corte di Spagna l'anno 1576, secretario con l'illustrissismo signor Alberto Badoaro cavalier, allora ambasciator presso sua Maestà catolica, e soprapreso da una ferma imaginazione di dover morire in quelle parti, compose questa canzone

Me stesso piango, e de la propria morte
apparecchio l'essequie anzi ch'io pera:
Ch'ognor in vista fera
m'appar davanti e 'l cor di tema agghiaccia,
chiaro indicio che già l'ultima sera
s'appressi e 'l fin di mie giornate apporte.
Né piango perché sorte
larga e benigna abbandonar mi spiaccia:
anzi or con più che mai turbata faccia
fortuna provo a farmi oltraggio intenta;
ma se in cotal pensier l'anima immersa
geme, e lagrime versa,
e del su' amato nido uscir paventa,
Natura il fa che per usata norma
l'imagine di morte orribil forma.
Lasso me che quest'alma e dolce luce,
questo bel ciel, quest'aere onde respiro
lasciar convegno; e miro
fornito il corso di mia vita omai.
E l'esalar d'un sol breve sospiro
a' languid'occhi eterna notte adduce,
né per lor mai più luce
Febo, o scopre per lor più Cinzia i rai;
e tu lingua, e tu cor, chi vostri lai
spargete or meco in dolorose note,
e voi piè giunti a' vostri ultimi passi:
non pur di spirto cassi
sarete, e membra d'ogni senso vote,
ma dentro a la funesta, oscura fossa
cangiati in massa vil di polve e d'ossa.
O di nostre fatiche empio riposo
e d'ogni uman sudor meta infelice:
da cui torcer non lice
pur orma, né sperar pietade alcuna.
Che val, perch'altri sia chiaro e felice
di gloria d'avi, o d'oro in arca ascoso,
e d'ogni don gioioso
che natura può dar larga e fortuna,
se tutto è falso ben sotto la luna?
E la vita sparisce, a lampo eguale
che subito dal cielo esca e s'asconda?
e s'ove è più gioconda
più acerbo scocca morte il crudo strale?
pur ier misero io nacqui; ed oggi il crine
di neve ho sparso, e già son giunto al fine.
Né per sì corta via vestigio impressi
senz'aver di mia sorte onde lagnarme:
ché da l'empia assaltarme
vidi con alte ingiurie a ciascun varco.
contra la qual da pria non ebbi altr'arme
che lagrime e sospir da l'alma espressi;
poi de' miei danni stessi
l'uso a portar m'agevolò l'incarco;
quinci a studio non suo per forza l'arco
rivolto fu del mio debile ingegno
tra 'l roco suon di strepitose liti:
ove i dì più fioriti
spesi; e par che 'l prendesse Apollo a sdegno,
ché se fosser già sacri al suo bel nome,
forse or di lauro andrei cinto le chiome.
Ma qual colpa n'ebb'io se 'l cielo averso
par che mai sempre a' bei desir contenda?
e virtù poco splenda
se luce a lei non dan le gemme e l'oro?
Né quanto il dritto e la natura offenda
s'accorge il mondo in tal error sommerso;
al qual anch'io converso,
de le fortune mie cercai ristoro,
benché parco bramar fu 'l mio tesoro,
con l'alma in sé di libertà sol vaga
e d'onest'ozio più che d'altro ardente:
resa talor la mente,
quasi per furto, infra le Muse paga;
che de' prim'anni miei dolci nodrici
fur poi conforto a' miei giorni infelici.
Un ben ch'ogni mal vinse il ciel mi diede,
quando degnò de la sua grazia ornarmi
l'alta mia patria, e farmi
servo a sé, noto altrui, caro a me stesso.
Onde umil corsi ov'io senti' chiamarmi
a più nobil camin volgendo il piede.
Così a l'ardente fede
pari ingegno e valor fosse concesso,
o pria sì degno peso a me commesso:
che saldo almen sarebbe in qualche parte
l'infinito dever che l'alma preme.
Quinci in quest'ore estreme
ella con maggior duol da me si parte;
ch'ove a l'obligo scior la patria invita,
non pon mille bastar, non ch'una vita.
Dunque s'ora il mio fil tronca la dura
Parca, quanti ho de' miei più cari e fidi
Amor cortese guidi
al marmo in ch'io sarò tosto sepolto;
e la pietà ch'in lor mai sempre vidi,
qualche lagrima doni a mia sventura.
E se pur di me cura
ebbe mai Febo, anch'ei con mesto volto
degni mostrarsi ad onorar rivolto
un fedel servo onde rea morte il priva;
prestin le Muse ancor benigno e pio
officio al cener mio;
e su la tomba il mio nome si scriva:
acciò, se 'l tacerà d'altro onor casso
la fama, almen ne parli il muto sasso.
Andresti e tu, più ch'altri afflitto e smorto,
a versar sovra me tuo pianto amaro,
mio germe unico e caro,
s'in tua tenera età capisse il duolo.
Ahi, che simile al mio destino avaro
provi: ch'a pena anch'io nel mondo scorto,
piansi infelice il morto
mio genitor, restando orbato e solo.
misero erede, a cui sol largo stuolo
d'affanni io lascio in dura povertade,
chiudendo gli occhi, ohimè, da te lontano!
Porgi, o Padre sovrano,
per me soccorso a l'innocente etade,
ond'ei securo da' miei colpi acerbi
viva, e de l'ossa mie memoria serbi.
Ahi, ch'anzi pur, Signor, pregar devrei
per le mie gravi colpe al varco estremo;
dove pavento e tremo
da la giust'ira tua, mentre a lor guardo.
Tu, cui condusse in terra amor supremo
a lavar col tuo sangue i falli miei,
tu che fattor mio sei,
volgi ne l'opra tua pietoso il guardo.
Ch'or è pronto il pentir, se fu 'l cor tardo
per la tua strada e volto a' propri danni:
e con lagrime amare il duol ne mostro.
tu da l'infernal mostro
l'alma difendi e da' perpetui affanni;
tal che d'ogni suo peso e nodo sciolta
di tua grazia gioisca in ciel raccolta.
Là su, là su, canzon, la vera eterna
patria n'aspetta: a Dio se n' torni l'alma
che sol bear la può d'ogni sua brama.
E poiché già mi chiama
a depor questa fral, corporea salma,
prestimi grazia a la partita innanzi:
ch'almen qualch'ora a ben morir m'avanzi.

