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La Bella Mano (151-156)

Post n°874 pubblicato il 21 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

La Bella Mano di Giusto de' Conti

CLI

Et con l'ale amorose del pensero
A volo alzar si può nostro intelletto
Tanto che io veda, immaginando, il vero,
Amore, il tempo, e il mio vago concetto
Acceso in fiamma di novel disire,
Che mi sgombrava ogni voler del petto,
Un giorno avean rivolto al mio martire
Ogni mio senso già sviato altronde,
Per veder la cagion del mio languire.
E il dolce imaginar, che mi confonde,
Avea ritratta la mia stanca mente
Da quei begli occhi et dalle trecce bionde.
Già sentia sollevar sì dolcemente
L'anima grave, et l'affannato velo,
Che or mi fa lieto nel pensier sovente:
Et carco d'un soave et caldo gelo,
Non so se falso sogno, overo oblio
Mi scorse et spinse infino al terzo cielo.
Ivi così condotto da disio,
Mirai le stelle erranti ad una ad una,
Che son principio del mio stato rio.
Mirai con loro il corso della Luna,
Et vidi perché il mondo chiama a torto
La Sorte iniqua, et ceca la Fortuna.
Poi rassembrava lor viaggio torto
Al vago giro del fatal mio sole,
Che dentro volve gli occhi che m'han morto.
Suo chiaro viso, et sue sante parole
Col sospirar dell'anima gentile,
All'armonia, che lì sentir si sole,
Il senno, la beltade, et l'atto umile,
Et le virtuti, in quel bel petto sparse,
Ove non si creò mai pensier vile,
Pensando agli altri effetti ancor mi parse
Che avesse più che loro in me possanza
La vista che in un punto il mio core arse.
Et rimembrando mia dolce speranza,
Mentre che il pensier dentro più forte ergo,
Sì come egli il pareggia et come avanza,
Rivolgo gli occhi al glorioso albergo,
Al loco aventuroso, ove oggi vive
Lei, per che piango et sempre carte vergo,
Fra i dolci colli et l'onorate rive
Dove è colei, che arà mia vita in mano
Finché del suo spirar morte la prive:
Era in quell'ora il viso più ch'umano
Rivolto verso il Ciel, dove è il Sol degno,
Et gli occhi che mi struggon di lontano.
Non so se il riso, o suo leggiadro sdegno,
Non so se il lume allor che il cor m'infiamma,
Avea di foco l'universo pregno.
Non era al parer mio rimasa dramma
In cielo, in terra, in mare, in el abisso,
Che non ardesse d'amorosa fiamma.
Io non era possente a mirar fisso
Di lungi pur, la vista di colei,
Per che gran tempo in ghiaccio, in foco ho visso:
Così abagliava infra gli sensi miei
Quel bel raggio seren del viso adorno,
Che per seguirlo libertà perdei.
Ma ben vedeva il mondo d'ogn'intorno
Arder già tutto, et le mortal faville
Nascer nel mezzo del suo bel soggiorno;
Et le serene luci sue tranquille,
Sole cagion della mia grave doglia,
Per che convien piangendo io mi distille.
Sapea ben come cangia ogni mia voglia,
Se volge il lume tra il bel nero e il bianco,
Colei, che d'ogni ben mia vita spoglia.
Et io sentiva a poco venir manco
Il mio debil valore; et di paura
Tremare il freddo cor nel lato manco.
Et l'alma sbigottita per l'arsura
Sul sangue che bollia già nelle vene,
Chiamar soccorso a lei che non ha cura.
Lasso me, non poria parlando, bene
Ridire il modo, la stagione et l'ora,
Né la cagion di sì leggiadre pene.
Mentre che ardendo Roma struggea allora,
Ecco più chiara vista omai rappella
In parte ove il pensier più s'inamora,
Vedeami inanzi l'amorosa stella,
Che amar m'insegna con suoi rai possenti,
A sì gran torto contro me rubella,
I lumi a noi nemici eran già spenti
Per tutto il mondo, et li crudeli aspetti,
Saturno e Marte et li contrari venti.
Le stelle più felici, e i cari effetti
Vedeansi insieme tutte in sé raccolte
In luoghi signorili alti et eletti.
Et sì benignamente eran rivolte
Al sacro loco, di che pria parlai,
Che spiegar non porian parole sciolte.
Scendea da i santi et benedetti rai
Tal dal ciel pioggia in su l'amate trezze,
Che non fia stella che 'l pareggi mai.
Et una nube carca di bellezze
L'arco dintorno avea tutto ripieno
Di gioia, d'onestate et di vaghezze.
Mirando il ciel sì lieto et sì sereno,
