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La Bella Mano (157-170)

Post n°879 pubblicato il 21 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

La Bella Mano di Giusto de' Conti

CLVII

Deh se Laura mi fosse sì suave
Sempre com'ora, et amor sì benegno,
Qual stato al mondo più gioioso e degno
Fora del mio, et qual peso men grave?
Ch'io miro gli occhi bei c'hanno le chiave
Del mio cor lasso e del debole ingegno,
Nel qual consiste l'amoroso regno,
E 'l sicur porto di mia fragil nave.
Et ella che di ciò par si contenti,
Poscia mi mostra la sua bionda treza
Tessuta, oimè, dalla man che mi sface.
Ivi mi specchio, indi prendo dolceza;
Talché, per tema di futur tormenti,
Vorrei morir finché 'l viver mi piace.

CLVIII

Non so se Laura, che il divin Poeta
Sospirando in bei carmi chiuse et strinse,
Fu vera donna, o lauro et donna il finse,
Ch'altri de suo desi' avesse più pieta.
Questa vegg'io ch'è donna; amor nol vieta,
Ché al primier guardo in mio cor la dipinse
In guisa, che da poi mai non si stinse;
Sì fu sua vista allor dolce et quieta.
Né maraviglia s'egli fu fervente
In esaltarla in beltà e in maniera;
Ché 'l più del tempo si mostrò benegna.
Maraviglia è di me, che quest'altera
Ascoltar non mi vuole, anzi mi sdegna,
Et io sempre le son più obbidiente.

CLIX

Secco è il bel lauro, anzi è spenta sua foglia,
L'aura, l'ombra, l'odor, che mentre visse
Parea che il mondo di beltà vestisse,
Di fiori et d'erbe et d'amorosa voglia.
Qui giace il tronco; et la miglior sua spoglia
Nel ciel tornò (benché al partire afflisse
Me che di lei già sospirando scrisse)
D'onde prega or via scacci ogni mia doglia;
Et se pur pianger vuo', pianga me stesso
Rimaso in terra nudo, pien d'affanni,
Senza sole, et in mar senza governo.
Lei più non pianga, et il mortale eccesso
Che le fu vita; ma vuol che mill'anni
Sua fama duri, et fia suo nome eterno.

CLX

L'albor sacro et gentile, in cui molti anni,
Come in suo albergo il mio cor lieto giacque,
Mentre a fortuna invidiosa piacque
Al mio mal sempre pronta et a' miei danni,
Morte mi ha tolto co' suoi usati inganni
Per farne il ciel più bello, ond'eterne acque
Usciran de' miei occhi, sì gli spiacque
Veder spento il riposo de' suoi affanni.
Né spero mai finché mia vita dura,
Che sarà breve, avere altro conforto,
Se non di pianti et dolorosa guerra:
Ch'io veggio il nostro vivere esser corto,
Et morir pria i migliori, et sua ventura
Data a ciascun dal dì che nasce in terra.

CLXI

Un anno ohimè ! lasso oggi è ch'io perdei
Me stesso, ogni mio bene, et quel bel volto:
In tal dì fui dal suo car spirto sciolto
Per crudel morte, ond'io son pien d'omei.
Et l'ombra dell'allor sotto cui fei
Di pensieri et disii dolce raccolto,
E il gentil nodo in ch'io ancor so' involto,
Et sarò sempre fin ch'io sia con lei,
Spenta vid'io; et l'albor da radice
Et svelto et secco et rotto, onde di doglia
Fu quasi il cor dall'alma mia diviso,
Et prego ognor da me pur che si toglia
Questo peso terrestre et infelice,
Per gire a star con lei in paradiso.

CLXII

Ben fo neffando, infausto et mal[e] decto
El dì primo ch'al mondo gli occhi apersi,
Poy che, nascendo, di rei casi adversi
Esser dovea preservato ricepto.
Ben fo infelice il ventre, che, constrecto
A·ppartorir un tal mostro, soffersi
Organiçarlo pria, se ad sì diversi
Affanni, ire et sdegni era subgepto.
Ma più infelice l'alma, che in quell'ora
Sì stratiabil corpo et inpudico
Per suo proprio destin prender convenne.
Et se esser mixer debbo et pur mendico,
La terra e i ciel perisca, et chi l'adora,
Et chi m'ascolta, si non presta uno amenne.

CLXIII

Perch'io pur pianga ognor con più dolcezza,
Né mai senza sospir passi mia vita,
Di nuovo Amor mi ha fatto una ferita
Di suo stral d'oro, et pien d'altra vaghezza.
Et la mia mente a contemplar s'avezza
Un'Angela dal Ciel scesa et partita
A darmi pace, ché, senz'ella, aita
Ed ogni ben mondano odia et disprezza.
In lei spero et mi specchio, et ciascun pio
Suo atto amante io noto, e il dolce sguardo,
Che fa di marmo chi gli s'affigura.
Et perché indegno mi sento, et non tardo
A tanta impresa, io vò con ferma cura
Per ben far meritar quel che disio.

