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La Bella Mano (148-150)

Post n°872 pubblicato il 21 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

La Bella Mano di Giusto de' Conti

CXLVIII

Amor con tanto sforzo omai m'assale,
Che a mal mio grado al fin pur me conduce
Ove io non voglio, et contrastar non vale.
Mosse dai due begli occhi pria la luce
Che mentre al cielo mi scorgeva, un tempo
Era d'ogni mia fè colonna et duce,
Poi le speranze mie di tempo in tempo
Disperse, e in cor mi accese quel disio,
Che già m'infiamma quanto più m'attempo.
Et or quanto in me possa il furor mio,
Et quanto fuor d'usanza il mio core arda,
Sassel chi n'è cagion, Madonna ed io.
Ogni altra aita omai per me fia tarda,
Se non questa una, ove il dolor mi mena,
Se pianti né sospiri il ciel riguarda.
Dall'una parte la ragion mi affrena,
Dall'altra mi combatte sempre, et preme
L'oltraggio et l'onta, et la mia ingiusta pena.
Ma perché il cor vacilla, et perché teme,
Non debbo una fiata uscir d'affanno,
Et vendicarmi innanzi l'ore estreme?
Ecco la notte inchina; et, senza inganno,
All'Oriente torna omai l'Aurora:
Il tempo è accetto, et la stagion dell'anno.
Finché il dolce silentio, et la dolce ora
Fra il dolce sonno gli animi adolcisca:
Ecco la luna spenta, eccola fora,
Perch'io contra mia voglia incrudelisca:
Che biasmo fia se ciò da Amor procede,
Da Amor procede, che la mente ardisca?
Ponti dinanzi a gli occhi la tua fede,
Et poi ripensa al suo spietato core:
Merita tanto affanno tal mercede?
Merita questo il mio fedele amore?
E questo il ristorar de i miei tormenti;
E il refrigerio dell'antico ardore?
Deh forse meglio fia che ancor ritenti,
Se pietà mai piegasse tal dureza;
Et pensi pria che a tanto mal consenti.
Ma che giova il pregar se lei nol preza,
Se lei di me, né del martir mio cura,
Se della morte mia prende vagheza?
Non sa la vita mia quanto ella è dura?
Or come io spero, che il parlar la pieghi,
Se pur d'un picciol cenno ella ha paura?
Essi commossa mai dai nostri prieghi?
O mente stolta, quanto or sei ingannata.
Et, benché la cagion per me si nieghi,
So ben perché : deh, prendi una fiata
L'arme al bisogno, come far si suole;
Che troppo è innanzi già la piaga andata.
Così facciamo: et mentre il giorno e il sole
Si celano a ciascun, che alberga in terra,
Comincio: poiché il cielo ed Amor vuole,
Tu Notte, et voi Tenebre, che sotterra
Nasceste eterne giù nell'altro polo,
Dove il nostro emisperio il giorno serra,
Or muovati a pietade il mio gran duolo,
Qual tu sai ben quanto al mio cor si accoglia,
Quando me vede sconsolato et solo.
Più volte mi vedeste per gran voglia
Di lagrimar, giacer tra i fiori et l'erba;
Et poi mancar le lagrime per doglia.
Proserpina, che fede anco mi serba
Agli notturni et queti miei sospiri,
O testimon della mia vita acerba,
Tu sola puoi saper dei miei martiri
Il pondo et la graveza; et sola sai
Quai siano et quanti tutti i miei disiri.
Tu d'ogni tempo, nel girar che fai,
Mi vedi come Amor mi sprona et volve,
Et nulla è a te celato nei miei guai.
Ombre amorose, et spirti ignudi et polve,
Che al doloroso fine Amor sospinse;
Et Pluto or sotto a noi danna et assolve,
Per quella fe' che già al morir vi strinse,
Per quella stessa fede io vi scongiuro,
La qual come ora me, così voi vinse:
Con voi, non solo l'animo sì duro
Vincer potrem di quella, per cui arsi,
Ma il sole a mezo 'l dì vedere oscuro;
Ristare i fiumi, e i colli al Ciel levarsi,
Il mar turbare, et acquetarsi poi,
L'aquile et le colombe amiche farsi.
Debbon gli prieghi miei dinanzi a voi
Esser sì santi, che il mio cor si veda
Della passata fede i frutti suoi.
Qui son dell'erbe, che lodò già Leda
Tanto a sua figlia; onde il pastor Troiano
Vinto da lor virtù fe' la mal preda:
De l'altre, onde già Circe un corpo umano
In rigido orso trasformar solea,
Sì che ad Ulixe un tempo parve strano:
De l'herbe, che da Pindo ebbe Medea;
Et la radice, che d'Olimpo svelse,
