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Rime inedite del 500 (XXXVII)

Post n°921 pubblicato il 28 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)

XXXVII

[Di Pier Giovanni Silvestri]

A lo Spaventato Intronato.

Quanto più veggio e provo a la giornata,
Spaventato, e più guardo e pongo mente
A questa mia grandezza smisurata,
Più mi par disonesta e impertinente,
E ch'ella sia vergogna e vitupero
Di me e di qualch'altro mio parente.

Fu poca discrezione, a dire il vero,
Di mio padre, mia madre, o di natura,
O se d'altro istrumento fu mestiero,
E si versoron tutti oltra misura
A cavar sì di sesto e proporzione,
Com'hanno fatto, una lor creatura,
Però, s'io me ne doglio, io ho ragione,
Poi ch'io mi trovo, per lor grazia, tale
Ch'io non posso capir fra le persone.
Beato voi, che nasceste cotale
Da ficcarvi per tutto, e con ognuno
E sete a mille vostri pari uguale.
Anch'io fui già dei vostri, e da ciascuno
Ero veduto bene, anzi braccato;
Potete farne fede voi per uno.
Hoggi da molti a pena son musato
E da molti per scherno, o meraviglia
Come cosa trasforme riguardato.
E nel guardarmi in alto alzon' le ciglia
Molti, che basterebbe a mio parere
S'io fussi alto, o lontan, quattro o sei miglia.
Voglion' hor questo, hor quell'altro sapere
Cose che per la noia e per l'affanno
Non ci posso risponder, né tacere.
Domanda un (verbi gratia): quanto panno
Più di lui metto a far calze e mantello
E quel che questo importa in capo a l'anno.
L'altro cercando mi rompe il cervello
Quanti de la mia stirpe ha conosciuto,
E se più m'assomiglio a questo, o a quello.
E tal, che mille volte m'ha veduto,
Che s'io ne sto lontan sol per un mese
Vuole, a dispetto mio, ch'io sia cresciuto.
Ognun fa dall'arguto alle mie spese,
E mi trafigge con qualche bel detto,
E se ne ride poi, tanto è scortese.
Mi richieggono in fin, s'io son nel letto,
Non essend' ei capace ov'io raggiri
Tutto quel che m'avanza, o dove io 'l metto.
Non val poi ch'io sbadigli, o ch'io sospiri,
Che, se non hanno in man la cosa chiara
Indarno è ch'io stia queto, o ch'io m'adiri.
Che bordello è talor! Che quasi a gara
Alcun mi sta d'attorno e mi ringrazia
Ch'io gli serva per ombra o per ripara.
Altri n'è che più accorto, e con più grazia
Non vorrebbe, mi dice, essermi a canto
Per assai s'io cadesse per disgrazia:
Però si scosta, e mi procura intanto
Dal capo ai piedi, e vuol sapere aponto
S'io sono a peso, o pur a canna un tanto.
Di queste e simil cose ch'io non conto
Che mi fan venir meno, anzi morire
Mi bisogna tenere e render conto
Parvi poca faccenda avere a dire
A piazza e con ciascun dei fatti miei
Il passato, il presente e l'avvenire.
Li dirò 'l ver, qualche volta io vorrei
Poterci far quistion con onor mio,
Ch'io ne farei tal giorno quattro o sei.
Dove per non parer scempio, o restìo
E di far troppo il savio e 'l continente
Se ben ridon' di me, ne rido anch'io.
E da rider di questo è veramente
Ch'appresso a quel ch'io ne potrei contare
Tutto quel ch'io n'ho detto è poco o niente.
Han per grazia i par' miei particolare
Che gli altri uomin' piccini, o comunali
Non vorrebber mai seco aver da fare,
Perché vedendo sì sconci animali
Fan subito pensier d'aver trovati
Costum' e modi alla statura uguali.
Però gli han per disutili e mal' nati
E come son del corpo ognun li stima
Lunghi nell'altre cose e trascurati.
E che vicino a caso e non sia prima
Oggi ch'a pena si ricordin d'ieri
Di doman non bisogna fare stima.
Che in tutti gli esercizi è lor mestieri
Sien agiati, sozopra, e disadatti
Fin' a quel ch'ognun fa sì volentieri.
Confesson ben che sarebber molt'atti
A servir per iscala, o per uncino,
O per altri strumenti così fatti.
Dicon fin che persona han da facchino.
Anzi costumi, poi che così spesso
Usati son d'andare a capo chino.
Aggiungon altre cose a queste apresso
Che, se dicono il vero, io posso or' ora
A posta mia gittarmi entro 'n un cesso
