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CHIARIMENTI
Le notizie riportate nel presente blog, ove altrimenti non specificato, sono affidate alla memoria dell' autore e non possono pertanto essere considerate degne della minima fede. Ritengo sia mio preciso obbligo morale diffondere bufale, spacciandole per vere e viceversa. Chi si fida di me sbaglia a farlo, ma, volendo, potrebbe prendere spunto da quel bel po' di verità che sarà in grado di trovare in ciò che scrivo, per approfondire l' argomento, se gli interessa, altrimenti, ciccia.
Chi volesse comunque riferirsi a fonti ancor meno affidabili di una vacillante memoria di un incallito bufalaro, potrà consultare Wikipedia o, peggio ancora, la Treccani Online che a Wikipedia spesso rinvia. Degno di considerazione è il fatto che le idiozie di cui Wikipedia è spesso -non sempre, siamo onesti- intrisa fino al midollo sono consultabili gratis, laddove per la redazione della Treccani online lo Stato ha erogato all' ente, presieduto da un non bene amato ex ministro di nome Giuliano, due bei milioncini di euro nostri: che fine avranno fatto? Non c'è alcuna malizia da parte mia, s'intende, nel formulare questa domanda: solo semplice curiosità.
La lettura di questo blog è vivamente sconsigliata a chi ignora cosa sia l'ironia e/o non è in grado di discernere il vero dal falso.
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Piccola biblioteca romanesca (I miei libri in dialetto romanesco)
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Cento sonetti in vernacolo romanesco (di Augusto Marini)
Centoventi sonetti in dialetto romanesco (di Luigi Ferretti)
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Il Trecentonovelle (di Franco Sacchetti)
I trovatori (Dalla Prefazione di "Poesie italiane inedite di Dugento Autori" dall'origine della lingua infino al Secolo Decimosettimo raccolte e illustrate da Francesco Trucchi socio di varie Accademie, Volume 1, Prato, Per Ranieri Guasti, 1847)
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Rime inedite del Cinquecento Indice 2 (di vari autori)
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La Bella Mano (081-090)
Post n°848 pubblicato il 18 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
La Bella Mano di Giusto de' Conti LXXXI A che mi fuggi, o perfida, tutte ore, Perché della mia impresa io mi distoglia? Non sai, che tanto più m' arde la voglia, Quanto per tuo fallir cresce l'errore? Convien, che meco pria s'appaghi Amore, Et dalla luna il sol sua luce toglia, Che l'alma vista in me non sia qual soglia, Donde sì dolcemente acceso ho il core. Non poran farlo tutti i rei pensieri, Che parturisce la sdegnosa mente, Che ognior non tenga in te l'usato stile: E che te, sola amando, in te non speri, Et notte et giorno non mi sie presente, Tanto la fiamma donde ardo è gentile. LXXXII Io non so se costei, per ch'io sospiro, Se infinga o tema, o pur di me non cura Ch'io mora affatto: et lei per mia sventura Consenta il mio non degno aspro martiro. Tu sai se già la piansi, et or m'adiro Se più che le lusinghe la paura Giamai potesse: et lei, pur ferma et dura, Tanto mi sforza più quanto più tiro. In questo il tempo perdo immaginando, Finché un pensier geloso il cor mi strugge, Che questa ingrata per altrui sospire: Che, se non come vien sparisce et fugge, Alla mia pura fede ripensando, Veracemente io ne vorria morire. LXXXIII Tanto m'ingombra Amor, tanto m'affanna Sotto il gran peso dell'antica arsura, Che, come Circe già con sua pastura, Dell'intelletto il mio vedere appanna. Ben veggio l'esca ascosa, che m'inganna, Al gusto dolce fuor d'ogni misura: Ma par che mi trasmuti di natura Medusa, che a seguirla mi condanna. Il filo è rotto, ond'io regger solea Nell'ampio laberinto il cieco passo, Sì che giamai non spero uscirne in vita. Non mi val di Ariadna, in ch'io credea, L'alto consiglio: ond'io dubioso et lasso Vo palpitando per la via infinita. LXXXIV Se la memoria dei passati affanni, Che mi stan sì confitti in mezo il core, O per mia sorte, o per pietà d'Amore, Mi