Quando all'età sua prima Exon rendea:
De l'altre che fra mille erbette scelse
Per iscampar Giason, quando lui volse
Monstrar per oro sue virtuti eccelse:
Dei versi, donde Orfeo le selve accolse,
Et Sisifo del sasso lassò l'opra,
Nel tempo che Euridice a morte tolse.
Raccolto insieme ho quanto, qui di sopra,
Si possa fra noi miseri mortali,
Quando Vendetta contro Amor s'adopra.
Ma benché sian queste arti tante et tali,
Pur l'alma sconsolata altronde spera
Il suo soccorso, per quetar suoi mali.
Si affida tanto nella fe' sincera,
Che in voi sempre ebbe, che per suo sostegno
Fia assai vostra mercè senza preghiera.
Et, benché il cor villano fusse degno
Di mille et più vendette insieme aggiunte,
Non voglio al tutto armarmi ancor di sdegno:
Sempre sì ben saran le mie man pronte,
Ch'io potrò ritornare alla vendetta,
Per vendicar gli oltraggi et punir l'onte.
Deh sciocco et vano, or così sia: aspetta
Col tuo sì tardo et facile costume.
La morte nostra nanzi tempo affretta.
Or dunque come io stirpo le sue piume
A questa mia colomba a poco a poco,
Così di tempo in tempo si consume:
Lei si consume come cera al foco;
Et, quale io già nel rassembrar di lei,
Per aver pace, mai non trove loco.
Io parlo lagrimando, et ben vorrei,
Che udisse ne' miei prieghi pieni d'ira
Il Tigre dispietato i dolor miei.
Et come fra i miei denti più non spira,
Così il gran foco del mio cor si allente,
Per chi tanto or si piange et si sospira.
Tengami sempre solo nella mente,
Come io già tenni lei gran tempo prima,
Che in me l'alte faville fussin spente,
Amor con quella dispietata lima
Il cor gli roda, onde egli Dido accese,
Il cor che di virtù sì il ciel sublima:
Contra ella aduopri Amor tutte sue offese:
La luce, morte, il sol, le paia un angue;
Le notti, piene d'angoscia in ciascun mese.
E, come già morendo questa langue,
Così languendo lei se altrui disia,
Rimanga senza vita et senza sangue.
Né resti mai lagnarsi già, se pria
Il nodo che qui faccio non discioglio,
Che adoppio acciò che indissulibil sia.
Che più dirò, non so: ma ben mi doglio,
Che le parole mie non son più folte
Di sdegno et d'ira, et pien di più orgoglio.
Domandemi perdono, et non l'ascolte
S'esser potesse: et quanto più s'infiamme,
Al suo gridar mercè l'orecchie volte.
Et veggia spente l'amorose fiamme
Che or sovra ogni altro fanno altero il viso,
Che sempre vivo nella mente stamme.
Né più, qual suole, germine il bel riso
Intra le nevi, le viole e i fiori,
Che fanno in terra un altro Paradiso.
Senza sperare, il disiar l'accori:
Ogni suo fallo ogni pensier raggrave,
Sempre pensando dei passati errori,
Et come il suo parlar tanto è soave,
Quanto sa ben chi l'ha nel cor dipinto,
Si faccia altrui noioso, et a sé grave.
Veggia nel bel sembiante un pallor tinto.
Che pietà faccia a me, che più domando?
Da poi che il mio signor da sdegno è vinto.
Su questo foco alfine a voi non spando
Né lauro già né mirto, che non lice;
Ma gli ultimi sospiri; et lagrimando,
Atti dolenti, misera e infelice
Vita angosciosa, et triste ricordanze,
Che lieto consacrar non si condice.
Non si condice a me false speranze,
Né più leggiadre lode, ma tal verso,
Che di pietate ogni lamento avanze.
Quel poco di mie lagrime qui verso,
Che ancor mi resta: et del buon cor le porge
Lo spirto doloroso a voi converso.
Ma per troppo dolor l'uom non si accorge
Che il tempo fugge: et come il Sol dà volta
Ecco la notte cala e il giorno sorge.
Or basta, io spero che la spera volta
Due volte non arà Proserpina anco,
Che l'alma mia verà da amor disciolta.
Quel Corno, che mi canta a lato manco,
Dice che tosto si apparecchia il giorno,
Che l'alta mia tempesta verrà manco:
Et quella fiamma, che a quell'altra intorno
Spesso si aggira, et spesso inrossa e inbruna,
Segno è, come ora in libertà ritorno.
Conoscolo a le stelle, ed alla Luna:
A non so che nel petto, che predire
Mi suole l'una et l'altra mia fortuna,
Vedi che al ciel dispiace il mio martire.

