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Osservazioni sulla tortura 04

Post n°1015 pubblicato il 10 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Osservazioni sulla tortura e singolarmente sugli effetti che produsse all'occasione delle unzioni malefiche alle quali si attribuì la pestilenza che devastò Milano l'anno 1630 (Prima edizione 1804)
di Pietro Verri

Capitolo 4

Come il commissario Piazza si sia accusato reo delle unzioni pestilenziali, ed abbia accusato Gian Giacomo Mora

Il Ripamonti riferisce una crudelissima circostanza, ed è, che terminata la tortura del Piazza, i giudici ordinassero di ricondurlo in carcere colle ossa slogate, quale era, senza rimetterle a luogo, e che l'orrore di continuare nello spasimo abbia allora cavato di bocca l'accusa a se stesso del Piazza; ma nel processo, che ho nelle mani, di ciò non vedo alcun vestigio. Appare da questo, che fosse promessa al Piazza l'impunità qualora palesasse il delitto e i complici. È assai verosimile che nel carcere istesso si sia persuaso a quest'infelice, che persistendo egli nel negare, ogni giorno sarebbe ricominciato lo spasimo; che il delitto si credeva certo, e altro spediente non esservi per lui fuorché l'accusarsene e nominare i complici, così avrebbe salvata la vita e si sarebbe sottratto alle torture pronte a rinnovarsi ogni giorno. Il Piazza dunque chiese ed ebbe l'impunità, a condizione però che esponesse sinceramente il fatto. Ecco perciò che al terzo esame egli comparve, e accusandosi senza veruna tortura o minaccia d'avere unto le muraglie, pieno di attenzione per compiacere i suoi giudici, cominciò a dire che l'unguento gli era stato dato dal barbiere che abitava sull'angolo della Vedra (ove attualmente sta la colonna infame) che questo unguento era giallo, e gliene diede da tre once circa. Interrogato se col barbiere egli avesse amicizia, rispose: «È amico, signor sì, buon dì, buon anno, è amico, signor sì». Quasi che le confidenze di un misfatto così enorme si facessero a persone appena conoscenti, «amico di buon dì, buon anno». Come poi seguì così orribile concerto? Eccone le precise parole. I1 barbiere di primo slancio disse al Piazza, che passava avanti la bottega «Vi ho poi da dare non so che; io gli dissi, che cosa era? ed egli rispose: è un non so che unto; ed io dissi: verrò poi a torlo; e così da lì a tre dì me lo diede poi». Questo è il principio del romanzo. Va avanti. Dice il Piazza, che allora che gli fece tal proposizione vi erano «tre o quattro persone, ma io adesso non ho memoria chi fossero, però m'informerò da uno che era in mia compagnia chiamato Matteo che fa il fruttarolo e che vende gambari in Carrobio, quale io manderò a dimandare, che lui mi saprà dire chi erano quelli che erano con detto barbiere». Chi mai crederà, che in tal guisa alla presenza di quattro testimonj si formino così atroci congiure! Eppure allora si credette:

I - Che la peste, che si sapeva venuta dalla Valtellina, fosse opera di veleni fabbricati in Milano;
II - Che si possano fabbricar veleni, che dopo essere stati all'aria aperta, al solo contatto diano la morte:
III - Che se tai veleni si dessero, possa un uomo impunemente maneggiarli;
IV - Che si possa nel cuore umano formare il desiderio di uccidere gli uomini così a caso;
V - Che un uomo, quando fosse colpevole di tal chimera, resterebbe spensierato dopo la vociferazione di due giorni, e si lascerebbe far prigione;
VI - Che il compositore di tal supposto veleno, in vece di sporcarne da sé le muraglie, cercasse superfluamente de' complici;
VII - Che per trascegliere un complice di tale abbominazione, gettasse l'occhio sopra un uomo appena conosciuto;
VIII - Che questa confidenza si facesse alla presenza di quattro testimonj,

