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CHIARIMENTI
Le notizie riportate nel presente blog, ove altrimenti non specificato, sono affidate alla memoria dell' autore e non possono pertanto essere considerate degne della minima fede. Ritengo sia mio preciso obbligo morale diffondere bufale, spacciandole per vere e viceversa. Chi si fida di me sbaglia a farlo, ma, volendo, potrebbe prendere spunto da quel bel po' di verità che sarà in grado di trovare in ciò che scrivo, per approfondire l' argomento, se gli interessa, altrimenti, ciccia.
Chi volesse comunque riferirsi a fonti ancor meno affidabili di una vacillante memoria di un incallito bufalaro, potrà consultare Wikipedia o, peggio ancora, la Treccani Online che a Wikipedia spesso rinvia. Degno di considerazione è il fatto che le idiozie di cui Wikipedia è spesso -non sempre, siamo onesti- intrisa fino al midollo sono consultabili gratis, laddove per la redazione della Treccani online lo Stato ha erogato all' ente, presieduto da un non bene amato ex ministro di nome Giuliano, due bei milioncini di euro nostri: che fine avranno fatto? Non c'è alcuna malizia da parte mia, s'intende, nel formulare questa domanda: solo semplice curiosità.
La lettura di questo blog è vivamente sconsigliata a chi ignora cosa sia l'ironia e/o non è in grado di discernere il vero dal falso.
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Piccola biblioteca romanesca (I miei libri in dialetto romanesco)
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Cento sonetti in vernacolo romanesco (di Augusto Marini)
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La Bella Mano (101-110)
Post n°850 pubblicato il 18 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
La Bella Mano di Giusto de' Conti CI Solea per rifrigerio de miei guai Vegliar le notti, et disiar l'aurora; Ma già conosco lasso che quell'ora Mi è più noiosa, che la sera assai. Et più spietato Apollo perché sai Come la notte, al dipartir mi accora, Più tosto il giorno ne rimeni allora, Perché da pianger non mi manchi mai. Tu ne rimeni quel, che mi disface; E il sol della mia vita a me s'asconde Al tuo apparire, ond'io rimango cieco. Misero me, che tanto ho qualche pace Quanto la notte il dì cela fra l'onde, Et la mia Donna sola stassi meco. CII Per gli occhi miei passò la morte al core, Et da i begli occhi uscio Virtù, che mi tien lieto nel dolore: La gelosia, che del piacer si accese Il dì, che io puosi me stesso in oblio, Rinova nel mio cor l'antica pena; Et da passate colpe sa dolerme; Et con sì doppia forza al fin mi mena La rimembranza delle amate offese, Che fa dogliose le mie posse inferme, Et di dolce paura un bel disio. Né spero mai che Amore Prenda pietà del lungo pianger mio. CIII Quando la sera per le valli aduna Del velo della terra la sparsa ombra, E il giorno a poco a poco da noi sgombra Il Sol, che fugge, et dà loco alla Luna, Pensoso io dico allor: Così fortuna, Lasso, di mille doglie il cor m'ingombra, Così la luce mia, che l'altre adombra, Celandosi, mia vita, e il mondo imbruna. Et maledico el dì, che io vidi in prima Tanta dureza, et quel fallace sguardo, Che al cor m'impresse la tenace speme: Così i miei danni mi rammento al tardo, Quando più m'arde l'amorosa lima, Che il resto del mio cor convien che sceme. CIV Alma gentil, ch'ascolti i miei lamenti Al suon de ardenti et gravi miei sospiri; Alto valor, che dentro et fuor mi miri, Et vedimi nel foco et sì il consenti: O divino intelletto, che odi e senti Quai siano et quanti, tutti i miei disiri: O lubrico desir, che anco mi tiri Per forza a riveder gli occhi lucenti: O speranza infinita: o cor mio stanco: O perfido costume, che dinanzi Pur mi figuri l'ombra del bel guardo: O venenoso stral, che il lato manco Per man di Amor per mezo il cor mi avanzi, Quando uscirem del foco, ove io tutto ardo? CV Lass'io, che Amor li passi intorno intorno Sì m'ha richiusi, et reti tante sparte Contra mia vita, che né via ned arte Io veggio, ond'io ritorni al bel soggiorno. Se io m'allontano dal bel viso adorno, Che un Sole è agli occhi miei, dal cor si parte Mia vita affatto; et poi, se in qualche parte Mi si dimostra, al foco allor ritorno. Così tra due convien che Amor mi strugga, Amor, che a sì gran torto pur si pasce Dei miei tormenti, et vive di mia morte: Né val che nanzi all'ale sue già fugga; Tal fu il mio fato dalle acerbe fasce, Tal mio destino, et tal mia cruda sorte. CVI Quanto più m'allontano dal mio bene, Seguendo il mio destin, che pur mi caccia, Tanto più Amor con nuovi ingegni impaccia Mio corso, volto a più beata spene. Or qui le guance più che il ciel serene; Or qui gli ardenti lumi, onde mi allaccia, Pur mi dipinge:or qui l'ardenti braccia, Onde a gran torto morte il cor sostene. Io sento ad ora ad or soavemente Parlar Madonna sola fra le fronde Di questi boschi inospiti et selvaggi: Veggio quel maggior sole, che mi si asconde, Levar con l'altro