CXLIX

La notte torna, et l'aria e il ciel si annera,
E il sol si affretta a fornire il viaggio
Dietro alle spalle avendo omai la sera.
Et come intorno al fugitivo raggio
Sparisce altrui, così dentro m'infosco
Per lo novello in me commesso oltraggio.
Iteve a casa, et noi lassate al bosco
Pasciute pecorelle: et voi d'intorno
Pastori omai venite a pianger nosco.
Et benché l'ora a noi ne cele il giorno
Sotto il gravoso velo della terra,
La luna ha pieno l'uno et l'altro corno.
Ma tu vicin perdio la mandra serra
Sì tosto come a noi di su sì oscura,
Et la gran luce se ne va sotterra:
Né qui, né altrove è ben la fe' sicura:
Et chi nol sa si specchi nel meschino,
Che per fidarsi tal tempesta dura.
Un altro Cacco qui sotto Aventino,
Con orme averse et disusati inganni
Fura gli armenti di ciascun vicino.
Hercole è morto già, che di tanti anni
Gli rammentò l'offese, et punì l'onte,
Et fe' vendetta dei passati danni.
Et già il carro stellato tocca il monte
Con la sua punta, sicché l'ora è tarda:
Mira che oscura tutto l'orizonte.
Di che, per Dio, sta desto, et ben ti guarda.
Ira di stelle, et di fortuna colpo
Uman provedimento pur riguarda.
Ma chi ne incolpo
In tanta mia ruina?
Sententia divina, et mia scioccheza,
El volto, et la dureza di chi io adoro.
Se il serpe, che guardava il mio tesoro,
Fusse dal sonno stato allor più desto,
Quando per Damnae Giove si fe' d'oro;
Né quel né questo, ond'io mi lagno ogni ora
In guisa che mi accora, et è ragione,
Savrebbe la cagione
Al duol ch'io provo.
Ah! ch'un novo Sinone! or basta omai,
Amor, che assai tai guai per noi son pianti,
Et gli occhi santi, donde ancor mi struggi.
Ma tu, per chi mi fuggi, cor di sasso?
Deh ferma il passo, e i miei lamenti ascolta;
Prendi una volta del mio mal cordoglio.
Io sarò pur qual soglio
Infin che Morte
Le corte mie giornate no interrompa.
Soperchia pompa di vederti bella
Ti fa sì fella contra me et te stessa
In cui mai speme ho messa.
Ahi crudo Amore
Non hai del mio dolore ancor pietate?
Del verno estate fa per forza il tempo;
Et tu di tempo in tempo stai più salda;
Et men ti scalda l'amoroso foco;
Et parti un gioco
Il gran martir ch'io sento:
Deh, per che il mio tormento a te non duole?
Ben son le mie parole senza senso;
Ch'io penso far d'un Orso un cor pietoso,
Et per trovar riposo, guerra chieggio.
Ma se chi il pote il vole,
A che ripenso?
L'immenso suo volere el mi è nascoso:
Et pur cercar non oso miglior seggio.
Se io veggio che costei
Mi cela il suo bel viso, e il vago lume,
Che fe' Natura per mio mal sì adorno,
Sol perch'io mi consume,
Deh, cor tradito et vani pensier miei,
Perché, smarrito, dal camin non torno?
Lasso, la notte e il giorno
Mi vo struggendo, et pur l'ingorda voglia
Per tutto ciò non sbramo;
Né del cor levo la tenace spene.
Così tra due mi tene
Amor, che dall'un lato morte io chiamo;
Dall'altro, cerco d'acquetar la doglia;
Se d'ogni ben mi spoglia
La fiamma che mi rode nervi et polpe
Né so, chi, lasso, del mio mal ne incolpe,
L'astuta volpe che svegliò per forza
Il topo che dormiva,
Quando vi penso a lagrimar mi sforza.
Venga Siringa all'infamata riva,
Dove la canna nacque et fece i fiori,
Perché convien che in mille carte scriva.
O tu che al mondo ancor Certaldo onori,
Deh maledetto sia quando mostrasti
Tale arte nel trattar de' nostri amori:
Per più mia pena lasso tu informasti
Qualunque dopo te nel mondo nacque
Allor che di Guiscardo tu trattasti.
Rise la mia speranza et poscia tacque
Vedendo dentro come il core ardea
Del bel messer, che a lei cotanto piacque.
Seco leggendo tutta si struggea,
Di faville d'amor nel volto accesa,