e il Piazza ne assumesse l'incarico senza conoscerli, e colla vaga speranza di ottenere un regalo promessogli da un povero barbiere! Tutte queste otto proposizioni si pongano da una parte della bilancia. Dall'altra parte si ponga un timore vivissimo dello strazio e de' spasmi sofferti, che costringe un innocente a mentire, indi la ragione pesi e decida qual delle due parti contiene più inverosimiglianza. Anche nella Francia in que' tempi fu bruciata 1a marescialla d'Ancre, come strega, per sentenza del parlamento di Parigi: tutta l'Europa era assai più nelle tenebre, di quello che ora vi sia. È da osservare che anche in quest'orribile disordine vi si immischiò il sortilegio, la fattucchieria; e l'infelice Piazza, per trovare la scusa perché non avesse fatto questo racconto, o come diceva allora il giudice, «detta la verità», in prima rispose di attribuirlo a un'acqua che gli diede da bere il barbiere, la qual'acqua perché poi non operasse nel terzo esame, siccome aveva fatto ne' due primi, nessuno lo ricercò.

Su questi fondamenti si passò a far prigione il barbiere Gian-Giacomo Mora; e quello che pure meritava osservazione fu, che lo colsero in sua casa fra la moglie e i figli (in quella casa poi che venne distrutta per piantarvi la colonna infame). Dal primo esame del Mora risulta che eragli stata nota la vociferazione dell'unto fatto nel quartiere il giorno di venerdì 21 giugno; che parimenti eragli nota la prigionia del commissario Piazza, seguita il giorno 22 che fu sabato: e al mercoledì, giorno 26, si sarebbe lasciato cogliere in sua casa se fosse stato reo? Tutto ciò che avvenne all'atto dell'arresto conferma l'innocenza, non meno che la sorpresa di quest'infelice. Egli aveva preparato pel commissario un unguento che fabbricava per preservarsi dal mal contagioso, ugnendosi le tempia e le ascelle; unguento, di cui descrisse poi la ricetta, che in que' tempi si conosceva sotto il nome di «unguento dell'impiccato». Il commissario diede l'ordine al barbiere di prepararglielo, e fu fatto prigione prima che glielo consegnasse. Credette il Mora che la cattura fosse per aver egli fabbricato l'unguento che era di pertinenza degli speziali. Si lagnava di esser legato per un simile motivo: «Se per sorte», (dice egli mentre è arrestato in casa, prima di condurlo prigione) «sono venuti in casa, perché io abbia fatto quell'elettuario e non l'abbia potuto fare, non so che farci, l'ho fatto a fine di bene e per salute de' poveri»; poi allo sbirro diceva: «Non stringete la legatura alla mano, perché non ho fallato»; indi sospirando e battendo un piede, esclamò: «Sia lodato Iddio!».

Nella minutissirna visita fatta alla casa in presenza del Mora egli rese conto de' barattoli d'unguenti, d'elettuarj e d'altre polveri e pillole che gli si ritrovarono in bottega. Poi nel cortile della sua piccola casetta vi si osservò «un fornello con dentro murata una caldaja di rame, nella quale si è trovato dentro dell'acqua torbida, in fondo della quale si è trovato una materia viscosa, gialla e bianca, la quale gettata al muro, fattane la prova, si attaccava» Chi mai crederebbe che un potentissimo veleno, che al toccarlo conduce alla morte, si tenesse in un aperto cortile, in una caldaja visibile a tutti, in una casa dove v'erano più uomini, perché i Mora aveva figlj e moglie, come consta anche dal processo? Le tenere fanciulle e la figlia per la quale risulta che aveva fatto un unguento per i vermi, potevano elleno essere partecipi del secreto? Potevasi lasciare in libertà di ragazzi un veleno che uccide col tatto, riponendolo in una caldaja fissata nel muro del cortile? Dopo che era tanto solenne il processo da sei giorni, era poi egli possibile che il fabbricatore e distributore dell'unto conservasse placidamente quel corpo di delitto alla vista, riposto nel cortile? Nessuno di tai pensieri venne in capo al giudice. Interrogato il Mora cosa contenesse quella caldaja, rispose nell'atto della visita: «L'è smoglio», cioè ranno. Nuovamente poi interrogato nel primo esame, rispose: «Signore, io non so niente, l'hanno fatto far le donne: che ne dimandino conto da loro che lo diranno; e sapeva tanto io che quel smoglio vi fosse, quanto che mi credessi d'esser oggi condotto prigione: e quello è mestiero che fanno le donne, del quale io non mi impedisco». Su di questo proposito interrogata la moglie dello sventurato Mora per nome Chiara Brivia, risponde d'aver fatto il bucato quindici giorni prima, e d'aver lasciato del ranno «nella caldara, quale è là nel cortino».

