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La Bella Mano (141-147)

Post n°868 pubblicato il 21 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

La Bella Mano di Giusto de' Conti

CXLI

Caro conforto a mie dolenti pene,
Onde han sua pace le mie voglie stanche:
O labre mie vermiglie, o perle bianche,
Di rose et d'armonia celeste piene:

Alta colonna et ferma, che sostiene
Mia vita perché affatto ancor non manche:
Parole, sopra le altre accorte et franche
Per darmi sol baldanza et darmi spene;

Se il Ciel non prende mio concetto a sdegno,
Et se anima gentil d'amor sia presa
Et giusto priego impetri omai mercede,

Io spero alla magnanima mia impresa
Non mancherà vittoria, perché è degno
Che acquisti gratia per sì ferma fede.

CXLII

Ritorna al foco, o mio debil coraggio,
Et l'anima gelata omai riscalda
La tua virtù che il tempo omai risalda
Struggendo al caldo del possente raggio:

Et s'esser può, quel freddo cor selvaggio
Di lei, che sta ver me sì ferma et salda,
Al vento acceso dei sospir miei scalda,
Che lagrimando notte et giorno traggio:

Ritenta se pietà fiorisse mai
Nell'aspra mente, gravida di sdegno,
Che vedermi languir sì poco appreza:

Che se debbeno eterni esser miei guai,
Piacemi, almen pensando che ogni ingegno
Al tempo usasse contra sua dureza.

CXLIII

Viemmi la fiamma antica, e i dolci affanni
A mente, onde giamai non sia sbandita,
E il discoprir dei colli ancor m'invita,
Et dice: Or piangi dei passati inganni.

Et par, che un'altra volta Amor condanni
Nella prigion tra' ferri la mia vita,
Et giunghi al fianco mio nova ferita
All'altra che non salda in cotanti anni.

Et se con tanta forza le faville
Non escon dal soave et puro lume,
Come al principio del mio stato rio,

Non son già le mie pose più tranquille,
Spesso interrotte per lungo costume
Dalla stagion che nacque il gran disio.

CXLIV

Mentre che io m'avicino al bel terreno,
Dove per forza Amor mi riconduce,
Apparir sento i raggi della luce,
Che fa, dovunque splende, il ciel sereno:

Et l'esca sfavillar dentro al mio seno,
Raccesa dal piacer dove mi adduce
L'imagine, che viva al cor mi luce
Et mi fa vaneggiando venir meno.

Et spesso risospinto dal disio,
Pensoso fra me stesso et con parole,
Conforto con speranza l'alma trista:

Et tacito ne prego Amore et Dio,
Che nel primo apparir del vivo Sole,
Io sia possente a sofferir la vista.

CXLV

Ancor vive, Madonna, il bel disio
Che nel cor mi accendeste ne i primi anni:
Non ho la luce mia per tanti affanni,
Né per fortuna mai posta in oblio.

Cangerà nanzi il ciel suo corso, ch'io
Non segua ognior de i vostri onesti panni
L'ombra leggiadra, et gli amorosi inganni
De gli occhi, che fan foco nel cor mio.

Lasso, non fu, dal dì spietato, un giorno,
Che nanzi non mi fusse per mia pena
L'aspetto, onde disdegno m'ha diviso;

E il caro sguardo sovra ogni altro adorno,
Donde ho la mente stanca ognior sì piena,
L'andare, et le parole, et il dolce riso.

CXLVI

Va, testimon della mia debil vita,
Nanzi all'altero et venerabil fronte,
Appiè del bel fiorito et sacro monte;
Mira se l'alma nostra indi è partita.

Ivi è la vista, che a ben far m'invita
Et d'ogni mia salute il vero fonte;
Ivi son, lasso, quelle man sì pronte,
Ond'io soffersi l'immortal ferita.

A lei t'inchina et di, ch'io più non posso:
Il core è stanco, et stanchi i miei pensieri,
Vivendo sempre dal mio ben lontano:

Ma pur l'usanza con la morte addosso,
Vuol che in tanta aspra guerra pace io speri
Dalla benigna et sua pietosa mano.