fusse tolta, o per virtù degli anni, Un tal riguardo avrei da i nuovi inganni, Dall'un fuggendo, et poi dall'altro errore, Ch'io ne farei del gran tormento fore, Che par che a pianger sempre mi condanni. Ma pria cascaran dal ciel le stelle, Che in l'alto laberinto l'uscio trove, Che non mi annode a più possente laccio. Così convien, che sempre rinovelle Amore in me, con sue vaghezze nove, L'antica febre o d'uno in altro impaccio. LXXXV Amor, mia stella, et l'aspre voglie e tarde Di lei, che del mio mal sì poco cura, Mi fanno ad ogni or guerra: Amor mi fura Il cor, pur disiando quel che m'arde. Fortuna altro giamai par che non guarde, Se non che l'alma mia non sia sicura; Et la spiatata voglia acerba et dura Par che ogni mia speranza a venir tarde. Che poss'io più : volendo il Signor mio, E il ciel, che armato contra me s'ingegna, Durando al cor feroce il pensier rio? La mente fra gli oltraggi si disdegna, Onde, a dispetto, segue quel disio, Che in tutto a mia salute disconvegna. LXXXVI Io sento senza inganno omai mia vita, Che il tempo caccia verso l'ultime ore, Monstrar per segno dentro il suo valore Languido nella faccia scolorita. Amor, che a consumarmi il tempo aita, L'acceso stral confitto nel mio core Per tutto ciò nol tragge ancor di fore, Compreso nella fiamma tramortita. Sento natura omai vincer da gli anni, Che mi trasportan ver la stagion dura; Et per doppio martir fiaccar l'etade: Né ancor per tutto questo dagli inganni Di lei guardar mi so, che il cor mi fura; Tanto m'abaglia l'alta sua beltade. LXXXVII Io non posso fuggir l'ascose ragne, Che Amor contra mia vita ha tese et sparte: Né qui sicuro sto, né in quella parte, Dove paura et duol l'alma trista agne. Onde la mente mia dì et notte piagne; Né sa star qui, né quinci si diparte, Abandonata da Ragione et d'Arte, Che fur nei dubi suoi fide compagne, Et come augel che pria s'aventa et teme, Stassi fra i rami paventoso et solo, Mirando questo et or quell'altro colle. Così mi lego et mi ritengo insieme, L'ale aguzando al mio dubioso volo, Ch'io prego che a Dio piaccia non sia folle. LXXXVIII Deh, non più cenni omai, non falsi risi, Se tanti prieghi et lagrime non curi, Non, falsa disleal, che tu mi furi Gli spirti ad uno ad un dal cor divisi: Non più lusinghe omai, non lieti visi In vista, che al tornar mi rassicuri Non subiti sospir sopiti, et furi; Non atti pien di froda, o sguardi fisi; Non tendere altra rete a gli occhi miei, Che quella che gran tempo intorno hai sparta A pigliar l'alma che in te sol s'affida; Né temer che giamai da te mi parta: Et benché alcuna volta in vista io rida, Non son sì sciolto, non, come vorrei. LXXXIX Tutto il quarto anno il cielo ha già rivolto, Et già del quinto scalda il mezo Apollo Dal dì, che io porto il grave giogo al collo, Che all'ultimo dì sol me sarà tolto. Et nella rete di Cupido avolto Tremo l'estate, et quando inverna io bollo, Pur senza una fiata anco dar crollo Dall'aspro giogo, ond'io mai non sia sciolto. Ma ben porrò sì carco andar mille anni, Et altretanto stretto al fiero laccio, Tremando, ardendo, calcitrando invano: Ma non sì che dì et notte, come or faccio, Per far pietosa, indarno io non m'affanni, La cruda sopra ogni altra et bella mano. XC Solo, cacciando un dì come Amor volle, Un candido armelin tra i fiori et l'erba, Seguendolo una fera aspra et superba, Mi apparve a pie' d'un fresco et verde colle. Stanco parea, con gli occhi e il viso molle Chieder soccorso alla sua pena acerba, Talché un cordoglio in mente ancor mi serba Quell'atto sì che ogni piacer mi tolle. Et giunto al passo, ove poi morte il vinse, Fermossi qui, per non macchiar nel fango Suoi casti piedi, e le innocenti membra: Allor sì forte una pietà mi strinse, Che alfin ne piansi, come ancor ne piango, Piangerò sempre infin che mi rimembra. |
Inviato da: Vince198
il 25/12/2023 alle 09:06
Inviato da: amistad.siempre
il 20/06/2023 alle 10:50
Inviato da: patriziaorlacchio
il 26/04/2023 alle 15:50
Inviato da: NORMAGIUMELLI
il 17/04/2023 alle 16:00
Inviato da: ragdoll953
il 15/04/2023 alle 00:02