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CHIARIMENTI
Le notizie riportate nel presente blog, ove altrimenti non specificato, sono affidate alla memoria dell' autore e non possono pertanto essere considerate degne della minima fede. Ritengo sia mio preciso obbligo morale diffondere bufale, spacciandole per vere e viceversa. Chi si fida di me sbaglia a farlo, ma, volendo, potrebbe prendere spunto da quel bel po' di verità che sarà in grado di trovare in ciò che scrivo, per approfondire l' argomento, se gli interessa, altrimenti, ciccia.
Chi volesse comunque riferirsi a fonti ancor meno affidabili di una vacillante memoria di un incallito bufalaro, potrà consultare Wikipedia o, peggio ancora, la Treccani Online che a Wikipedia spesso rinvia. Degno di considerazione è il fatto che le idiozie di cui Wikipedia è spesso -non sempre, siamo onesti- intrisa fino al midollo sono consultabili gratis, laddove per la redazione della Treccani online lo Stato ha erogato all' ente, presieduto da un non bene amato ex ministro di nome Giuliano, due bei milioncini di euro nostri: che fine avranno fatto? Non c'è alcuna malizia da parte mia, s'intende, nel formulare questa domanda: solo semplice curiosità.
La lettura di questo blog è vivamente sconsigliata a chi ignora cosa sia l'ironia e/o non è in grado di discernere il vero dal falso.
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Piccola biblioteca romanesca (I miei libri in dialetto romanesco)
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Cento sonetti in vernacolo romanesco (di Augusto Marini)
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La Bella Mano (074-080)
Post n°802 pubblicato il 13 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
La Bella Mano di Giusto de' Conti LXXIV Chi darà agli occhi miei sì larga vena Di lagrime, ch'io possa il mio dolore Sfogar piangendo sì, che poi m'attempre? Et per quetare il tormentoso core, Chi darà al petto sì possente lena, Che, sì come convien, sospiri sempre? Poi che provando in sì diverse tempre, Che l'alma quando il pensa ancor ne trema, Se contrastar potessi io a tanto male, Né ingegno o forza vale. Or che debbo altro infino all'ora estrema, Che fra sospiri et pianti venir meno Sin che d'ambe le luci fia vendetta; E il cuor che li die' fe' ne fia punito: (Perché non ben si segue ogni appetito: Et colpa ben che lieve pena aspetta, Accioché al pronto errar si metta freno) Però che il fuoco ardente ebbe già in seno, Et spento ancor l'accese, lui s'attristi, E il volto porte sempre et gli occhi tristi. Forse il mio acerbo stato et l'aspra angoscia Dopo ch'io fia suggetto a tanto stratio, Moveranno a pietà chi mi dà morte: Et forse il pianto, ond'io mai non son satio, Vincerà quella fiera voglia, poscia Che ad altra via mercè chiuse ha le porte. Non dico già che la mia cruda sorte Suo corso pieghi in acquetarmi un giorno, Sì veggio il ciel riverso nei miei danni: Talché volgendo gli anni, Pur ferma la mia stella, intorno intorno Ritrosa ovunque vada mi riguarda. Ma spero, se bontà nel mondo regna, Soccorra un tempo, et faccia forza al cielo, Ma poi vedendo variarmi il pelo, Et pur, qual suol, di doglie l'alma pregna, Temo ogni mia salute omai fia tarda; Et aver mi par nel cuor cosa che m'arda, Et non so che mi sento in l'alma ascoso Che mi consuma; et lamentar non oso. Quale uom, che giugne a troppo orribil caso, Et vede pronto l'ultimo suo strido, Né il tempo allor sostien proveggia o scampi; Così pavento, lasso, et mi disfido, Né al mondo altro conforto mi è rimaso, Se non cagion che dì et notte avampi. Et se gli advien talor che in mente stampi Qualche soccorso, ratto si dilegua; Ond'io ritorno alla mia usata guerra. Accioché un giorno in terra Non aggian gli occhi tristi pace o tregua. O mia cruda vaghezza, o rio pensiero, Perché tanto alto mi scorgesti allora. Che maledico il dì, che gli occhi apersi: Perocche quanto al mondo mai soffersi Me advien, se ben ripenso, da quell'ora, Che nel bisogno col giuditio intero Non lasciai l'ombre, et mi rivolsi al vero; Et dolcemente mi condussi al loco, Ove convien che manchi a poco a poco. Ragione è ben che il peccator non godi D'alcun suo fallo, anzi ne senta doglia, Et l'alma che mal fe' quella sol pera. Ma benché ad ora ad or l'ardente voglia Sottraggia l'alma, et dal ben far la frodi, Basti una morte, et sia quanto vuol fiera. Lasso, gridando vo mattino et sera; Né guarir posso, né il dolor m'uccide Accioché il mio martir sia più vivace. Mira pensier fallace, Se al mondo simil voglia mai si vide, Che impetrar morte a me dal ciel non lice; Né il muove la pietà del duol tanto aspro, Né il pianger mio, che omai s'ode tanto alto. Già non mi armò Natura il cuor di smalto, Né mi coprì nel petto d'un diaspro, Che restar possa più, lasso, infelice. O forte del mio mal prima radice Perché il tuo