Questo ranno doveva essere il corpo del delitto. Si esaminarono alcune lavandaje. Margarita Arpizzanelli prima di visitare il ranno propala la sua teoria dicendo al giudice: «Sa V. S. che con il smoglio guasto si fanno degli eccellenti veleni che si posson fare?». Si vede che il fanatismo era al colmo, e che le persone che si esaminavano, a costo d'inventare nuove e sconosciute proprietà, volevano sacrificare una vittima, e credevano di servir Dio e la patria inventando un delitto. Si visita il ranno da questa Arpizzanelli lavandaja, e questa giudica: «Questo smoglio non è puro, ma vi è dentro delle furfanterie, perché il smoglio puro non ha tanto fondo, né di questo colore, perché lo fa bianco, bianco, e non è tacchente come questo, il quale ha brutto colore, ed è tacchente, e sta a fondo, e pare cosa grassa; ma quello del vero smoglio, in movendosi il vaso in che si trova, si move tutto il detto fondo». Presso poco diè lo stesso giudizio l'altra lavandaja Giacomina Endrioni, che disse: «Mi pare che vi sia qualche alterazione, ed il smoglio si vede che quanto più se gli ruga dentro diventa più negro e più infame. Con lo smoglio marzo, cattivo, si fanno di gran porcherie e tossichi». Non credo che verun chimico saprebbe fare un veleno coll'acqua del bucato. In una bottega poi di un barbiere, dove si saranno lavati de' lini sporchi e dalle piaghe e da' cerotti, qual cosa più naturale che il trovarvi un sedimento viscido, grasso, giallo dopo varj giorni d'estate?

Né fu meno funesto il giudizio de' fisici. Il fisico collegiato Achille Carcano concluse con quella opinione: «Io non ho osservato troppo bene che cosa facci lo smoglio, ma dico bene che per rispetto alla ontuosità, che si vede in quest'acqua può essere causata da qualche panno ontuoso lavato in essa, come sarebbe mantili, tovaglie e cose simili; ma perché in fondo di quell'acqua vi ho vista ed osservata la qualità della residenza che vi è, e la quantità in rispetto alla poca acqua, dico e concludo non potere in alcun modo a mio giudizio essere smoglio». Le due lavandaje lo giudicano smoglio «con delle furfanterie» e con qualche «alterazione»; il medico dice che in alcun modo «non è smoglio», e lo asserisce perché a proporzione del sedimento vi è poca acqua, quasi che dopo quindici giorni che stava a cielo scoperto nel mese di giugno non potesse l'acqua essere svaporata per la maggior parte! Fa ribrezzo il vedere con quanta ignoranza e furore si procedesse e dagli esaminatori e dagli esaminati, e quanto offuscato fosse ogni barlume di umanità e di ragione in quelle feroci circostanze. Due altri, cioè il fisico Giambattista Vertua e Vittore Bescapé decisero presso poco come il fisico Carcano, e conclusero di non saper conoscere che composto fosse quello della caldaja.

Su questo giudizio e sulla deposizione del commissario Piazza, che anche al confronto col barbiere Mora sostenne l'accusa datagli, esclamando sempre il Mora e dicendo: «Ah Dio misericordia! non si troverà mai questo», andò progredendo il processo.

