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La Bella Mano (066-073)

Post n°790 pubblicato il 11 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

La Bella Mano di Giusto de' Conti

LXVI

Quanto posso m'ingegno trar d'affanni
Quest'alma, che nudrita in pene e in doglie,
Fra misere speranze et crude voglie
Ha consumato suspirando gli anni.

Posson poi tanto in lei gli dolci inganni
Dei due begli occhi, ove il mio ben s'accoglie,
Che quanto più mi sforzo, men si scioglie
Dal crudel laccio, et più segue i suoi danni.

Qual Circe, o qual Sirena, o qual Medusa,
Con erbe, o canto, o venenoso sguardo,
M'ha trasformato dalla forma vera?

Et m'ha la mente sì d'error confusa
Per un caldo disio, donde io sempre ardo,
Che l'alma ceca sempre teme et spera?

LXVII

Lasso, ben so che sì non arde il cielo
Or che il fronte d'Apollo più sfavilla,
Come entro 'l cor m'infiamma una favilla,
Ma fuor mi strugge d'amoroso gelo.

Poi nanzi a gli occhi Amor m'ha posto un velo,
Sotto 'l qual lagrimando il duol distilla,
Sì ch'io non veggio parte omai tranquilla
Per attemprar la fiamma che mal celo.

Né aspetto mai più luce; né men foco
Spero mai dentro al cor, né fuor men ghiaccio;
Ma ceco pianga sempre, avampi et treme,

Se quella bella man non scioglie il laccio,
Che sì soavemente a poco a poco
Mia vita strugge, e il cor m'annoda et preme.

LXVIII

Un novo et sì sfrenato raggio d'oro,
Che ogni splendore offende di sua luce,
Mia vita nelle fiamme in guisa adduce,
Che quanto più divampo, più namoro.

Ardo in quell'ora et dolcemente moro,
Mentre che al vago ardor mi riconduce
Lei, che m'ha scorto al fin della mia luce
Con quella man, che nei miei pianti onoro.

Suavi stridi, onde il ciel si risente,
Et lagrime pietose notte et giorno,
Et quei sospiri, ond'io già il mondo rempio,

Son frutti delle angoscie di mia mente,
Che sempre vede il bel costume adorno,
Che scese giù dal cielo a nostro esempio.

LXIX

Che pensi, cuor di tigre: a che pur guardi
Sdegnosa al cielo; et poi ti volgi a terra?
Cerchi di rinforzar l'aspra mia guerra,
Che sì ti discolori et subito ardi?

So ben che ti lamenti de tuoi sguardi,
Che affatto non mi fan metter sotterra:
Et più di quella man, che il cor m'afferra;
Parendoti il mio fin che venga tardi.

Ma fai qual vuoi di me, crudel, vendetta;
Et premi et pungi il cor da ciascun lato,
Che a te soccorso ancor quest'alma chiede.

Et s'alcun merto alfin per lei si aspetta,
Spero dopo la morte esser beato,
Soffrendo passion per vera fede.

LXX

Riposo, ove non fu mai tutto intero,
Et pace, ove è sol guerra, affanno et doglia,
Cercando per empir l'ardente voglia,
Che satia non fia mai per quel ch'io spero:

Et duol credendo esser più saldo et fiero,
Che Amor dai lacci d'oro il cor mi scioglia,
Son giunto a tal, ch'io ne fo quel che voglia
Errando d'ogni parte nel pensiero.

L'uno è cagion che nel mortal mio affanno
Ricorra a quei begli occhi per soccorso,
Ove al mio foco s'apparecchia l'esca:

L'altro, ch'io viva ove è il maggior mio danno;
Ne resti mai colei che il cor m'ha morso,
Infin che del mio corpo l'alma n'esca.

LXXI

Ora che il Sol s'asconde, et notte invita
Al dolce sonno ogni animal terreno,
Al freddo cerchio d'ombra, al ciel sereno
Arde il mio cor dolente, et chiama aita.

Poi pensa la cagion della ferita
Acerbamente ascosa nel mio seno,
Et rivolgendo ognior la scerne meno,
Tanto è la sua virtù vinta et smarrita.

Tal che non sa pensar se è fiamma o doglia
Quel che mi strugge et arde a parte a parte,
O pure altro martir che sì m'incende.

Or se a conoscer quel gli manca l'arte,
Che fia nella cagion, che a ciò m'invoglia,
Che al remo è più celata, et men s'intende?

LXXII

Che giova la cagion de' nostri guai
Cercar con gran disio dovunque guardi,
Anima semplicetta, poi che tardi
Da lei per noi mercè s'impetra omai?

Gli occhi sereni, et gli amorosi rai,
Che escon sì caldamente de suoi sguardi,
Son la cagion del foco, ove sempr'ardi,
Et della gran tempesta, ove tu stai.

Secreta lor virtù mandò giù al core
Con vana spene et le faville et l'esca,
Onde convien che eternalmente avampi.

Così a mia voglia un tempo m'arse amore:
Ma par che omai di giorno in giorno cresca
La fiamma sì, che non so donde scampi.

LXXIII

Né pianto ancor, né priego, né lamento
Giamai contra costei mi valse o vale:
Et io seguendo vo sempre il mio male;
Et par che di mia morte sia contento.

Doglioso et stanco, et d'affanno lento,
Come uom trafitto da pungente strale,
Vo lagrimando dietro a cui non cale,
Et per campagne et boschi caccio il vento.

Così tutto il mio tempo all'ombra, al sole
In van sospiro, in van ritento in versi
Da questa fera l'ultimo soccorso.

Ma che giova, alma trista, ognior dolersi?
Non cura nostre doglie, né parole
Costei che in vista umana ha cuor d'un orso.

Giusto de' Conti
La Bella Mano

 
 
 
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