Et l'altre stelle volte nel bel viso,
Che già il foco mortal m'accese in seno,
Ripien di maraviglia, in Paradiso
Credeva esser portato inanzi morte,
O spirto errante, dal corpo diviso.
Et volea dire: Ahi dispietata Sorte,
In ciel di quei begli occhi or si fa festa,
Che io scelsi per miei segni et fide scorte;
Et me fra l'onde et la maggior tempesta
Mia guida lascia, ove mi spinge Amore
Ohi me che poco spirto ormai ci resta.
Ma non più tosto tal pensiero al core
Giunse, ch'io mi rivolsi all'altra parte,
Là dove a sé mi trasse un nuovo errore.
Io vidi con questi occhi ivi in disparte
La imagine gentil, la bella idea,
Donde il mio cor dal ciel tolse tanta arte.
Mentre che più da presso io me facea,
Lo esempio, la figura, et la bella ombra
Già viva viva tutta mi parea.
Così giuso, nel mondo, il cor m'ingombra
Quella pietà, che schiva talor move
Tra il lume e il fronte, che mia vista adombra.
Così simil bontà da gli occhi piove
Giù nel bel mento il fronte pelegrino;
Così si adorna di vagheze nove.
Or qui conobbi quanto può destino
Quanto natura, e il cielo: et quanto possa
L'ingegno sol senza voler divino.
Conobbi la cagion, donde è sol mossa
La guerra, che mi strugge et arde sempre
Col foco, che mi è acceso in mezzo l'ossa.
Conobbi, per che a sì diverse tempre
Amor governe la mia frale vita,
Et perché dall'angoscia non si stempre.
Era la mia virtù vinta et smarrita
Già nanzi l'alto obietto e il bel sembiante,
Che solo è adorno di beltà infinita.
Vedea le mie suavi luci sante
Non sfavillar, ma chiuse nella stampa;
E il viso ornato di belleze tante:
E il chiaro impallidir d'una tal vampa
Biancarlo tutto, e l'onorato fronte,
Che ogni core adolcisce e il mio divampa;
Le ciglia aventurose agli occhi gionte,
Chi gira et volge Amor con sua man sola,
Porto di mia salute, albergo et fonte;
Le chiome sciolte intorno a quella gola,
Onde vien quel parlare umano et tardo,
Che l'anima, ascoltando, il cor m'invola.
Mentreché il duolo mio fiso riguardo,
Veder mi parve, d'un leggiadro nembo
Coperte ambe le luci, ond'io tanto ardo:
Et sopra al fortunato et suo bel grembo
La bianca man di perle star distesa,
Et circondata d'amoroso lembo.
Questa è la man da chi fu l'alma presa,
Et fece il laccio di che amor la noda,
Et tienla in croce, et mai non fece offesa.
Questa è la bella man, che il cor m'enchioda,
Soavemente, sì che il sento apena;
Questa è la man, che tutto il mondo loda.
Questa è la bella man, che al fin mi mena;
Et, vaneggiando, in parte l'alma induce,
Dove è sol pianto, doglia, angoscia, e pena.
Questa è la man, che la mia cara luce,
Che io vidi in l'alto exempio imaginato;
Questa è la man che a morte mi conduce.
Questa è la bella man, che il manco lato
Mi aperse, et piantovv' entro il malvolere,
Perché convien ch'io pera in questo stato.
El stare in sé raccolta, e il bel tacere,
Et questo a tempo, e il riso mansueto
Né lice, né conviensi a me vedere:
Il mirar vago et fiso, e il volger lieto
Non per destin ma per arte si acquista,
L'andar soave et l'atto umile et queto.
Non vi era il duol, che la bella alma attrista;
Né il sospirar, che par già mi consume;
Né il lampeggiar della soperchia vista,
Ma in gli occhi, che m'hanno arso, e spento il lume,
Il lume che m'abaglia, non m'invia:
Spento era nel sembiante ogni costume.
Suo senno, suo valor, sua leggiadria
Né quel, Né l'altro orgoglio si è dipinto,
Che m'ha ingannato con sembianza pia.
Era già il sole all'orizzonte spinto,
Tratto per forza al fondo de la spera;
E l'aere nostro d'ombra era già tinto:
Et la nimica mia già rivolta era
A vagheggiar se stessa, et sua beltade
E infino a terza avea la vista altera.
Dico di lei che adorna nostra etade,
Et sola infiora il mondo che nol merta,
In cui s'osserva il pregio di beltade .
Sicché di doppia notte era coperta
La terra allor, che il santo raggio volse,
Che volto in su facea mia vista incerta.
Non so che la memoria qui mi tolse,
Ch'io non so ben ridir se più soffersi,
Non so, se il mio pensiero ivi più accolse:
Et qui fuggendo il sonno, gli occhi apersi.