Terminato il confronto si pose al secondo esame il Mora. Il Piazza aveva detto di essere stato a casa del Mora, aveva citati Baldassare Litta e Stefano Buzzi come testimonj del fatto. Esaminato il Litta il giorno 29 giugno, «se mai ha visto il Piazza in casa o bottega del Mora», rispose: «Signor no». Esaminato il Buzzi nel giorno istesso, «se sa che tra il Piazza e il barbiere passi alcuna amicizia», rispose: «Può essere che siano amici e che si salutassero, ma questo non lo saprei mai dire a V. S.». Interrogato, «se sa che il detto Piazza sia mai stato in casa o bottega del detto barbiere», rispose: «Non lo saprei mai dire a V. S.». Tali funno le deposizioni de' due testimonj, che il Piazza citò per provare di essere stato a casa del barbiere. Il barbiere negava che fosse mai stato il Piazza a casa di lui. Su questa negativa il barbiere fu posto a crudelissima tortura col canape. Ciò si eseguì il giorno 30 di giugno. Il povero padre di famiglia Gian-Giacomo Mora, uomo corpulento e pingue, a quanto viene descritto nel processo, prima di prestare il giuramento si pose ginocchioni avanti il Crocifisso ed orò, indi baciata la terra si alzò e giurò. Quando cominciarono i tormenti esclamò: «Gesù Maria sia sempre in mia compagnia, son morto». Il tormento cresceva, ed egli esclamava, protestava la sua innocenza e diceva: «Vedete quello che volete che dica che lo dirò». Fa troppo senso all'umanità il seguitare questa scena, che non pare rappresentata da uomini, ma da que' spiriti malefici che c'insegnano essere occupati nel tormentare gli uomini. Per sottrarsi l'infelice Mora promise che avrebbe detta la verità se cessavano i tormenti; si sospesero. Calato al suolo disse: «La verità è che il commissario non ha pratica alcuna meco». Il giudice gli rispose che «questa non è la verità che ha promesso di dire, perciò si risolva a dirla, altrimenti si ritornerà a far levare e stringere». Replicò lo sgraziato Mora: «Faccia V. S. quello che vuole». Si rinnovarono gli strazj, e il Mora urlava «Vergine santissima sia quella che m'ajuta». Sempre se gli cercava la verità dal giudice, egli ripeteva: «Veda quello che vuole che dica, lo dirò». L'eccesso dello spasimo attuale era quello che l'occupava, e finalmente disse il Mora: «Gli ho dato un vasetto pieno di brutto, cioè di sterco, acciò imbrattasse le muraglie, al commissario». Con tal espediente fu cessato il tormento, quindi per non essere nuovamente ridotto alle angoscie viene a dire: «Era sterco umano, smojazzo, perché me lo dimandò lui, cioè il commissario per imbrattar le case, e di quella materia che esce dalla bocca dei morti». Vedesi la produzione forzata dalla mente di un miserabile oppresso dallo spasimo. Lo sterco e il ranno non bastavano a dar la morte: egli inventa la saliva degli appestati; poi proseguendo le interrogazioni e le risposte, dice il Mora che ebbe dal commissario Piazza per il peso di una libbra di quella materia della bocca degli appestati e la versò nella caldaja, e che gliela diede per fare quella composizione onde si ammalassero molte pelsone, e avrebbe lavorato il commissario, e col suo elettuario avrebbe guadagnato molto il barbiere. Conclude col dire che questo concerto fu fatto, «trattandosi così tra noi ne discorressimo».