CLXIV

Dolci capelli dolcemente sciolti
Della dolce Aura al collo dolce intorno.
Dolci et dolci occhi, anci dui sol, che giorno
Dolce fanno ad chi son dolci rivolti:
Dolci coralli et perle, onde escon molti
Dolci sospiri, e 'l parlar dolce e[t] adorno;
Dolce è il bel vixo, ove a specchiar in torno,
Pien di dolceçça, quando tu m'ascolti:
Dolce, rotonde et candide mamelle,
Dolce parte secrete, di che spesso
Dolcemente amor meco ne ragiona:
Dolci mani et pulite, schiecte et belle,
Che dolce offitio ad voi dolce è concesso
Per più adolcir quella dolce persona.

CLXV

Mirate, occhi miei vaghi, quel bel viso,
Le maniere e i costumi di costei,
Che averian forza a innamorar gli Dei,
Et fargli abbandonare il paradiso.
Mirate quel soave et dolce riso
Che in parte è gran cagion de' sospir miei,
Miratela dal capo insino a' piei,
Che ogni membro è più bello et mè diviso.
Ma son di più dolceza le parole;
Che zucchero, armonia, mele et moscato
Par ch'escan dalle labbra di corallo.
Qui nascono le rose et le viole,
Qui si vede l'avorio et il cristallo,
Quivi et no in Ciel poss'io farmi beato.

CLXVI

Come tu fosti, benedetto insogno,
Il primo a farla del mio amore accorta
Con quel stretto abbracciar che mi conforta,
Dolceza tal che vegghiando io m'assogno;
Et come spesso non pur quand'io sogno,
Ma in vera vision senz'altra scorta,
Con soavi parole mi conforta,
Onde allegrezza et disio rompe il sogno;
Così ti prego che torni sovente
A farla pia con quell'accesa face,
Bench'esser soglia gentil cor clemente,
La vita mia, che consumando sface,
Talora muove da sì amare stente,
Che sol di lei pensando ho tregua e pace.

CLXVII

Quale ingiuria, dispetto, o quale isdegno,
Finestre avare et pien di gelosia,
Vi feci io mai, nol so: ma a chi ne spia
Dirò, che mille da voi ne sostegno.
Umil divoto et reverente vegno
A visitar voi no, ma quella mia
Novella Donna, come Amor m'invia,
Per farmi de' suoi servi il non men degno.
Et voi trovo rinchiuse essere ognora.
Non basta assai che per più mio tormento
Altissime et ferrate esser vi veggio?
Che cascar possa fin dal fondamento
La casa, et perir chi dentro dimora,
Purché sia salva lei, che io bramo e chieggio.

CLXVIII

Finestre mie, quand'io ve veggio aperte,
Et posar sopra voi quel gentil viso,
Parmi vedere aperto il paradiso,
Et voi di rose et viole coperte.
Et le bellezze a me dal cielo offerte,
E i leggiadri occhi, et quel soave riso,
Io mi fermo a mirarli intento et fiso,
Per far mie voglie del suo ben più certe.
Et veggio Amor con refrigerio starsi,
Trastullando con lei, nel suo bel seno,
Et accennarmi di su' aurato dardo.
E il mio cor di disio dolce ripieno,
Et più d'invidia, cerca di accostarsi,
Per più dolcezza trar del suo bel guardo.

CLXIX

Non dolse più alla sventurata Dido
Quando sentì partir l'ingrato amante,
Né più alla dolente Ero, che già tante
Volte il suo vide tornare in Abido;
Né più ad Arianna, che nel lido
Lassata fu da quel che poco innante
Scampato avea da morte, et trionfante
Seco sen gì lassando il proprio nido;
Che a me la tua sì subita partenza,
Donna mia cara: onde il mio afflitto core,
Seguendo te, di sé m'ha fatto senza;
Perché onestà non consente ad amore,
Che come il cor, così la mia presenza
Fosse con te per trarmi di dolore.

CLXX

Aventuroso et più di me contento,
Vago augelletto, che il tuo dolce amore
Apri cantando il giorno a tutte l'ore
Con sì soave e sì pietoso accento,
Vorrei stato cambiar teco lì drento,
L'amor non già, ma tua forma et colore;
Ch'io sveglierei pietà forse nel core
Di tal, che s'ha piacer del mio tormento.
Et quella man, da cui spero ancor pace,
Che per prender di te lungo diletto
Ti porge i cibi e a lusingar t'avvezza,
Io pur la bacerei senza sospetto,
Specchiandomi in quel viso che mi face
Rider di doglia et pianger di dolcezza.

 
 
 
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Un blog di: valerio.sampieri
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