Poi sorridendo l'occhio li porgea .
Allor credette il topo averla presa;
Né si accorgeva che a sì poca forza,
Al parer mio, troppo alta era la impresa.
L'astuta volpe, che svegliò per forza
Il topo che dormiva
Quando vi penso, a lagrimar mi sforza;
Talché da gli occhi un fonte mi deriva.
Solea nel petto mio già viva viva
Pietosa et schiva starsi la mia Donna,
Come ferma colomba in loco posta;
Et or posto ha in oblio, come a sua posta
Son posto in croce, et tormentato a torto;
Né spero mai conforto,
Né trovar posto in tanta mia tempesta.
Questa sirena al suo cantar m'arresta
Finché m'investa l'onda, che m' affonda:
Non sento chi risponda
Al mio gridar, che par già mi consume:
L'altero et dolce lume
Degli occhi, che mi fur governo et vela,
Fortuna, isdegno, et gelosia mi cela.
Rotta è la tela, che con tanto affanno
Già più d'un anno avea piangendo ordita;
Compiuta è la mia trama in sul fiorire.
Chi mi rivela come andò l'inganno
Che tanto danno a lagrimar m'invita,
Sicché di vita l'alma vuol partire:
Non pote più soffrire,
Che quella, per chi ancora ella respira,
Ver me si è volta in ira:
Ond'io dì et notte piango et non mi stanco,
Perché mia vita tosto venga manco.
Ha manco il manco: et forse, chi sa? il ritto;
Et così manco lui, tal guerra famme.
Deh, cieco Amore, or non l'hai tu a dispitto?
Io fuggirò in Egitto,
Perché il tuo sguardo ingrato non m'infiamme,
Poscia che qui riposo mi è interditto.
El ne è già scritto sì che mille carte
Ne ingombra il fiero inchiostro
Della mia pura fede.
Il sempre sospirare, e il pianger nostro
Rimbomba in tanta parte,
In quante il sol ne salda, e il Ciel si vede:
Né te han mosso a mercede
Né miei lamenti, né miei giusti prieghi
Anzi a colui ti pieghi
A cui più manca quel che più si chiede:
Chi l'ha veduto il crede:
Se io dico il vero, deh perché me nieghi?
Stolto, tu prieghi il sordo:
Non ha ricordo delle sue impromesse
Giurate et spesse, che già lei ti fe':
Et che mi vale? il mio voler se ingordo
Non vole accordo, che ragion gli fesse;
Ma spesse volte duolme di sua fe'.
Di ciò ne incolpo te,
Amore amaro, et quella falsa vista,
Che nel pensier mi attrista
Col fuggir che or mi fan gli occhi sereni;
Colla qual forza come vuoi mi meni.
Niccolò vieni, or chi fia chi m'intenda?
Comprenda mia ragion colui a chi tocca,
Che scocca la balestra senza legge,
Corregge il servo, et regge il sire, et menda.
Venda la donna, et l'uom prenda la rocca:
Sciocca et sinistra cosa a chiunque legge;
Ei par che mi dilegge
Messer quanto vaghegge allor per caso
Il giorno, che di fresco lui sia raso.
La mosca che mi vola intorno al naso
Non altramente da mattina a terza,
Che quando il sole è già presso all'occaso,
Con altro creda, che con debil ferza
Lei minacciando quindi scacciarò .
Mira che a guisa d'asinello scherza.
Così noi avrem pace, et poi farò
Del guardo traditor crudel vendetta,
Che quel che in cor non era mi monstrò .
Ahi falsa, intendi, io dico a te, aspetta
Vedi che volan l'ore et gli momenti,
Et come il tempo al trapassar si affretta.
Apollo non avrà d'intorno venti
Volte trascorso tutto in giro il mondo
Che d'esser viva converrà ti penti:
Io parlo chiaro, et non mi nascondo.

CL

Grandezza d'arte, et sforzo di natura
Al tutto fan costei
Simile in sua sustanzia agli altri Dei:
Senno, valor, virtute et gentilezza
Son tutte insieme aggiunte
Per adornar sua natural bellezza.
Et quelle sopra ogni altre altere et pronte
Soave parolette, anzi armonia
Fanno che l'alma mia,
Come beata omai, d'altro non cura.

 
 
 
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