Il Piazza che aveva levata l'impunità non diceva niente di tutto ciò. Anzi diceva di essere stato invitato dal Mora. Come mai raccogliere clandestinamente tanta bava per una libbra? Come raccoglierla senza contrarre la peste? Come riporla nella caldaja, onde la moglie, i teneri incauti figli si appestassero? Come conservarla dopo le solenni procedure, e lasciarsi un simil corpo di delitto? Come sperar guadagno vendendo l'elettuario: mancavano forse ammalati in quel tempo? Non si può concepire un romanzo più tristo e più assurdo. Pure tutto si credeva, purché fosse atroce e conforme alle funeste passioni de que' tempi infelici. Il giorno vegnente, cioè il primo di luglio fu chiamato il Mora all'esame per intendere «se ha cosa alcuna da aggiungere all'esame e confessione sua che fece jeri. dopo che fu omesso da tormentare», ed ei rispose: «Signor no, che non ho cosa da aggiungervi, ed ho più presto cosa da sminuire». Che cosa poi avesse da sminuire lo rispose all'interrogazione: «Quell'unguento che ho detto non ne ho fatto mica, e quello che ho detto, l'ho detto per i tormenti» A tale proposizione fugli minacciato, che se si ritrattava dalla verità detta il giorno avanti. «per averla si verrà contro di lui a tormenti»: a ciò rispose il Mora: «Replico che quello che dissi jeri non è vero niente, e lo dissi per i tormenti». Postea dixit: «V. S. mi lasci un poco dire un' Ave Maria, e poi farò quello che il Signore mi inspirerà»: postea genibus flexis se posuit ante imaginem Crucifixi depictam, et oravit per spatium unius miserere deinde surrexit, mox rediit ad examen. Et iterato juramento, interrogatus [indi si pose in ginocchio dinanzi all'immagine del Crocefisso e disse un miserere: si alzò e ritornò all'esame. Ripetuto il giuramento, alla domanda]: «che si risolva ormai a dire se l'esame che fece jeri, e il contenuto di esso è vero», respondit «In coscienza mia, non è vero niente». Tunc jussum fuit duci al locum tormentorum [Allora si comandò che fosse condotto al luogo del supplizio], con quel che segue, ed ivi poi legato, mentre si ricominciava la crudele carnificina, esclamò che lo lasciassero, che non gli dessero più «tormenti, che la verità che ho deposto la voglio mantenere»; allora lo slegarono e il ricondussero alla stanza dell'esame, dove nuovamente interpellato, «se è vero come sopra ha detto, che l'esame che fece jeri sia la verità nel modo che in esso si contiene», rispose: «Non è vero niente». Tunc jussum fuit iterum duci ad locum tormentorum etc.: e così con questa alternativa dovette alfine soccombere, e preferire ogni altra cosa alla disperata istanza de' tormenti. Ratificò il passato esame e si trovò nel caso nuovamente di proseguire il funesto romanzo. Ecco quanto inverosimile sia il racconto. Dice egli adunque che quel Piazza che appena egli conosceva di figura, e col quale anche dal processo risulta che non aveva famigliarità, quel Piazza adunque «la prima volta che trattassimo insieme mi diede il vaso di quella materia, e mi disse così: accomodatemi un vaso con questa materia, con la quale ungendo i catenacci e le muraglie si ammalerà della gente assai, e tutti due guadagneremo». Che verosimiglianza! Se aveva la materia il Piazza in un vaso, perché consegnarla al barbiere acciocché «gli accomodasse un vaso?». Mancavano forse ammalati in quel tempo, mentre morivano 800 cittadini al giorno? Che bisogno di far ammalare la gente? Perché non ungere immediatamente? Non vi è il senso comune. Come poi componeva il barbiere questo mortale unguento? Eccolo. «Si pigliava», prosegue l'infelice Mora, «di tre cose, tanto per una; cioè un terzo della materia che mi dava il commissario, dello sterco umano un altro terzo, e del fondo dello smoglio un altro terzo; e mischiavo ogni cosa ben bene, né vi entrava altro ingrediente, né bollitura». Lo sterco e l'acqua del bucato non potevano che indebolire l'attività della bava degli appestati.