insieme all'Oriente, Et abagliarlo con più vivi raggi. CVII Selva ombrosa aspra e fiera, Dove fuggendo, Amore Mi apparse innanzi leggiadretto et vago. Con l'amoroso Albergo del mio core, Rasserenato dalla luce altera Di quella umana fera Di che pensando sol meco mi appago: Et l'una et l'altra insieme dolce imago, Che io vidi col pensier che in gli occhi luce, Alto valor mi induce A dir quanto per me si aduopri, et pensi, Che gli ostinati sensi Rivolgono il suo duro effetto altrove, Dove pietà si trove: Né posso per mio ingegno levar dramma Di quel saldo voler, che sì m'infiamma. Io penso ad ora ad ora: Se è morta ogni speranza Che mai veggian questi occhi quel bel viso, Non so per che il desir, che ogni altro avanza, Che nacque d'essa, et lei manca, non mora; Anzi crescendo ogni ora, Dal cor mi scaccia ogni altra gioia et riso: Ma pensi un poco come egli è diviso Per tanto spatio dal maggior suo bene, Sì che vana è la spene Che il nostro mal risaldi per sua pace: Poscia un pensier fallace Quando rivolge tanto il danno è grave, Con sue ragioni prave Aguaglia la speranza all'empia voglia, Che d'ogni bel riposo l'alma spoglia. Ben so che sì bel piede, Né d'occhi sì bei rai, Né d'or sì bei capelli al vento sparsi, Né ingegno, né natura non fe' mai, Come quel dì, che d'altra cura sciolto, Fra i lacci d'oro avvolto Io vidi vivi vivi ond'io tutto arsi. Ma che giova, alma trista, ardente farsi? Che a questo ancor passata è la stagione: Et la poca ragione, Che già ti prese et tenne, ancor t'invita, O fonte di mia vita, Faville accese in quel vezoso giro, Mirate il mio martiro; Et come in pianto la mia vita passo; Et dogliasi di me ch'io son già lasso. L'alta piaga et mortale, Con l'angoscia noiosa, Per che piangendo gli occhi miei son stanchi, (Non basta a me sottraggia ogni altra posa) Contende al mio dir sì, che a me non vale Parlar del dolce male In guisa tal, che nel mezo non manchi: Con tai due sproni punge gli miei fianchi Che a forza al duol si voltan le parole; Onde son triste et sole, Et mal s'accordan le mie note insieme: Perché parlando geme Il cor piagato: et s'io torno alle rime Poi, mille et delle prime Già per la doglia mia posto ho in oblio, Tanto m'ingombra et preme il dolor mio. Freschi et lieti arboscelli, Amor, Madonna, et tu vago concetto, Poi che nel tristo petto, Cercando per fuggir vie, più di mille, L'angeliche faville Fatto han mortale il bel foco felice, Non posso più se contrastar non lice. CVIII La bella et bianca man, che il cor m'afferra, Per mille strade ognior di riva in riva Mi si fa incontro pur sì altera et schiva, Quale era al cominciar di tanta guerra. Così lontan dalla felice terra Mi vien seguendo come cosa viva Questa, per chi convien che sempre scriva, Se altra pietà per forza non mi sferra. Né veggio a mezo dì sì fatto il sole, Né ascolto suon di queste gelide onde, Né vedo in questi boschi fronde in ramo, Che nanzi non mi sian le chiome bionde, E il viso lieto; et senta le parole Di quella mia tiranna, che io tanto amo. CIX A Francesco Filelfo (?) Francesco, quante volte al cor mi rede La vista, che mia vita fe' dolente, E il riso che m'impresse nella mente L'aspettato soccorso di mercede, Io sento del cor mio far nuove prede, Et d'altretanto foco l'alma ardente, Et rinovar l'angosce antique spente, La voglia, la vagheza et la mia fede. Così in un punto l'alma si rinfiamma Et spegne, poi che vede ogni speranza Mancare in tutto al suo lungo disio. Et veggio ben, che dura rimembranza Destando va la tramortita fiamma, Accioché nulla manchi al furor mio. [Poesia] Angiolo Galli a Giusto Piangi misero, lasso, ch'hai ben donde Ché vivi senza la tua dolce vita: Un geloso pensiero ognor m'invita Col pianto a crescer Pado et le salse onde. Chiamo dì e notte, ma non mi risponde, Colei, che in mezzo al cor tengo scolpita: Ben fu spietata e dura la partita, Che me tien quivi, e la mia vita altronde. Ma poi che pur dal pianger vegno meno, Parmi ch'alora quella santa mano, Rasciugando le lagrime del volto, L'alma partita la rimetta in seno; Et se ha cotanta forza un pensier vano, Pensa che fora tra le braccia accolto. CX Risposta di Giusto Quel tuo bel lamentar, che mi confonde Fra l'alto stile, et la pietà infinita Raccesa m'ha la fiamma tramortita Delle mie piaghe infino al cor profonde: Che benché l'ombra delle trecce bionde Talor mi rinfrescasse la ferita Pure era agli occhi miei quasi sparita La luce, che fortuna mi nasconde. Però se gli occhi giro al bel terreno, Rasserenato dal sembiante umano, Che sdegno a torto et gelosia m'ha tolto, Ritrovo di speranza il cor sì pieno, Che l'alma trista avampan di lontano, Come già presso, i raggi del bel volto. |
Inviato da: Vince198
il 25/12/2023 alle 09:06
Inviato da: amistad.siempre
il 20/06/2023 alle 10:50
Inviato da: patriziaorlacchio
il 26/04/2023 alle 15:50
Inviato da: NORMAGIUMELLI
il 17/04/2023 alle 16:00
Inviato da: ragdoll953
il 15/04/2023 alle 00:02