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Il Dittamondo (3-03)

Post n°911 pubblicato il 26 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Il Dittamonado
di Fazio degli Uberti

LIBRO TERZO

CAPITOLO III

Poi che ’n Trevigi fummo stati alquanto, 
in vèr Basciano prendemmo la strada, 
lassando Feltro e Civita da canto. 
Io ero stato giá per la contrada, 
e visto Cenna, Concordia e Bellona, 5 
con ogni fiume che di lá si guada. 
E però dissi a la scorta mia bona: 
"Non ci bisogna andar per quella via; 
andiam di qua, ché piú dritto ci sprona". 
Vidi Romano, onde la tirannia 10 
discese giá, secondo ch’io intesi, 
e rinnovò per tutta Lombardia. 
Passato Cittadella, la via presi 
diritto a la cittá che ’l Carro regge 
e che l’ha retta piú anni e piú mesi. 15 
Con gran giustizia, con ragione e legge 
la tien Francesco e molto si tien bona 
ch’Abano e Montericco la vaghegge. 
Colui, che quivi prima si ragiona 
che l’abitasse, si fu Antenore 20 
e ’l corpo suo per certo il testimona. 
Quivi vid’io de’ gran destrieri il fiore 
e quivi udio che Tito Livio nacque, 
che de’ fatti roman fu vero autore. 
Solin ne rise e io, tanto mi piacque 25 
veder nel dí del sol por l’oste a Bacco 
con gran campane a cerchio e schifar l’acque: 
qual era scimia o leo, qual porco istracco:
per che d’Ovidio mi sovenne, come 
trasforma l’uomo in cervo e quando in bracco. 30 
Da Pado o dal padule prese il nome, 
che presso n’è assai, questa cittade: 
Brenta la cerchia e chiude come un pome. 
Noi ci partimmo di quelle contrade 
per Cimbria veder, che ’l Bacchiglione 35 
bagna d’intorno e per mezzo le strade. 
La maggior novitá, che lá si pone, 
si è vedere il covol di Chiostoggia, 
lá dove il vin si conserva e ripone. 
Quivi son donne d’ogni vaga foggia; 40 
quivi sta Venus, che le punge e venera; 
quivi son prati, fonti e verdi poggia. 
In quella parte lo paron s’ingenera, 
la cui carne è di cotale natura, 
che qual par bo e qual fagian, sí è tenera. 45 
Le penne sue han di paon figura; 
combatte per amore e come ’l cieco 
prender si lascia, tanto a esso ha cura. 
Similemente a la mente ti reco 
che lá trovai l’uccello francolino 50 
e provai quant’è buono a viver seco. 
Dal Cane, ingenerato dal Mastino, 
questa cittá si guida e si governa, 
secondo ch’io intesi nel cammino. 
Indi passammo a la cittá di Berna 55 
a cui Brenno diè ’l nome; molto è grande; 
e qui fa ’l Can la state e qui s’inverna. 
Giú di vèr Trento l’Adige si spande, 
che vien per la cittá bello a vedere 
e Campo marzio abbraccia e le sue lande. 60 
Nuovo mi fu, di ch’io presi piacere, 
trovar, nel sol del Cancro, in su le some 
vendere il ghiaccio a chi ne volse avere. 
Vidi l’Arena, ch’è in forma come 
a Roma il Culiseo, benché quivi 
Diatrico ne porta fama e nome. 
Vidi Peschiera e ’l suo bel lago e i rivi, 
che sopra ogni altro d’Italia si loda 
per lo bel sito e i carpion che son ivi. 
Lettor, com’io lo scrivo e tu l’annoda: 70 
la Marca di Trevigi il nome lassa 
lá dove Alpone bagna le sue proda. 
E nota che in Liguria qui si passa 
ne’ Campi lapidari, ove li dii 
superbia de’ Giganti giá fen cassa. 75 
Noi fummo a la cittá che, se tu spii, 
Manto n’ha il pregio e Vergilio l’onora, 
chiusa dal Po, dal Mencio e da piú rii. 
Quivi il corpo di Longino dimora 
in Santo Andrea e con gran riverenza 80 
si fa la festa sua e vi si adora. 
L’onore, la grandezza e la potenza 
de la cittade tien quel da Gonzaga: 
tre fratei sono ed una coscienza. 
Molto è la terra grande, bella e vaga, 85 
e ’l porto suo, in tempo di pace, 
l’entrata ha buona di quel che si paga. 
Per quel cammin, che piú dritto si face, 
passato il Chiese, ci traemmo a Brescia, 
ch’a piè del monte quasi tutta giace. 90 
Arditi sono e come vuol riescia; 
dicon che portano in Gada la fede, 
poi par ch’ogni signore a lor rincrescia. 
Lo suo principio, per quel che si crede, 
sí come di Verona, ancor fu Brenno 95 
e ’l nome ch’ella ha or cotal li diede. 
Passati il Serio, la Lama e il Brenno, 
trovammo il Bergamasco in su la costa, 
che grosso parla ed è sottil del senno. 
La lor cittá, però ch’è si ben posta 100 
in forte poggio, porta pregio e fama 
ch’alcuna volta da Melan s’arrosta. 
Cosí venuti noi sopra una lama, 
divenni tale, quando vidi l’Oglio, 
qual par colui ch’a sé la morte chiama. 105 
O Federico mio, qui dir non voglio 
quanto le ripe e ’l fondo maledissi 
e quanta fu l’angoscia e ’l mio cordoglio. 
Apresso i passi in quella terra fissi, 
che sdegna in fine a morte ogni lebbroso: 110 
Bascian n’ha il nome e io cosí lo scrissi. 
Indi partimmo senza piú riposo; 
Lambro passammo per trovar Melano; 
ma non ci fu, per lo cammino, ascoso 
veder Cassano, Moncia e Marignano. 115

 
 
 
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