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La Bella Mano (171-180)

Post n°884 pubblicato il 22 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

La Bella Mano di Giusto de' Conti

CLXXI

Tu non t'accorgi, Amore, et non comprende
Che costei tolte ha l'ale, et ora il velo
S'ha posto agli occhi, et ruberatti il telo
Et la faretra, se non ti difende.

Pensa, quando ora ogni uom più freddo accende
Col suo bel guardo in disioso zelo,
Ch'ella ti priverà del terzo cielo,
Se in l'arme tue sì bianca man si stende.

Tu mi perdonerai, ch'io sarò il primo
Che la tua deità orba rinneghi
Vago di seguir lei ove mi mena:

Perch'io son suo, né mai, se bene stimo
Per lagrime o sospir, né per miei prieghi
Ebbi un piacer da te, ma sdegno et pena.

CLXXII

Io vi priego, occhi bei, quand'io ve miro,
Da poi che vivo sol del vostro lume,
Che vi piaccia d'aver sempre in costume
Di guardarmi con più cortese giro.

Et quando avvien che in Voi, lasso, io respiro,
Acciò che il cor da sé non si consume,
Non vogliate de' miei far nascer fiume,
Ché basta bene assai ch'io ne sospiro.

Ch'io pur son vostro: et se lo mio destino
M'induce a questo, per dio, non v'incresca
Di quel, che non vi costa, contentarmi.

Ché in voi trova mio foco sua dolc'esca,
In voi s'accende, in voi veggio il cammino
Di gire al cielo, et di beato farmi.

CLXXIII

Dolce mia cara et delettevol terra,
Dov'è il viso di quella che mi uccide,
Da cui fortuna, e amor non mi divide,
Per aver maggior fama di mia guerra,

Deh fa, come il mio cor lei 'n petto serra,
Che or seco forse del mio pianger ride,
Ch'almeno il suo fino al tornar mi fide
Per speranza dell'alma che m'atterra!

Se no, convien che a poco mi trasforme
Qual per stizzo si fa: tal fe' Meleagro:
Si ferme in me le stelle et il ciel s'adira!

Et da paura vinto et pensier agro
Con duolo insieme io son già sì deforme,
Che qual mi guarda di pietà sospira.

CLXXIV

Altri possede et io piango il mio bene,
Che in acquistarlo tanto tempo persi,
Cercando valli et monti aspri et diversi
Con gli occhi molli et voci de duol piene.

Un piacer sol me resta de mie pene
Et di tanti martir per lei soffersi
Ch'io canto et piango il so bel nome in versi,
Et questo solo ancor qui me mantene.

Con disio vivo et son fuor di speranza,
Et morir non vorrei, né cambiar stato,
Né guerra mai non ho, né sento posa.

Così me sto fra misero et beato,
Et nulla altro che pianto mai m'avanza,
Ch'amar con troppa fede è mortal cosa.

CLXXV

O crini, o capei d'oro, o crespe chiome,
O fronte ornato, o vaghi occhi sereni,
O man bella et pulita che ancor tieni
Il mio cor lasso da soverchie some:

O sonor, dolce, o grazioso nome,
Che a mal mio grado in vita mi ritieni,
Che solo spesso a consolar mi vieni
Com'io ti chiamo proponendo gli ome;

Non so s'io vi vedrò più in terra mai,
Né s'io vi chiamerò più in questo canto,
Che già mi foste un sol quando afflitto era;

Ch'io conosco, convien con grave pianto
Lassi le stanche spoglie, et compia omai
La mia trista giornata innanzi sera.

CLXXVI

[Q]uella donna crudel che tanto amavi,
Per cui soffristi già sì acerbi affanni,
Partita s'è, né ti ristora i danni
Dov'è il piacer, dove il ben ch'aspettavi,
E il guiderdon dov'è or di tant'anni
Che l'hai servita, et chi fia che ti sganni
Delle promesse sue false et soavi?
Sai che dei fare omai, poiché ti vede
Del suo bel volto et di speranza privo?
Non poner mai più in donna amor né fede;
Et al superbo faretrato Divo,
Che di tua morte gloriar si crede,
Mostrati sciolto da' suoi lacci vivo.

CLXXVII

Se dal dì primo ch'io mi innamorai
Creduto avessi quel ch'or provo et sento,
Forse che, dove ardendo io mi lamento,
Ridrei d'altrui, ma non con simil lai.

Né forse ancor saria donna che mai
Gloriar si potesse, con istento
Di vita avermi et della luce spento,
Amando io lei più che me stesso assai.

Deh quanto fora meglio et di men danno,
Di minor mia vergogna, et d'altro grido,
Che vedermi or sì privo di conforto!

Benché né cor pietosi assai mi fido,
Che gettino un sospir poiché sapranno,
Che per amar con fede una m'ha morto.

CLXXVIII

S'io mi credessi, Amor, per supplicarte
Colle man giunte e il capo riverente,
Ch'este pene da me fossero spente,
Mille il dì ne farei per satisfarte.

Ma perch'io so ch'ogni tuo ingegno et arte
È di beffar chi t'è più obbediente,
Io dispongo soffrir pria queste stente,
Che priego alcun porgerti a bocca o in carte.

Et fa se sai, protervo, ignudo et rio,
Ch'io non temo tue forze, né tue arme,
Né ingegni, né minacce, né tuoi scorni.

Et che peggio oramai potrai tu farme,
Se non darme la morte che io disio,
Da poi ch'io te conobbi et notte et giorni?

CLXXIX

Hor ch'io son quivi, Amor, Fortuna, e i Cieli
De' primi strazi ancor non ben contenti,
Ma per più rinverdire i miei tormenti,
Voglion che quel bel viso mi si celi,

Per cui costumo spesso cangiar peli;
Lontan da sé mi vide, et quasi spenti
Gli occhi miei stanchi a lacrimare intenti
Per lassar, credo, i lor corporei veli.

O mia disgrazia, o mio crudel destino,
O stelle congiurate a stratiarme,
Non debbo dunque aver mai ora allegra?

S'esser dee questo, vieni or con tue arme,
Atropo, et tronca il mio mal torto lino,
Di brun vestita con tua benda negra.

CLXXX

Sento mia vita ad poco venir meno,
Et pascermi di spem, lacrime et duolo,
Né mi rincresce in miseria esser solo,
Che di tai malcontenti il mondo è pieno.

Duolmi che Amor di suo dolce veneno
Lassa ir netta costei che adoro et colo;
Ché titol di beltà nel nostro polo
Altier porta il suo chiar viso sereno.

Ahi vile Arciero, effeminato et pigro,
Vincesti Atlanta, et la gelata Iuno,
Et temi or questa che sprezza tua etade?

Prendi il tuo stral dorato, et lassa il bruno,
Et pungendo il suo core, anzi di un tigro,
Se non mia, falla amica di pietade.
 
 
 
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Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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