Mondo Jazz
Il Jazz da Armstrong a Zorn. Notizie, recensioni, personaggi, immagini, suoni e video.
IL JAZZ SU RADIOTRE
martedì 9 ottobre 2018 alle 20.30
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JAZZ & WINE OF PEACE
Pipe Dream
violoncello, voce, Hank Roberts
pianoforte, Fender Rhodes, Giorgio Pacorig
trombone, Filippo Vignato
vibrafono, Pasquale Mirra
batteria, Zeno De Rossi
Registrato il 26 ottobre 2017 a Villa Attems, Lucinico (GO)
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Post n°4073 pubblicato il 15 Settembre 2018 da pierrde
Il ristorante vegano Kajitsu nel quartiere di Murray Hill a New York © Melissa Hom Io amo il vostro cibo, adoro questo ristorante, ma non sopporto la musica che mettete. Chi l'ha scelta? Chi ha deciso di mettere insieme una simile accozzaglia? Lasciate che ci pensi io. Perché il vostro cibo è buono quanto è bella la villa imperiale di Katsura (palazzo millenario di Kyoto, ndr), mentre la musica del vostro ristorante sembra quella della Trump Tower R.Sakamoto Minata ogni giorno dalle playlist indotte dallo streaming e dalla muzak dei non-luoghi, la nostra capacità di immaginare o evadere attraverso la musica sta scomparendo. I paesaggi sonori che danno forma acustica ai nostri stati mentali svaniscono nonappena mettiamo piede in un qualsiasi negozio, centro commerciale, ristorante, spazzati via dagli algoritmi e dal cattivo gusto. Ma, finalmente, la voce di un musicista e compositore autorevole come Ryuichi Sakamoto si è sollevata per dire basta.
Fonte: https://www.lifegate.it/persone/stile-di-vita/playlist-ristorante-ryuichi-sakamoto |
Post n°4072 pubblicato il 14 Settembre 2018 da pierrde
Che musica ascoltano i ricchi americani ? Una risposta viene da una inchiesta che si può leggere su Moneyish.com, e che divide in fasce di reddito i gusti musicali dei più abbienti. Ecco qui il risultato: How much income each type of music lover rakes in: Come si può notare il jazzofilo non rientra in nessuna fascia di reddito presa in considerazione, di conseguenza non rimane che immaginare il jazzfan americano come un poveraccio che si arrabatta per arrivare a fine mese, magari rinunciando a qualche concerto...Ma sarà vero ? P.S. per quanto mi riguarda il mio reddito non arriva neppure alla metà di un country fan americano.... Link: https://moneyish.com/ish/rich-people-are-way-more-likely-to-listen-to-this-type-of-music/amp/ |
"Forces in Motion: Anthony Braxton and the Meta-reality of Creative Music"Graham Lock412 pgs.Dover Publications (2018) Chiunque ami il lavoro del sassofonista e compositore Anthony Braxton , 73 anni, sa che la sua carriera musicale è stata oggetto di numerosi libri. La più antica opera sul lavoro di Braxton, Forces in Motion , venne pubblicata la prima volta nel 1988. Ora riceve una nuova edizione riveduta e corretta nell'anniversario dei 30 anni dalla prima stampa. Questo libro è nato dal monitoraggio fatto nel 1985 dall'autore, Graham Lock, che ha seguito un tour di undici giorni in Gran Bretagna del quartetto di Braxton - all'epoca con Marilyn Crispell, Mark Dresser e Gerry Hemingway. Ecco un passaggio estrapolato dal libro : Lock: "Let's finish today with Ornette Coleman."
