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La Bella Mano (074-080)

Post n°802 pubblicato il 13 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

La Bella Mano di Giusto de' Conti

LXXIV

Chi darà agli occhi miei sì larga vena
Di lagrime, ch'io possa il mio dolore
Sfogar piangendo sì, che poi m'attempre?
Et per quetare il tormentoso core,
Chi darà al petto sì possente lena,
Che, sì come convien, sospiri sempre?
Poi che provando in sì diverse tempre,
Che l'alma quando il pensa ancor ne trema,
Se contrastar potessi io a tanto male,
Né ingegno o forza vale.
Or che debbo altro infino all'ora estrema,
Che fra sospiri et pianti venir meno
Sin che d'ambe le luci fia vendetta;
E il cuor che li die' fe' ne fia punito:
(Perché non ben si segue ogni appetito:
Et colpa ben che lieve pena aspetta,
Accioché al pronto errar si metta freno)
Però che il fuoco ardente ebbe già in seno,
Et spento ancor l'accese, lui s'attristi,
E il volto porte sempre et gli occhi tristi.

Forse il mio acerbo stato et l'aspra angoscia
Dopo ch'io fia suggetto a tanto stratio,
Moveranno a pietà chi mi dà morte:
Et forse il pianto, ond'io mai non son satio,
Vincerà quella fiera voglia, poscia
Che ad altra via mercè chiuse ha le porte.
Non dico già che la mia cruda sorte
Suo corso pieghi in acquetarmi un giorno,
Sì veggio il ciel riverso nei miei danni:
Talché volgendo gli anni,
Pur ferma la mia stella, intorno intorno
Ritrosa ovunque vada mi riguarda.
Ma spero, se bontà nel mondo regna,
Soccorra un tempo, et faccia forza al cielo,
Ma poi vedendo variarmi il pelo,
Et pur, qual suol, di doglie l'alma pregna,
Temo ogni mia salute omai fia tarda;
Et aver mi par nel cuor cosa che m'arda,
Et non so che mi sento in l'alma ascoso
Che mi consuma; et lamentar non oso.

Quale uom, che giugne a troppo orribil caso,
Et vede pronto l'ultimo suo strido,
Né il tempo allor sostien proveggia o scampi;
Così pavento, lasso, et mi disfido,
Né al mondo altro conforto mi è rimaso,
Se non cagion che dì et notte avampi.
Et se gli advien talor che in mente stampi
Qualche soccorso, ratto si dilegua;
Ond'io ritorno alla mia usata guerra.
Accioché un giorno in terra
Non aggian gli occhi tristi pace o tregua.
O mia cruda vaghezza, o rio pensiero,
Perché tanto alto mi scorgesti allora.
Che maledico il dì, che gli occhi apersi:
Perocche quanto al mondo mai soffersi
Me advien, se ben ripenso, da quell'ora,
Che nel bisogno col giuditio intero
Non lasciai l'ombre, et mi rivolsi al vero;
Et dolcemente mi condussi al loco,
Ove convien che manchi a poco a poco.

Ragione è ben che il peccator non godi
D'alcun suo fallo, anzi ne senta doglia,
Et l'alma che mal fe' quella sol pera.
Ma benché ad ora ad or l'ardente voglia
Sottraggia l'alma, et dal ben far la frodi,
Basti una morte, et sia quanto vuol fiera.
Lasso, gridando vo mattino et sera;
Né guarir posso, né il dolor m'uccide
Accioché il mio martir sia più vivace.
Mira pensier fallace,
Se al mondo simil voglia mai si vide,
Che impetrar morte a me dal ciel non lice;
Né il muove la pietà del duol tanto aspro,
Né il pianger mio, che omai s'ode tanto alto.
Già non mi armò Natura il cuor di smalto,
Né mi coprì nel petto d'un diaspro,
Che restar possa più, lasso, infelice.
O forte del mio mal prima radice
Perché il tuo fiero orgoglio in me no affreni,
O con tua forza al fin tosto mi meni?

Lasso, che il mio dolore, ove io non voglio
Contra il dover per forza mi trasporta:
Et vo colpando altrui del mio fallire.
Non veggio io ben, che a poca fide scorta
Commisi un tempo, ond'io a torto mi doglio,
La vita, la salute, e il bel disire?
Et questa è sol cagion del mio languire.
Che se mortal bellezza il cor m'ingombra,
Che colpa è del destin, che a ben m'induce?
Se la soverchia luce
Di due begli occhi il mio vedere adombra,
Perché pur mi lamento delle stelle?
Se un falso riso, et due parole m'hanno
Acerbamente a morte omai sospinto;
Et se nel volto un bel voler dipinto,
Et portar dentro chiuso un dolce inganno,
È la cagion, che in pianto rinovelle,
Perché del ciel, et delle cose belle
Ognior mi lagno a torto, et non intendo
Di che la fiamma nacque, ond'io mi accendo?

