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Rime inedite del 500 (L-4)

Post n°976 pubblicato il 04 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)

L
[6 Muse padovane]
Muse padovane.

(seguito)

Questa è la bella Borromea ch'i ghiacci
Arde co' suoi begli occhi freddi petti
Con le chiome dell'oro in mille lacci;
Tien mille amanti incatenati e stretti,
E benché nel suo ardor ciascun si sfacci,
Né mai rimedio alla sua piaga aspetti,
Ogni alma sol di lei servir s'appaga,
Dolce ardor, dolce nodo, dolce piaga.

Qual nell'aprir de' mattutini ardori
La vaga dea ch'a Febo è scorta e duce
Apparir suole, o rugiadosi fiori
Spargendo inanzi alla novella luce,
Tal dalle grazie cinta e da gli amori
La belle Giulia dotta splende e luce.
Oh felice Titon, Titon beato,
A cui sì bella Aurora siede a lato!
Come i famosi nomi a' morti involi
E serbi (disse Apollo) eterni in vita,
Portando lume al tempo oltr'ambi i poli,
Mentre schivi la via dal volgo trita
Convien che da voi prenda et vostri soli
Numi felice chi tesser gradita
Istoria brama, sì che luogo in terra
Non sia che 'l suo splendor inchiuda e serra
Ultima vien, ma prima di bellezza,
La Pappafava Nicolosa, in cui
Pose natura quanto di vaghezza
In mille anni dovea mostrar fra nui;
Gira i begli occhi, con tanta dolcezza
Che potrebbe d'Amor ne' regni bui
Destar desiri, e alle maniere accorte
Accender Pluto e tutta la sua corte.
Oh! quanto giova d'aver bella madre,
Che di grazia e bellezza i figli formi
Sin' entro all'alvo sempre rende et adre
Madri produsser mostri orrendi, informi
Per lo contrario poi belle e leggiadre
Fecero i parti sempre a sé conformi.
Così, Samaritana, hor v'assomiglia
La non men' grazïosa e bella figlia.
Ordisce Amor nel suo crin d'oro i nodi,
E nelle ciglia tempra le saette,
Nelle guance ha sua sede, e 'n mille modi
Dalle vermiglie labbia e perle schiette
Invesca l'alme, e tesse inganni e frodi.
Dal dolce viso piovon grazie elette,
Dal bianco marmo e dalla bella gola,
Nel sen d'avorio Amor scherzando vola.
In picciol vetro chiuder tutte l'onde,
Annoverar le stelle potrei prima
Che le bellezze a null'altre seconde
Potessi a pien' giamai chiudere 'n rima.
Creder si de' che quel ch'a noi nasconde
Non sia di minor prezzo e minor stima,
E che 'l bel crin, la bocca, gli occhi, 'l viso
Adegui l'altro ascoso paradiso.
A guisa di canoro, bianco cigno
Volando dall'atlante a' lidi Eoi
Con chiaro carme e stil dolce, benigno
Gli invitti semidei, gl'invitti eroi,
Difenderà dal morso empio, maligno
Del tempo edace e dagli artigli suoi
Dell'alber mio cingendosi le chiome
Chi pregia poetando 'l vostro nome.
Cotal dono alla bella Pappafava
Fece mercè della mia chiara fiamma
Chi tolto negro manto oscura e cava
Vesta, ancor cela i raggi onde m'infiamma.
Ella (con nostra pace) riportava
Il primo onor, se Febo la sua fiamma
Veduta avesse, e 'l giallo, è 'l rosso, e 'l verde
Con cui l'oro, i smeraldi e l'ostro perde
Come dolce mia fiamma in ciel la luna
Le stelle di splendor vinse d'assai,
E come quella appresso 'l sol s'imbruna,
Né ardisce dopo lui mostrarsi mai,
Così ogni bella divien fosca e bruna
All'apparir de' vostri ardenti rai,
Ché voi potete 'l ciel torbido e negro
Rasserenar cogli occhi e fare allegro.
Ma che vi giova che nulla s'agguaglia
Al vostro alto valor, vostra beltade,
E che nessuna a tanta gloria saglia,
Se nimica d'Amore di pietade
Di qual pietra più rigida s'intaglia
Avete 'l cor in questa verde etade?
Ahi lasso! io lo so ben che 'l provo e veggio
Ch'indarno d'hor in hor mercè vi chieggio.
Deh! non vedete voi, se 'l cor s'infigne,
Dolce mia fiamma, o veramente langue;
Non v'accorgete al volto e a chi 'l dipigne
Del color di sé stesso smorto, esangue?
Come, dolce mia pena, bagna e tigne