The record was The Shape of Jazz to Come. I put it on - G-o-o-o-o-d-d-dd-a-a-a-a-m-m-m-m!!! Thissaxophonist!!!... I mean, he doesn't sound like Desmond, this is not a Desmond sound, this isn't where the music's going! There must be some mistake! I took the record back - Mr Evans, please, that was the strangest shit I ever heard in my life. Then, over the next couple of weeks - Wow! That was a strange record! Let me borrow it again. I put it on - hmm, this is not music, it's just not music. I took it back. The next week I'd be listening again - hmm! His compositions Lonely Woman and Peace were on that record, so it was like - Wow, this is really beautiful, I've never heard compositions like this. And the solos Ornette took on that record were so special." |
Post n°4070 pubblicato il 12 Settembre 2018 da pierrde
Via Orefici, la stella di Lucio Dalla coperta dai dehors "I quattro tavolini e le 12 sedie proprio sulla stella di Lucio (Dalla, ndr) mi fanno sempre incazzare e tutte le volte che passo le faccio spostare, anche i commercianti dovrebbero capire"." "Il fatto che questi ragazzi (lo Stato sociale, ndr) vengano ci riempie di gioia- rivendica la scelta Alberti- perché lo spettacolo è anche mescolare le carte e contaminazione". In altre parole: "Se si è avanti culturalmente si capiscono le cose, altrimenti- sbotta Alberti- si scrivono puttanate sui social". Per l'organizzatore del festival, poi, basta la risposta data dalla band stessa: "Sono stati geniali, dicendo- riporta Alberti- di essere talmente jazz da non avere un'opinione in proposito..."."Potrebbe interessarti: http://www.bolognatoday.it/cronaca/VIA-OREFICI-STELLA-DALLA-DEHOR.HTML
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Post n°4069 pubblicato il 10 Settembre 2018 da juliensorel2018
Facciamo un po’ di servizio pubblico, visto che la promessa newsletter con la programmazione jazzistica del canale latita già dopo il primo invio. Mercoledì sera 12 settembre, ore 20:30 (come al solito indicative, nel senso del ritardo), andrà in onda su RadioTre la registrazione di un concerto live del gruppo di Steve Lehman, effettuata lo scorso 29 ottobre 2017 presso l’Auditorium Santa Margherita di Venezia, nell’ambito di Musicafoscari/San Servolo Jazz 2017. L’occasione è ghiotta, perché consentirà anche ai dubbiosi ed agli incerti di farsi un’idea di Selbeyonè, uno dei progetti a mio avviso più validi e stimolanti ascoltati negli ultimi mesi: ascolto particolarmente raccomandato a tutti coloro che guardano con scetticismo alla confluenza in un alveo squisitamente jazzistico delle ‘musiche di strada’, e ciò al di fuori di superficiali ed esteriori giustapposizioni. La formazione è quasi la stessa dell’ottimo disco PI Recording dell’anno scorso, e cioè: STEVE LEHMAN, sax alto JACOB RICHARDS, batteria DREWGRESS, basso CARLOS HOMS, tastiere GASTON BANDIMIC, rap HPRIZM, rap MACIEK LASSERRE, sax soprano
Franco Riccardi
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Post n°4068 pubblicato il 08 Settembre 2018 da pierrde
Foto Maurizio Tagliatesta Continuiamo a rendere giustizia a questo riuscito Festival, che, pur lontano da strepiti mediatici, ha saputo offrire un cartellone che spiccava vistosamente nel panorama italiano di quest'estate per curiosità, equilibrio e qualità. Del resto, vent'anni di storia non sono trascorsi invano e molti semi sparsi nel tempo sono ben germinati: in primis un solido rapporto con le autorità locali, che ha consentito a Fano Jazz di godere di locations non solo quanto mai suggestive dal punto di vista ambientale e monumentale, ma anche ideali per i diversi tipi di proposte musicali avanzate dal Festival. Va tra l'altro osservato che, se non ci si fosse messa di mezzo la sfortuna, il programma di Fano Jazz avrebbe potuto esser ancora più attraente con delle occasioni di ascolto pressocchè uniche nel panorama dell'estate jazzistica italiana. Infatti è stato purtroppo annullato il concerto del trio di James Brandon Lewis, che ha ahimè cancellato l'intera tournee europea: si è perduta così un'occasione rara di toccare con mano il calore e l'energia di una piccola formazione che, insieme