87

Tornando a Venezia dalla corte di Spagna

Pur m'apri, o Febo il desiato giorno
che del mio duro essilio il fine apporta;
e la tua bella scorta
di vaghe gemme e d'or t'orna il sentiero.
Anch'io m'accingo a strada lunga e torta
per far ov'io lasciai l'alma ritorno,
spargendo il cielo intorno
de le tue lodi e del mio gaudio intero.
Felice dì, che ben vince il primiero
quando questo mio fral nel mondo uscìo:
ch'allor nascendo a le miserie venni;
or del mal che sostenni
esco; ed al fonte d'ogni ben m'invio
ch'addolcir può con sua gioia infinita
tutto il martir de la passata vita.
Rimanetevi in pace alme contrade
che 'l nobil Ebro e 'l ricco Tago inonda;
siate amica e gioconda
stanza altrui pur, che me l'albergo offende.
E s'aere in voi vital, terra feconda
di quanto ad uman uso in mente cade,
fra pace e sicurtade
d'ogni vanto qua giù degne vi rende,
ingrato però 'l sole agli occhi splende
ove ha tenebre il cor; né può presente
stato goder chi del futuro ha brama.
Benché di chiara fama
non men ricco il sen d'Adria esser si sente;
dov'ogni don del cielo alberga, e dove
bramo anzi morte aver, che vita altrove.
Oh come ardente il cor t'ama e desia,
dolce mia patria, a cui s'io vivo e spiro,
s'in me pregio alcun miro,
dopo Dio debbo il tutto, e 'l corpo e l'alma.
Come, s'al tuo splendor il guardo giro,
ineffabil divien la gioia mia!
Tu giusta e saggia e pia;
tu d'ogni alta virtù trionfo e palma;
tu vergine e reina invitta ed alma,
porto di libertà, specchio d'onore,
e tal che chi di te nasce entro il seno,
paradiso terreno,
fa dubbiar qual sia grazia in lui maggiore:
o 'l nascer uom nel mondo, o l'aver nido
in sì felice e glorioso lido.
Vedrò del mar uscir lungi le cime
de l'alte torri e de' superbi tetti
ch'al ciel sembrano eretti
non da mortal ma da celeste cura;
vedrò 'l duce regal co' padri eletti
c'hanno il fren de l'imperio alto e sublime,
ne la cui vita esprime
ogni essempio di gloria arte e natura;
vedrò de' cari miei la gioia pura
nel volto e ne' sembianti impressa e viva,
dando anch'io de la mia lagrime in pegno.
E quasi stanco legno
che da lunga tempesta in porto arriva,
beato quanto cape in mortal velo
scioglierò i voti, umìle, al re del cielo.
Deh, perché mentre il fral corporeo incarco
porta destriero al mio desir sì lento,
cangiar in quel noi sento
che d'Elicona il fonte aprio col piede?
Che giunto a la mia pace in un momento
la strada e i giorni accorcerei ch'or varco;
e ben deggio esser parco
d'ore che sì felici il ciel mi diede.
Ma 'l pensiero, il cui volo ogni altro eccede,
verso il bramato ben dispieghi i vanni,
e l'abbia sempre innanzi, e 'l miri e 'l goda:
Talché con dolce froda
del camin le fatiche e 'l tempo inganni;
e perché del piacer non manchi un'ora,
sogni dormendo i miei diletti ancora.
Ma se forse, canzon, tra via n'aspetta
morte, deh prega il ciel che la sospenda
sol tanto, e fia pietà di pochi giorni,
che dove ho 'l core io torni,
e 'l caro oggetto una sol volta renda
di quanto amo e desio lieto a quest'occhi;
e poscia a voglia sua l'arco in me scocchi.

 
 
 
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Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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