Amor lo stral dorato nel suo sangue,
Onde note ne son tutte le vene,
Né del miser ancor pietà vi viene.
Deh! volgete 'l pensier, che tanto adugge
Gli amorosi piacer, dalla via torta,
Mirate come 'l tempo vola e fugge
E ciò che è qui di bel seco se n' porta;
Già cotesta beltà ch'or mi distrugge
Vinta dagli anni fia pallida e smorta,
Ch'ogni cosa consuma e guasta il tempo
E 'l pentirsi da sezzo non è a tempo.
Come d'Aprile, allor' ch'i' vaghi augelli
Sciogliono a ragionar d'amor le lingue
Di verdi erbette, frondi e fior novelli
Primavera le piazze orna e distingue,
E come spoglia il verno gli arbuscelli
Delle lor veste, e i fior ne' prati estingue;
Così beltà vi dona la natura
E breve tempo la si toglie e fura.
Però godendo 'l ben fugace e lieve
Cercate farlo incontra 'l tempo eterno,
Questo sol fia se chi v'ama riceve
Ugual mercede al grave ardor suo 'nterno;
Ch'insin d'ond'il sol nasce, u' lui la neve
Vince, per man d'amor la state e 'l verno
Vi terrà viva in queste e quelle rive
Non men che Febo le Castalie dive.
Se qual', poi ch'ebbe scelte, squarciò 'l velo
Con che soleva agli occhi altrui celarse,
E ciò che di mortal' era nel stelo
Delle nove già muse subito arse,
Tutte d'ambrosia l'unse, e un dolce zelo
Gli accese a' cori, e del suo spirto sparse
Scintille ardenti, e 'l suo nume gl'infose
Nelle menti, ond'uscir mirabil' cose.
Subito al verde lauro, che nel prato
Quinci e quindi le braccia stende e spiega
Ciascuna corre, e un ramo n'ha levato
Con che la fronte e 'l crin si cinge e lega,
E ballando e cantando, dolce, ornato,
Soave stil, u' Febo stassi, piega
Il camino, indi tutte 'l circondàro
E seco ver' Parnaso s'enviàro.
Giunt'ove 'l sacro umor con larga vena
Fa rigando l'erbetta e 'l prato molle,
Voi (chiese Apollo con fronte serena)
Il chiaro fonte e bipartito colle
Guardarete e 'l bel lauro, e quanto frena
Il mio nume fìa vostro; indi s'estolle
In ciel; ma pria del santo luogo esclude
L'antiche donne, or fatta inette e rude.
Sante Muse d'Euganea, ch'or' ne' colli
Di Pindo, di Parnaso e d'Elicona
Ite errando or ne' seni dolci e molli
Di Permesso e d'Eurota, ove risuona
L'aer di cigni; hor pe' candidi colli
Spargete i crin bagnati nella buona
Onda Castalia, hor' v'assidete a l'ombra
De l'alber, che 'l valor d'ogni altro adombra.
Hor' sotto ombrose quercie e alti faggi,
Con le grazie tra fior' vermigli e gialli,
Difese dai più caldi, ardenti raggi
Al suon de' chiari, liquidi cristalli,
Senza temer d'altrui ingiurie e oltraggi,
Ite per questi prati e queste valli
Cantando in sì soavi, dolci accenti,
Ch'intorno ad ascoltar traete i venti.
Ispirate al mio dir sì dolce canto
Che la fiamma gentil, che 'l cor m'accese
Co' suoi bei raggi squarci il freddo manto,
Che di scaldarsi 'l cor aspre contese
Face a sé stessa, o gli aggradite intanto
(E mi fia assai) le mie amorose imprese
Che 'n la più bella fiamma arde 'l mio core
Che 'n terra mai fiamma accendesse Amore.

[7 Di Jacopo Perusini]

Di m. Jacopo Perusini da San Genese.

Nimphe leggiadre dell'Euganee rive,
Hor di Pindo, Helicona, e del bel monte
Parnaso fatte, e del Castalio fonte,
Come piacque ad Apol' signore e dive;

A chi sol di voi pensa, parla e scrive
Altieri versi, elette rime e conte,
Cingete l'onorata, altiera fronte
D'edere, mirti, allori e bianche olive.

Volgete solo al Negosante i rai
De' bei vostri occhi, et a lui sol rendete
Sì che 'l gran merto agguagli alta mercede.

E acciò suo chiaro stil non manchi mai,
Col vostro almo liquor grate spegnete
L'ardor che 'n le sue asciutte labbia siede.

Tratte da: Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)
 
 
 
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Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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