a quelle 'parallele' del dioscuro JD Allen, sembra ormai tracciare una precisa e ben caratterizzata nuova linea evolutiva del sax tenore. A mo' di consolazione, segnalo che Brandon Lewis ci risarcirà comparendo prossimamente a Sant'Anna Arresi (che il Grande Spirito della Musica ci conservi anche questo gioiello, prossimamente su questi schermi), accompagnato in duo da quel formidabile batterista che è Chad Taylor: occasione assolutamente imperdibile, soprattutto per chi è stato stregato da "Radiant Imprints", che sin d'ora si annunzia uno dei migliori dischi apparsi quest'anno. Purtroppo anche dei molto attesi Go Go Penguin è pervenuta nello stesso pomeriggio del concerto solo una istantanea che li ritraeva sconsolati a bivaccare nell'aeroporto di Monaco paralizzato da un allarme sicurezza: è rimasto quindi nell'aria l'interrogativo circa l'apparizione di possibili eredi del molto rimpianto Esbjorn Svensson Trio. I Go Go hanno comunque solennemente promesso al Direttore Artistico, per un attimo immalinconito ("è la terza volta che mi scappano...."), che l'estate prossima si rimedia senza meno. Si diceva di grande varietà di proposte: infatti al rovente e corposo James Brandon Lewis si è sostituita la raffinata e delicata "Romaria" di Andy Sheppard, paracadutata in soccorso con pochi giorni di preavviso, tant'è vero che ha dovuto ricorrere al proteiforme e camaleontico Michele Rabbia alle percussioni. Un passaggio dal giorno alla notte: le sottili, quasi impalpabili filigrane timbriche e melodiche che rappresentano la cifra del gruppo hanno dato luogo ad un set di insistita linearità e sottigliezza, che a mio avviso però non trova la sua dimensione ideale nel palco di un festival estivo, che esige proposte un po' più caratterizzate nel senso del drive e dell'incisività. En passant, questo set un po' 'al ralenti' mi ha fatto sorgere qualche interrogativo sulla tenuta in ambito 'live' di molte musiche di pura scuola ECM, cui 'Romaria' di diritto appartiene. All'interno della formazione mi è sembrato di percepire nell'ottimo chitarrista Eivind Aarset qualche impulso di impazienza, qualche sortita che sembrava un po' 'mordere il freno' rispetto al passo del resto della formazione, che forse avrebbe potuto anche meglio sfruttare la notevole creatività e versatilità di Michele Rabbia (che in altro contesto a Fano ha brillato da par suo). Stanley Clarke. Disclaimer personale e preventivo: la Fusion non è mai stata 'my cup of tea', nemmeno nel suo momento di maggior fulgore a metà anni '70. Un manipolo di precursori geniali (talvolta oltre il limite della follia, cfr. Pastorius), presto seguiti e sostituiti da una schiera di enfatici officianti che hanno sfornato opere seriali che, avulse dal clima del momento, sono subito avvizzite. Non ho però fatto i conti con la schiera di bassisti e chitarristi dilettanti, tuttora sedotti da certi disinibiti e compiaciuti esibizionismi strumentali, dilettanti che sono calati organizzati ed in massa con i loro pullman gran turismo: tra me gli auguro buon divertimento e soprattutto di perfezionarsi nell'emulazione del loro modello. Nel chiuso delle loro cantine, però . Che dire delle quasi due ore di kitsch ad alto voltaggio, dispensate da Clarke con divertito ed ammiccante compiacimento: tra uno sbadiglio ed un ronzio ai timpani, mi sono quantomeno servite a ritarare la scala della mia estetica musicale, facendomi rivalutare la non ovvietà e naturalità di molta buona musica, che, a forza di sentire solo quella, ci sembra quasi pericolosamente scontata e non viceversa frutto di precise, determinate scelte ideali ed estetiche, che spesso costano molto care nel music business. Infatti la plastica anabolizzata di Clarke ha avuto il merito di farmi ascoltare con piacere e sollievo il Devil Quartet di Fresu: abissi di misura e finezza separavano questa musica da quella di Clarke, la formazione poi comprende uno dei miei bassisti preferiti, Paolino Dalla Porta. Ma, pur grato per il sollievo apportato, in tutta franchezza devo osservare che a mio avviso la 'cutting edge' della scena jazzistica italiana è altrove, e lo stesso Fano Jazz ha