CLII

Caro Libretto, et più ch'altro felice,
Tocco da quelle man leggiadre et sante,
Deh dinne il vero: leggendoti, quante
Lagrime ha sparte in te la mia finice?
Io 'l vo' saper per render le mie vice
Bagnandote di più, o d'altre et tante,
Pria ch'io proceda a vederte più avante,
Ché sai che a noi più lamentar ne lice.
Dè sospiri et dè oimè non ti dimando;
Ché so che mille et mille ella n'ha tratti,
Ché ne sei pieno, et lei l'ha per usanza:
Et se a lei più torni io ti comando,
Che la costringhi a far teco tal patti,
Che io viva del desi' 'n bona speranza.

CLIII

Laura, ch'io già cantai piangendo in rima,
Et finsi ancor, poetizzando, alloro,
Scesa è dal Ciel col suo pudico coro,
Dove virtù più che quaggiù si stima,
Per porvi di sua schiera in sulla cima,
Et prendere or con voi qualche ristoro,
Poiché vinto ha colui, che con stral d'oro
Ferir credette, et vincer lor da prima.
Tolte gli han l'arme et poste a una colonna,
Et trionfan di lui che nel suo regno
Solea de' Dei trionfare et di noi:
Et vien legato or nanzi alla mia donna
Pien d'ira, di vergogna, et di disdegno:
Piacciavi dunque accettarla tra voi.

CLIV

Mille vaghi pensier, mille disii,
Che mi van per la mente notti et giorni,
Mi dicono: or che fai? che non ritorni
Al giogo usato, ai sospir dolci et prii?
Amor, ch'è presso me, par che s'invii
Verso un viso leggiadro, et che l'adorni,
Non già di beffe, di sdegni et di scorni,
Ma di beltà, et vezosi atti et pii.
Poscia le trecce inanellate et bionde
All'aura spiega con le sue man sante,
Facendo lampeggiare il viso et gli occhi.
Ivi coll'arco teso si nasconde,
Et drizza in me lo stral con un sembiante
Tal, che mi par sentir che al core scocchi.

CLV

Quando Laura i capei d'or crespi et tersi
Soavemente al sol commove et gira,
Porge tanta dolcezza a chi li mira,
Che i solar raggi gli par bruni o persi.
Io benedico l'ora e 'l dì che apersi
Gli occhi, e 'l piacer che a mirarli mi tira;
Et benedico l'alma che sospira
Per lor mai sempre, et quanto mai soffersi.
Ma dogliomi d'amore empio e protervo,
Che poi che vuol per costei strugga ed arda,
Non fa sentir parte del foco a lei.
Et duolmi più di lei che non mi guarda
Sovente et fiso ancor com'io vorrei,
Per saper s'ella vuol ch'io le sia servo.

CLVI

Ben che Laura sovente mi sospinga
A rimirar la beltà, ch'io vorrei,
Per più mia pace et più fama di lei,
Stesse non sì rinchiusa o sì solinga;
Et ben che Amor, che allora mi lusinga
Forse per acquetare i sospir miei,
Me la mostri, et con cenni or dolci, or rei
Di color mille il mio volto dipinga;
L'alma con tutto questo non si pente,
Anzi s'infiamma, ed ognor più disia
Parlar seco il mio stato altrui nascoso.
Et fissa poi rimanmi nella mente
L'immagin sempre; e 'l suo viso ov'io sia
Parmi più bello, et ver me più pietoso.
 
 
 
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Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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