È tra gli altri un difetto che m'accora
Per un testo che prova essere il giusto
Che gli habbin tutti un poco senno ancora.
Perché troppo crescendo e gamba e busto
La natura, che sente essere offesa,
Fa che ne perde l'intelletto, il gusto.
Or questo sì che più ch'altro mi pesa:
Che gli abbia più di tutte l'altre cose
Che gli dan tutto 'l dì disagio e spesa.
E del miglior di che Dio ne compose
Sien' da lui stati in buona parte privi
Quando negli altri abastanza ne pose.
Io non posso pensare onde derivi
Se non perch'egli sia lor poco amico
E gli dispiaccia a pena che siam' vivi.
Par che riserbi ancor' lo sdegno antico
Ch'egli ebbe contra quei primi giganti
Che l'andaro assalir come nemico.
Però gli ha in odio, e porge a tutti quanti
Questi ch'io dico et altri impedimenti,
Acciò non sien mai più tanto arroganti.
Trovo che tutti gli altri mancamenti
Di persona, di robba e di cervello
Qualche remedio han trovato le genti,
E quel ch'è troppo, o poco, o brutto, o fello
Per ispazio di tempo, ingegno et arte
Fan parer più e meno, e buono, e bello.
Ogni mal' fatta, ogni storpiata parte
Si ritorna, si copre, e si rassetta
Se non in tutto, pure almeno in parte.
Sol questa mia disgrazia maledetta,
Come più sconcia ancor dell'altre tutte
Medicina non pate, né ricetta.
Però dispiacque già fino a Margutte,
Nel qual, come sapete, fu congiunto
Infinite tristitie, e le più brutte.
Trascorse in tutte e non le curò punto
Nel crescer solo ebbe ritenitiva
E si pentì quand'al mezzo fu giunto.
S'anch'io trovato avessi questa stiva,
Voi vi potete imaginar che questo
Che m'intervene non m'interveniva.
E se 'l dicesse il mondo: egli era onesto,
Se si providde a tant'altre sciagure
Ch'a quest'ancor si ritrovassi sesto.
E mettiam caso, e si poteva pure
Aggiustar membra et ossa di sua mano
Come si fanno i pesi e le misure,
O com'han privilegio el vino e 'l grano
Di cambiare alle volte stanza e vaso
Tramutar' uno in un altro cristiano.
Dico cristian, ma non lo dico a caso;
Fussi pur Turco, o Saracino almeno
Ch'io per un n'avrei fatto poco caso.
Pur ch'io fussi a misura un palmo meno,
Che questo è che m'importa per adesso
E basterebbe a consolarmi a pieno.
Odo pur d'altri, a chi fu già concesso
(Che si concedesse or volesse Dio)
Di mutar ben due volte e forma e sesso.
Quante donne son' oggi, e conosch'io
Che del suo volentier farìen baratto
A chi per grazia avrei di darle il mio.
Dite or voi ch'io trasandi e ch'io sia matto
Ch'anch'io dir voglio, e in carta ve lo spiego,
Che di me, fare' oggi ogni contratto.
E renunzio me stesso, io non vel nego,
E mi porto odio così capitale
Che manca poco più ch'io non m'aniego.
E altro impaccio questo et altro male
Che mettersi e cavare or dentro, or fuore,
Un par di calze che ti faccin male.
Altro che trar di capo a tutte l'ore
Una berretta, o aver nome Giovanni,
Di che fece alcun già tanto romore.
Io non so ritrovar quei loro affanni
E pur anch'io portato ho brache ognora
E berretta e quel nome già tant'anni.
Ben per averne due credo talora
Che fu buona cagion ch'io crebbi poi
Doppio così della persona ancora.
Però consiglio alle mie spese voi
E ciascun che figliuoli aver disegna
Che con un nome sol battezzi i suoi;
Perché messer Domenico si sdegna
Con chi vuoi più che non se li perviene;
E come ha fatto me, li nota e segna.
Or s'io v'ho detto più che non conviene,
Ditemi voi ch'io sia poco discreto
E troppo lungo ancor che mi si viene.
Purché quel ch'io v'ho detto stia segreto,
Perché il mio primo e principale intento
Fu, s'io ciarlavo, almen voi stesse cheto.
E mentre io mi dispero e mi lamento,
Rallegratevi voi, che sete privo
Di tutto quel ch'io provo ognora e sento,
E sentirò perfin ch'io sarò vivo.

Tratte da: Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)
 
 
 
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Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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