Canzon se vuol chi puote, et così sia,
Che contra il mio voler quagiù rimanga,
Perché fortuna in me sua pompa spieghi,
Né vuol che Morte punto a me si pieghi,
Perché più tempo io mi consumi et pianga,
Non posso più, né so di me che fia;
Così m'ha concio una speranza ria,
Che mi condusse, immaginando, in parte
Ove io lascia' l'ardir, l'ingegno, et l'arte.

LXXV

Io non posso dal cor, ch'Amor martira
Levar l'alto disio che mi tormenta:
L'anima folle, et del suo mal contenta,
Come a lui piace, Amor la sprona et gira.

Madonna contra me si è volta in ira,
Sì che di pace ogni speranza è spenta;
Né ancor per tutto ciò dal cor s'allenta
La voglia, che al suo peggio ognior mi tira.

Non basta al gran disio compir mio ingegno,
Et per fuggirla ogni ragione è morta,
Che quel non posso già, questo non voglio.

Amor, che a forza a morte mi trasporta,
Di tal dolcezza l'alma, e il cor m'ha pregno,
Ch'io giaccio a mezo 'l fuoco, et non mi doglio.

LXXVI

Se spegne il foco che mia vita ardiva
Il fonte che per gli occhi miei distilla,
Pria che l'ardor che dentro mi sfavilla
Aggia del corpo in tutto l'alma priva;

Libero et sciolto allor convien ch'io viva
Sì, che d'Amor non senta una favilla;
Et cerchi un'altra vita più tranquilla,
Da poi che a torto il mio Signor mi schiva.

Ma come corpo che velen nudrica,
Gustando sempre amaro dalle fasce,
Che al primo dolce saria vinto et stanco;

Così mia vita che d'Amor si pasce,
Abandonando poi l'usanza antica,
Se libertà sentisse verria manco.

LXXVII

Tosto, per Dio, deh tosto pria ch'io mora
Soccorrimi per Dio; deh, aita aita:
Vedi la mente trista omai smarrita,
Et l'alma stanca giunta all'ultima ora.

Deh pensa al gran martir, che ognior m'accora,
Che nacque già d'una mortal ferita,
Rubella di mercè, che la mia vita
Sola ama, reverisce et sola onora.

Et se per me conforto et ciascun bene
È spento al mondo, et spento ha la speranza
Amor, che tanto m'ha nudrito invano,

Fornisca di tagliar quel che ne avanza
Del filo, che mia vita ancor sostiene,
La tua superba et dispietata mano.

LXXVIII

Chi non sa come Amor punge, et assale,
Et come arrossa i suoi seguaci, e imbianca;
Chi non sa come la parola manca
Quando mercè si chiede a cui non cale;

Come né forza, né argumento vale,
Né fuggir da man destra, o da man manca,
Allor che la ragion già vinta et stanca,
La strada, ove è smarrita, scerne male,

Miri nel volto di Medusa allora
Quando ver me disserra il fero sguardo,
Che per mia pena sempre cerco et fuggo,

Et guardi come aghiaccio, et poi come ardo
Davanti a chi di subito m'accora:
Et come ardendo tutto mi distruggo.

LXXIX

Se per chiamar mercè, s'impetrò mai
Fra stimoli d'Amor qualche soccorso,
Quale è sì duro cor di tigre o d'orso
Che a pianger meco non venisse omai?

Et s'io potessi, per fuggir tal guai,
Alla sfrenata voglia porre un morso,
Gran tempo è già che dall'antico corso
Avrei volte le spalle, et ben tel sai.

Ma come mie parole al cor non vanno,
Che, ritenute nelle sorde orecchie,
Sì poco apprezi perché Amor m'accori;

Così le tue durezze non faranno
Che sempre nei begli occhi non mi specchie,
Et ch'io non t'ami sempre, et sempre adori.

LXXX

Or che ogni piaggia prende il bel colore,
Ride la terra, e il frutto a noi dispensa
Et col dì notte ugualmente compensa
Quel che di tanti effetti è solo autore.

Secche en le mie speranze, et duolsi il core,
Che frutto più di lor coglier non pensa,
Ond'io tal dentro sento doglia intensa,
Che già varca il dover l'aspro dolore:

Et pasco l'alma sol di maraviglia,
Pensando quel poter dove è raccolto,
Che adopra in me contra stagion tal forza.

Intanto in mente adombro quel bel volto,
Disegno quei begli occhi et quelle ciglia,
Quegli occhi, anzi quel sol, che a ciò mi sforza.

Giusto de' Conti
La Bella Mano

 
 
 
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Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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