Tessuto così questo secondo romanzo contradittorio del primo, si richiama all'esame il Piazza, che aveva l'impunità a condizione che avrebbe detta la verità intiera, e interrogato se sapesse di qual materia fosse composto o in qual modo fabbricato l'unguento datogli dal barbiere, rispose di non saperlo. Replicò il giudice, se almeno sapesse che alcuno avesse data al barbiere materia per fabbricare quell'unguento, e rispose il Piazza: «Signor no, che non lo so». Se il Piazza avesse data la bava degli appestati, poiché aveva l'impunità dicendo esattamente il tutto e doveva aspettarsi il supplizio non dicendolo esattamente, come mai avrebbe mutilata la circostanza principale nel tempo in cui il complice supposto, cioè il barbiere Mora, co' tormenti l'avrebbe scoperta? Se dunque non si verifica che il Piazza abbia somministrato la bava, si vede inventata la forzata istoria del Mora. Questo ragionamento poteva pur farlo il giudice; ma sgraziatamente la ragione non ebbe parte veruna in tutta quella sciagura. Il giudice allora disse al Piazza, che dal processo risultava che egli avesse somministrato la bava de' morti al barbiere, e su di ciò nuovamente il giudice l'interrogò così: «Che dica per qual causa nel suo esame e confessione, qual fece per godere l'impunità, non depose questa particolarità, sostanza del delitto, siccome era tenuto di fare?». E a ciò rispose il Piazza: «Della sporchizia cavata dalla bocca dei morti appestati io non l'ho avuta, né portata al barbiere, e del resto che ho confessato, adesso che sono stato interrogato, non me ne sono ricordato, e per questo non l'ho detto». Allora gli venne intimato, che per non aver egli mantenuta la fede di palesare la verità, e per aver «diminuita la sua confessione» non poteva più godere della impunità, a norma ancora della protesta fattagliene da principio. A questa minaccia il Piazza si rivolse subito ad accordare di aver somministrato la bava e di averne data al barbiere, non già una libbra, come disse il povero Gian-Giacomo Mora, ma «così un piattellino in un piatto di terra». Obbligato poi dall'interrogazione a dire come seguisse tutto ciò, eccone la risposta, di cui l'assurdità abbastanza da sé sola si manifesta. Così dunque rispose lo sgraziato Piazza: «Io mi mossi instato e ricercato dal detto barbiere, il quale mi ricercò a così fare con promessa di darmi una quantità di danari, sebbene non la specificò, dicendomi che aveva una persona grande che gli aveva promesso una gran quantità di danaro per far tal cosa, e sebbene fosse ricercato da me a dirmi chi era questa persona grande, non me lo volle dire, ma solamente mi disse di attendere a lavorare ed untare le muraglie e porte, che mi avrebbe dato una quantità di danari». Conviene ricordarsi che il barbiere era un povero uomo, e basta vedere lo spazio che occupava la sua povera casetta. Egli poi era un padre di famiglia con moglie e figli, e non un ozioso e vagabondo, del quale si potesse far scelta per un simile orrore. Sin qui a forza di tormenti e di minacce si è trovato modo di far coincidere i due romanzi, e costringere il contraddicente a confermare la favola di chi aveva parlato prima. Vengono ora in campo da questa risposta due cose affatto nuove. Una si è che il barbiere promettesse «una quantità di danari»; l'altra si è che in questo affare vi entrasse «una persona grande»: né l'una né l'altra era stata detta dal Mora. Si pose dunque nuovamente all'esame il Mora. Interrogato se egli avesse promesso una quantità di danari al Piazza, rispose il Mora nel quinto esame del giorno 2 luglio 1630: «Signor no; e dove vuole V. S. che piglimi questa quantità di danari?». Allora gli venne detto dal giudice quanto risultava in processo e sui danari e sulla persona grande, e si redarguì perché dicesse la verità. Rispose il Mora queste parole: «V. S. non vuol già se non la verità, e la verità io l'ho già detta quando sono stato tormentato, e ho detto anche d'avvantaggio»; dal quale fine si vede come l'infelice avrebbe pure ritrattata tutta la funesta favola pronunziata, se non avesse temuto nuovi tormenti: «e ho detto anche d'avvantaggio»! Questo «anche» più chiaramente lo disse allorché ai due di luglio furongli dati i reati, e stabilito il breve termine di due soli giorni per fare le sue difese; sul qual proposito si legge in processo che il protettore de' carcerati disse al notajo così: «Per obbedienza sono stato dal signor presidente, e gli ho parlato; sono anco stato dal Mora, il quale mi ha detto liberamente che non ha fallato, e che quello l'ha detto per i tormenti; e perché io gli ho detto liberamente, che non voleva, né poteva sostenere questo carico di difenderlo, mi ha detto che almeno il sig. presidente sia servito di provvederlo di un difensore, e che non voglia permettere che abbia da morire indifeso»: da che si vedono più cose, cioè che il Mora teneva per certo di dover morire, e tutta la ferocia del fanatismo che lo circondava doveva averlo bastantemente persuaso; che, sebbene tenesse per certa la morte, liberamente diceva di avere mentito per i tormenti; e che finalmente il furore era giunto al segno, che si credeva un'azione cattiva e disonorante il difendere questa disgraziata vittima, posto che il protettore diceva di non volere, né potere assumersene l'incarico. Il termine poi per le difese venne prorogato.

 
 
 
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