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La Bella Mano (051-060)

Post n°774 pubblicato il 10 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

La Bella Mano di Giusto de' Conti

LI

Soccorri, o mio conforto et vera pace,
Soccorri, ch'io son giunto dal martire:
La doglia è sì nel colmo, che più gire
Nanzi non puote omai, se non mi sface.

O d'ogni mia salute sol verace
Porto, ove a forza mi convien fuggire,
Se campar voglio vita, che al perire
Giunta la veggio, sì come altrui piace.

Ma se di tanto mal pietà giamai
Aver da te si debbe, a che pur guardi?
Provedi alla virtù, che è stanca et lassa.

A che, dolce mia fiamma, a che pur tardi?
Le lagrime m'abondan tanto omai,
Che il troppo pianto a me pianger non lassa.

LII

Giorgio, se amore altro non è che fede,
Accesa in speme d'un desir perfetto,
Crescer dee tanto l'amoroso affetto
Quanto l'un degli amanti all'altro crede.

Or dunque se è così, donde procede
Che senza gelosia non è diletto?
Come la fe' s'accorda co 'l sospetto
Nell'aspettata spene di mercede?

Come esser può che d'un sì fiero errore
Nasca sì dolce assentio di martiri,
Di fede quindi et quindi di paura?

Et di cagion così contrarie al cuore
La dilettosa febbre ne s'aggiri,
Che fredda et calda gli animi ne fura?

LIII

Ben sei, crudel, contenta omai che vedi
Come io so' avolto nel tenace visco:
Arde il mio petto, e il viso impallidisco,
E il core, ove scolpita ognior mi sedi.

Ben sei, crudel, contenta: et che più chiedi,
Se pur dinanzi a te venir n'ardisco:
Vedendo l'ombra lasso io non m'arrisco
Passar su l'orme dei tuoi santi piedi.

Fera selvagia di te stessa vaga,
Ecco la carne et l'ossa, ecco, la vita
Nelle man strette, come vuoi, tu porti.

Rinfresca nel cor mio l'antica piaga,
Sì che una volta avanzi la ferita,
Che prova ciascun giorno mille morti.

LIV

Se fusse mio destino, o gran valore
Di mie crudeli stelle, o qualche inganno,
Che i tuoi begli occhi sì trattato m'hanno,
Non so, ma sia chi può, sel vuole Amore.

Usa mia libertà come signore
Grato nel servo, non come tiranno;
Vinca tua crudeltade il lungo affanno,
Miei prieghi, e i miei lamenti, e il gran dolore.

Né prender tal vaghezza di mia doglia,
Che non ti fia più caro il piacer mio;
Che tuo sia il danno, quando Amor m'uccida:

A me fia gratia, che di qui mi scioglia,
Se ben morendo, more quel disio,
Che ciascun giorno a più dolor mi guida.

LV

Io piango spesso, et meco Amor talvolta,
Che perde tante imprese et tanti assalti,
Seguendo ognor per aspri luoghi et alti
La fera, che sì ardita in lui si è volta.

Veggiola ad ora ad or sì pronta et sciolta,
Che avanza il mio Signore a sì gran salti;
E il cor d'un marmo, e gli occhi ha di duoi smalti
Che i suoi lamenti e i miei sì poco ascolta.

Talora al trapassar d'un verde colle
L'occhio la perde, et poi veggio posarla,
Sì che or la giungo, or subito m'avanza:

Et quanto più dagli occhi miei si tolle,
Tanto più il gran disio di seguitarla,
Et di voltarla cresce la speranza.

LVI

Prima vedrem di sdegno un cor gentile
Al tutto scemo, e 'l sol corcar là, donde
Ne mena il novo giorno, et fiori et fronde
Morranno per le piagge a mezo aprile.

Ch'ognior non segua l'angoscioso stile
Et brame l'ombra delle trecce bionde,
Ove per consumarme amor nasconde
Il foco et l'esca, e 'l sordo suo fucile,

Et che 'l cor duro et la gelata mente
De chi in un punto mi fa vivo et morto,
Non sia tal sempre in me quale esser suole:

Così mia pace et mia speranza ha[n] spente
Questa malvagia, onde adtendea conforto,
Malvagia a chi il mio mal sì poco dole.

LVII

Prima vedrem le stelle a mezo il giorno,
Et poi levarsi innanzi l'alba il sole,
Vedremo di fioretti et de viole
Quando più forte inverna, il mondo adorno:

La luna pieno l'uno et l'altro corno
Avrà nel tempo, quando scemar vole,
Natura resterà da quel che sole,
E i Cieli ad uno ad uno d'andar dattorno,

Che questa fera, che al fuggir m'avanza
Impari aver pietà del pianger mio,
Ch'è fatta sorda alli miei giusti prieghi,

Né ch'io per tutto ciò quel gran disio
Dal cor divelli, et scacci la speranza
Che par ch'ogni mia pace et ben me nieghi.

LVIII

Né valle, che di miei sospir sì ardenti
Calda non sia: né sì riposto loco,
Né sì chiuso sentiero, ove quel roco
Mio sempre mormorar già non si senti:

Né sì selvaggie, né sì aspre genti
Veggio, a cui sia celato il mio gran foco:
Né parte al mondo, dove assai o poco
Pietà non s'aggia de miei duri stenti,

Et questa sorda, che ben mille volte
Versar mi vede lacrime sì calde
Del fonte, che per gli occhi miei risorga,

O che s'infinga, o tema, o non m'ascolte,
O che di me pietà mai non la scalde,
Par che di tanto mal non se n' accorga.

LIX

Arder la notte, et agghiacciare al sole,
Et trar sospir dal fondo del mio petto,
Et versar sempre lacrime a diletto,
Interrompendo il pianto con parole;

Tener mia voglia ardente ognior qual sole,
Cercando morte co 'l maggior mio affetto,
Aver me stesso più ch'altri a dispetto,
Seguire il mal disio come Amor vole,

Questo è il mio stato et fu, dolce mia pena,
Caro mio stento, et fiamma mia gentile
Dal giorno che mal vidi gli occhi vostri.

Onde procede il duol, che al fin mi mena,
O dura et rigida alma in atto umile,
Che a torto sì crudel ver me ti mostri.

LX

O Dio, ch'al vento perdo le parole,
Et cerco l'orso umiliar co 'l pianto,
Misero, con la morte allato incanto
L'aspido sordo che ascoltar non vuole,

Al raggio d'un sfrenato et vivo sole
Mi specchio: et di Sirena il dolce canto
Mia vita ha tratto in fondo, et so ben quanto
Poco a costei del mio perir gli duole!

Et vo seguendo ognior Diana in traccia
Di selva in selva, et d'uno in altro poggio.
A cui dei miei sospir nulla gli cale,

Per far pietoso il sasso, ove io m'appoggio,
Che più m'infiamma, quando lui più agghiaccia
D'un foco, che il cor m'arde, et non fa male.

Giusto de' Conti
La Bella Mano

 
 
 
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Data di creazione: 26/04/2008
 

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