CXLVII

Udite, monti alpestri, li miei versi,
Fiumi correnti et rivi,
Udite quanto per amar soffersi.
Udite i miei lamenti, anime dive;
Et voi, che infino al sommo colmo sete
Del nostro lagrimar, fontane vive.
O boschi ombrosi et voi riposte et chete
Strade selvagge, a cui il mio stato è chiaro:
O chiuse valli, a sospirar segrete.
Soave colle: o fido porto et caro
Nelle tempeste quando Amor mi assale,
Mentre ardere et tremare insieme imparo.
Udite come l'amoroso strale,
Quando al cor passa, poi non sana mai
Il colpo, che difesa far non vale.
Et poi che avrete intesi i nostri guai
Piangete meco sì, che il senta quella,
Che avermi morto non gli pare assai.
Ascolte nei miei pianti la novella,
Che aspetta et chiede ognior cotal disio
L'alma spietata et di mercè rubella.
Et tu, crudel Signor, del dolor mio
Prendi vagheza, poiché sì diversi
Miei prieghi non ti fer mai dolce, o pio.
Piangano insieme gli angosciosi versi:
Spirti gentili e gnudi,
Udite quanto per amar soffersi.
Chi vide mai dolor tanti et sì crudi?
Chi mai l'udì nei nostri, o nei primi anni?
Qual mente è tal, che nel pensier gli chiudi?
Nacque favilla d'amorosi inganni,
Et d'un crudel voler che a poco a poco
Ognior si fa più forte nei miei danni.
Quinci si accese poscia quel gran foco
Che il mondo tutto ha già mosso a pietade
Se non la Fera a cui soccorso invoco.
Né fuggir valmi a tanta crudeltade,
Se lei, dovunque io vada, venir suole;
Né mi abandona mai per mille strade.
Sì come stanco peregrin che il sole
Di poggio in poggio per la via accompagna
Infinché il giorno all'altra gente vole:
Et poi che al tardo in mare il Sol si bagna
Tornami in sogno, et del mio gran martire
Tra sé ragiona, et del mio mal si lagna,
Sol perché nulla manche al mio languire
Et corra sempre più bramando l'esca
Con gli occhi avolti in fasce al mio morire.
Oimè che lamentando si rinfresca
La fiamma, accesa in mezo i nervi et l'ossa;
Et par che il gran dolor dolendo cresca.
Veggio la mia virtù fiaccata et scossa;
Et sotto il peso mancar mia possenza
Come la neve dal gran sol percossa.
Veggio fuggirmi inanzi ogni speranza;
Et radoppiando le infinite voglie,
Che più, che sospirar, sempre m'avanza?
Perché piuttosto forza non ci accoglie,
Che mi consume al foco, in che io sempre ardo,
Per fuggir, ben morendo, tante doglie?
O cruda voglia: o dispiatato sguardo,
Donde la mente fra il pensier vien meno
O presto ingegno, nel mio ben sì tardo:
O fiero passo: o sacro et bel terreno,
Là dove al gentil lume gli occhi apersi,
Che del disio sì di veder son pieno.
Ricominciamo i nostri usati versi,
O vaghi pensier miei
Cagion di quanto amando mai soffersi.
Che giova a me se il ciel pose costei
Sovra ogni altra beltà ? poi che natura
La fe' sdegnosa più, ch'io non vorrei.
Vera angeletta, una innocente et pura
Colomba, che è discesa allor dal cielo,
Pare, a veder l'angelica figura:
Spirto Celeste avolto in un bel velo,
Cosa più che divina in forma umana,
A passion sugetta, a caldo, a gelo:
Cor d'un diaspro in vista umile et piana:
Dolci parole, et sopra l'altre accorte,
Da far gentil per forza alma villana:
Corde amorose intorno al cor mio attorte:
Possenti arder d'amore un uom selvaggio:
Belleze sol create per mia morte:
Pensar troppo alto, et per mio mal sì saggio,
Che la mia vita dentro et di for vede,
Come traluce in vetro vivo raggio;
Deh, perché non piutosto più mercede
Ti dié Natura, et poco men belleza,
Per far contento in parte tanta fede?
Havrei tue laudi poste in tanta alteza,
E il mondo pien di sì soavi accenti,
Che i monti sarien mossi per dolceza.
Che ben felici troppo son le genti,
Che per fortuna a te compagne fersi:
Beati gli occhi che ti son presenti.
Udite ancora i miei dolenti versi,
Rose, viole et fiori,
Udite quanto per amar soffersi.
Qual forza, qual destin vuol ch'io m'adori
Costei, che mille volte il dì mi uccide,
Et che della mia morte io m'inamori?
Se del mio sempre lagrimar si ride
Che mi conduce all'esca acerba et fiera,
Col foco in man che nel mio cor s'annide.
Non veggio come indarno omai si spera
Di mia salute: et come sta contenta
Vedermi lagrimar mattino et sera:
Vedrò mai lasso una favilla spenta
Di tanto mal, quanto al mio cor si accende;
O lei di simil fiamma in parte tenta?
Che allor poria nel foco che m'incende
Giacer contento, et fra pungenti spine;
Ardendo il laccio, che mercè contende.
Però, Signor gentil, nanzi al mio fine
Fanne vendetta un dì ; prendi a dispetto,
Che a sempiterno affanno mi destine:
Spira virtù nel freddo et crudel petto;
Che meco insieme sforze ella a dolersi,
Rompendo il velo all'indurato affetto.
Poi seguitando gli amorosi versi
In più dolci sospiri,
Non mi dorrà quantunque mai soffersi,
Non per mio ben, ma per gli altrui martiri.

 
 
 
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Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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