offerto ampie verifiche a riguardo, sulle quali riferiremo in futura, apposita cronaca. Del gruppo di Frisell con Petra Haden ha già ampiamente parlato qualche tempo fa il collega Baroni: diciamo che si tratta di una formazione tutta costruita intorno alla bella, ma ancora acerba ed esile voce della Haden. Francamente non c'era bisogno di una ritmica del livello di Thomas Morgan al basso e soprattutto del formidabile Eric Harland alla batteria per procedere al piccolo trotto, passo diligentemente tenuto anche dal leader Frisell, pressocchè irriconoscibile in un palese mood disimpegnato e vacanziero (niente a che vedere con la splendida performance di Empoli al fianco di Charles Lloyd). Ma la febbre era destinata a risalire sul palco della Rocca la sera del 25 luglio, con l'arrivo del gruppo di Dee Dee Bridgewater che presentava "Memphis", quel che poi si è rivelato un vero e proprio show dedicato agli anni d'oro del soul. La Bridgewater è da anni a casa a Fano, ed il concerto si annunziava sin dalla vigilia come un vero evento cittadino: ovunque occhieggiavano avvisi che segnalavano il "sold out", compresi i posti in piedi aggiunti negli ultimi giorni. L'attesa non è andata minimamente delusa, sin dal primo istante, quando sul palco la Bridgewater, altrove sofisticata jazz singer, è comparsa travestita da autentica 'pantera soul', con tanto di miniabito di strass, acconciatura a riccioli (i suoi?), ed occhiali neri. Ad accompagnarla una poderosa 'soul machine', con tanto di coriste di supporto (Sharisse Norman e Shontelle Norman-Beatty, anche qui mises perfettamente in linea) , l'imperturbabile Dell Smith che ha dispensato tonnellate di organo Hammond per la gioia degli appassionati (io, per esempio), e la formidabile coppia Charlton Johnson alla chitarra e Barry Campbell al basso elettrico, due hendrixiani di stretta osservanza (bassisti e chitarristi delle cantine, questi dovevate venire a sentire...), Curtis Pulham alla tromba, l'aitante Brian Lockhart al sax (vittima di alcune ironiche provocazioni della leader) e Carlos Sargent alla batteria. Nelle successive due ore e passa di musica rovente e coinvolgente (dopo pochi minuti nessuno era più seduto), la Bridgewater è riuscita a ricreare nella Rocca la Memphis della sua adolescenza tra gli anni '50 e 60, narrando tra un song e l'altro della sua radio 'all-black' (la prima d'America), delle sue chiese piene di musica, dei suoi attivisti... . Radio Dee Dee - una radio senza controlli di toni e volume - ha fatto scorrere con calore e passione, non scevre da un filo di affettuosa ironia (le parodie delle pose aggressivamente sexy delle dive del soul e delle loro forzate coloriture) i brani più famosi dell'epoca, mobilitando impavidamente e senza risparmio (e con qualche azzardo) i suoi raffinati mezzi vocali. Il pubblico, già in partenza totalmente complice, ha letteralmente imposto alla cantante ben tre bis, con tanto di richieste notificate al palco a mezzo cartello, con esilaranti scambi di battute tra la Bridgewater ed i fan postulanti ("quel song l'ho registrato quarant'anni fa, Darling, non ricordo bene le parole". Il cartello sventola perentoriamente, e Brigewater di rimando: "Allora facciamo così, Darling, NOI lo suoniamo, e TU lo canti....". Ma alla fine la cantante si fa strappare l'agognato Stevie Wonder, sia pur vocalizzato sui versi dimenticati). Una stremata, ma felice Dee Dee sceglie di concludere il lungo concerto con una sentita interpretazione di "Purple Rain" di Prince ("dedicata a tutti coloro che hanno perso qualcuno"): ancora una volta si conferma l'intuizione dello scontroso rabdomante Miles, che aveva percepito nel musicista recentemente scomparso una segreta consonanza con la sua ricerca. Franco Riccardi
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Lo Hot-Dog era un locale minuscolo, con un bancone e pochi tavoli. Non era molto affollato, per fortuna. Quella sera non avevo voglia di folla. Ma forse in quella nebbiosa sera di domenica i lisbonesi non erano in vena di sentire il jazz. Sulla porta c'era un manifesto con scritto: Il sassofono di Tecs. E poi, sotto: Omaggio a Sonny Rollins.