fiero orgoglio in me no affreni, O con tua forza al fin tosto mi meni? Lasso, che il mio dolore, ove io non voglio Contra il dover per forza mi trasporta: Et vo colpando altrui del mio fallire. Non veggio io ben, che a poca fide scorta Commisi un tempo, ond'io a torto mi doglio, La vita, la salute, e il bel disire? Et questa è sol cagion del mio languire. Che se mortal bellezza il cor m'ingombra, Che colpa è del destin, che a ben m'induce? Se la soverchia luce Di due begli occhi il mio vedere adombra, Perché pur mi lamento delle stelle? Se un falso riso, et due parole m'hanno Acerbamente a morte omai sospinto; Et se nel volto un bel voler dipinto, Et portar dentro chiuso un dolce inganno, È la cagion, che in pianto rinovelle, Perché del ciel, et delle cose belle Ognior mi lagno a torto, et non intendo Di che la fiamma nacque, ond'io mi accendo? Canzon se vuol chi puote, et così sia, Che contra il mio voler quagiù rimanga, Perché fortuna in me sua pompa spieghi, Né vuol che Morte punto a me si pieghi, Perché più tempo io mi consumi et pianga, Non posso più, né so di me che fia; Così m'ha concio una speranza ria, Che mi condusse, immaginando, in parte Ove io lascia' l'ardir, l'ingegno, et l'arte. LXXV Io non posso dal cor, ch'Amor martira Levar l'alto disio che mi tormenta: L'anima folle, et del suo mal contenta, Come a lui piace, Amor la sprona et gira. Madonna contra me si è volta in ira, Sì che di pace ogni speranza è spenta; Né ancor per tutto ciò dal cor s'allenta La voglia, che al suo peggio ognior mi tira. Non basta al gran disio compir mio ingegno, Et per fuggirla ogni ragione è morta, Che quel non posso già, questo non voglio. Amor, che a forza a morte mi trasporta, Di tal dolcezza l'alma, e il cor m'ha pregno, Ch'io giaccio a mezo 'l fuoco, et non mi doglio. LXXVI Se spegne il foco che mia vita ardiva Il fonte che per gli occhi miei distilla, Pria che l'ardor che dentro mi sfavilla Aggia del corpo in tutto l'alma priva; Libero et sciolto allor convien ch'io viva Sì, che d'Amor non senta una favilla; Et cerchi un'altra vita più tranquilla, Da poi che a torto il mio Signor mi schiva. Ma come corpo che velen nudrica, Gustando sempre amaro dalle fasce, Che al primo dolce saria vinto et stanco; Così mia vita che d'Amor si pasce, Abandonando poi l'usanza antica, Se libertà sentisse verria manco. LXXVII Tosto, per Dio, deh tosto pria ch'io mora Soccorrimi per Dio; deh, aita aita: Vedi la mente trista omai smarrita, Et l'alma stanca giunta all'ultima ora. Deh pensa al gran martir, che ognior m'accora, Che nacque già d'una mortal ferita, Rubella di mercè, che la mia vita Sola ama, reverisce et sola onora. Et se per me conforto et ciascun bene È spento al mondo, et spento ha la speranza Amor, che tanto m'ha nudrito invano, Fornisca di tagliar quel che ne avanza Del filo, che mia vita ancor sostiene, La tua superba et dispietata mano. LXXVIII Chi non sa come Amor punge, et assale, Et come arrossa i suoi seguaci, e imbianca; Chi non sa come la parola manca Quando mercè si chiede a cui non cale; Come né forza, né argumento vale, Né fuggir da man destra, o da man manca, Allor che la ragion già vinta et stanca, La strada, ove è smarrita, scerne male, Miri nel volto di Medusa allora Quando ver me disserra il fero sguardo, Che per mia pena sempre cerco et fuggo, Et guardi come aghiaccio, et poi come ardo Davanti a chi di subito m'accora: Et come ardendo tutto mi distruggo. LXXIX Se per chiamar mercè, s'impetrò mai Fra stimoli d'Amor qualche soccorso, Quale è sì duro cor di tigre o d'orso Che a pianger meco non venisse omai? Et s'io potessi, per fuggir tal guai, Alla sfrenata voglia porre un morso, Gran tempo è già che dall'antico corso Avrei volte le spalle, et ben tel sai. Ma come mie parole al cor non vanno, Che, ritenute nelle sorde orecchie, Sì poco apprezi perché Amor m'accori; Così le tue durezze non faranno Che sempre nei begli occhi non mi specchie, Et ch'io non t'ami sempre, et sempre adori. LXXX Or che ogni piaggia prende il bel colore, Ride la terra, e il frutto a noi dispensa Et col dì notte ugualmente compensa Quel che di tanti effetti è solo autore. Secche en le mie speranze, et duolsi il core, Che frutto più di lor coglier non pensa, Ond'io tal dentro sento doglia intensa, Che già varca il dover l'aspro dolore: Et pasco l'alma sol di maraviglia, Pensando quel poter dove è raccolto, Che adopra in me contra stagion tal forza. Intanto in mente adombro quel bel volto, Disegno quei begli occhi et quelle ciglia, Quegli occhi, anzi quel sol, che a ciò mi sforza. Giusto de' Conti La Bella Mano |
Inviato da: Vince198
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il 26/04/2023 alle 15:50
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il 17/04/2023 alle 16:00
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il 15/04/2023 alle 00:02