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La Bella Mano (011-015)

Post n°707 pubblicato il 30 Novembre 2014 da valerio.sampieri
 

La Bella Mano di Giusto de' Conti

XI

Nella stagion che rimbellisce l'anno
Fuggendo, s'esser può, chi mi tien vivo,
Et quella man, di cui sì caldo scrivo,
Et gli atti, che da dir tanto mi danno,

Amore, armato con suo novo inganno,
Mi si fe incontra appresso un fresco rivo;
Et lusingando, così fugitivo
Mi tenne, et mi ridusse al primo affanno.

Io dicea meco: Or chi ti riconduce?
Ma questo non mi valse alla difesa,
Tanto ebber forza in me parole et cenni.

La debil vista, dall'obietto offesa,
Lo sforzo non sostenne d'una luce,
Quand'io mi volsi indietro dond'io venni.

XII

Spento ha degli occhi bei l'altero lume
La debile mia vista, sì ch'io vivo
Omai cieco nel mondo, et son già privo
Del senso, che mi spinse al mal costume.

Ma lasso, perché il duol più mi consume,
Tra il nubiloso ciglio e il guardo schivo,
Talor si muove un raggio fugitivo,
Che in parte par le mie tenebre allume.

Del cui splendor riprendo nova luce,
Tal che dubbioso scorgo la mia morte,
Dove allor corro, perché ancor divampi:

Et veggio ben che la mia dura sorte
Sì vacillando là mi riconduce,
Perché m'abbagli et non veggia ov'io scampi.

XIII

Luce dal ciel novellamente scesa
Per far con tua presenza sacra et pura
Più degna in noi Natura,
Et aggrandire il basso stato umano,
Apena che la lingua s'assicura
A dir del ben, donde ho la mente accesa
Pensando alla mia impresa
Dignissima di stile alto et sovrano:
Ma prego Amor, ch'ogni mia sorte ha in mano
Che l' opra virtuosa franchi et spire,
Facendo alle mie stanche rime scorta;
Et scusi il troppo ardire
Del gran piacer, che a scriver mi conforta.

Poi che compiutamente ogni belleza
Per vera elezione Amore et Dio
Poser nel volto, ch'io
Come idolo scolpito in terra adoro,
E il mio sperar che fu di tanta alteza,
Che già con tal vagheza
Mi mosse a contemplar l'alto lavoro;
Non so se per riposo o per ristoro
Di mie fortune et dei passati affanni,
Ciò provedesse il mio Signor fallace,
Per darmi al fin degli anni
Alcun breve conforto o qualche pace.

Se il piacer amoroso ond'io m'accendo,
Mentre che in te son tutto attento e fiso
Per iscolpire il viso
Che fa alla nostra età cotanto onore,
Non mi tenesse allor da me diviso
Finché la forma tua vera comprendo
Et gli secreti intendo,
L'anime spente accenderei d'amore,
Ma se lo innamorato acceso core
La gran dolceza in voce poi sciogliesse,
Come confusa in lui l'ascondo et celo,
Io temo non (ne) avesse,
Di sì supreme laudi invidia il Cielo.

Quel vago riso et l'atto signorile,
L'angeliche maniere elette et care,
E il bel dolce parlare,
Che per virtù materna in te succede,
L'aspetto che nel mondo non ha pare
Son le faville e il bel laccio gentile,
Che in angoscioso stile,
Mia vita ardendo strugge, et la mia fede
Misero me, serà sempre mercede
Nimica pur così di leggiadria,
Come bellezza di pietà rubella?
Che in costei non fia,
Triomfarà sopr'ogni donna bella.

Chi poria mai la dote et la virtute,
Et l'alte tue eccellenze al mondo sole
Con mortali parole
Cantare apieno, come io dentro 'l sento?
Quale intelletto è, che tanto alto vole,
Che spieghi cose mai più non vedute;
Ove son stanche et mute
Et penne et rime, et ciascun nostro accento?
L'andar celeste, e il divin portamento
Che fan del Paradiso prova in terra,
Qual lingua o quale stile è che el descriva?
Che, se 'l parer non erra
Tua forma è umana, ma l'esentia è diva.

Hor va Canzon leggiadra
Davanti a quella oriental Fenice
Che fa di sé la nostra età felice,
Cotanta gratia da' begli occhi piove:
Et narra, se fra noi valor fu mai,
Che in lei non si ritrove
Raccolto tutto et più compiuto assai.

XIV

O sasso aventuroso, o sacro loco
Donde si move onestamente et posa
Talor la donna mia sola e pensosa,
Col mio Signore, a cui vittoria invoco.

Quinci arder vidi quel soave Foco,
Che fa la vita mia tanto angosciosa:
Quivi sedeva altera e disdegnosa
Colei, che del mio mal cura sì poco.

Però devoto a voi convien ch'io torne,
Cercando co 'l disio ciascuna parte
Qualor la dolce vista al cor mi riede,

Per ritrovar delle faville, sparte
Da quelle luci sopra l'altre adorne,
O l'orme impresse dall'onesto piede.

XV

Quando dal nostro polo sparir sole
Il chiaro giorno, et sopra gli altri luce,
Allor che il carro d'oro al mar conduce,
Apollo che di Dafne ancor si dole;

Il cor d'ardenti rai d'un vivo Sole
Chi può m'ingombra, et di sì nova luce,
Che a l'orizonte mio sempre riluce
Sole, che m'arde omai come Amor vole.

Et veggio sempre di mia morte colme
Due stelle, ove il bel guardo costei gira,
Per tempo sfavillar, sì come al tardo:

Ma lasso pur talor di Febo duolme,
Et di qualunque per amor sospira,
Ma più di me, che più d'altrui sempr'ardo.

(continua)

 
 
 
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