Senta, dissi, dovrebbe comunicare alla sassofonista che dopo il secondo pezzo vorrei parlare con lei, se desiderasse cenare con me ne sarei felice, le dica che sono un vecchio amico di Isabel.
Storia curiosa, replicai, una ragazza inglese che studiava a Lisbona e suonava il sassofono all'università . Americana, corresse Tecs, io sono americana, e poi la mia non è una storia più curiosa di altre, mio padre era ingegnere a Norfolk, e la ditta in cui lavorava gli propose un impiego nei cantieri navali di Lisbona, mia madre desiderava conoscere l'Europa, mio padre accettò e arrivammo in Portogallo, io mi iscrissi alla facoltà di Scienze, in realtà sono biologa, ma non ho mai esercitato la professione, a quel tempo studiavo già il sassofono ma mi vergognavo un po', fu Isabel a scoprire che suonavo e insistette perché mi esibissi alla cantina universitaria per quei ragazzi portoghesi, allora sentire il jazz era una specie di rivoluzione, era la musica di un grande paese democratico, qui in Portogallo il regime sosteneva il Fado, e sosteneva soprattutto una cantante che aveva una bella voce, non lo nego, ma che propaganda le faceva il regime, e lei a sua volta che propaganda faceva al regime, era tremendo.
E lei crede ai giornali?, chiesi, e poi via, un necrologio può averlo fatto chiunque. Questo è vero, ammise Tecs, ma ora lei cosa vuol fare? Mi piacerebbe trovare quel secondino di cui mi parlava prima, dissi io, forse lui potrebbe saperne qualcosa di più, si ricorda il suo nome? Tecs si mise la testa fra le mani. Oddio, disse, una volta lo sapevo, ma è passato tanto tempo. Faccia uno sforzo, la incoraggiai, abbiamo tutta la notte. Tecs mi guardò e scosse il capo. Spiacente, disse, l'ho cancellato dalla memoria, mi ricordo solo che era un capoverdiano. È un po' poco, dissi io, cerchi di fare uno sforzo. Non me lo ricordo più, rispose lei, mi dispiace. Senta, Tecs, insistetti, quell'uomo per me è importante e lei deve fare uno sforzo, le posso dire che l'assenzio, oltre a una certa eccitazione, da anche una lucidità eccezionale, che ne direbbe di un bicchiere d'assenzio? Lei sorrise. Non l'ho mai bevuto, si giustificò, non so che effetto mi farà . E poi continuò: comunque non importa, tanto la serata è finita, vada per l'assenzio. Io chiamai il cameriere e mi venne in mente un'altra cosa. Sonny Rollins già suonava negli anni Sessanta, vero Tecs?, chiesi, è una musica degli anni Sessanta. Lei confermò. Già all'università lo suonavo, rispose, è stato uno dei miei maestri. Bene, dissi io, facciamo rimettere il disco.
Antonio Tabucchi Fonte: https://www.dirittiglobali.it/2012/07/antonio-tabucchi/ |
Post n°4066 pubblicato il 05 Settembre 2018 da pierrde
BOLOGNA - Lo Stato Sociale riceverà il 15settembre a Bologna il «Premio Strada del Jazz 2018« e gli appassionati del genere «insorgono» su Facebook, chiedendosi cosa c'entra con il jazz il gruppo di «Una vita in vacanza». La strada del jazz è via Orefici, nel cuore del centro storico, una sorta di Hollywood Boulevard dove dal 2011 sono state posate stelle di marmo dedicate a grandi artisti che si sono esibiti in città, da Chet Baker a Miles Davis, da Ella Fitzgerald a Dizzy Gillespie, da Duke Ellington a Max Roach,oltre ad una stella speciale per ricordare Lucio Dalla.Quest'anno la stella è dedicata a Charles Mingus e al pianista Marco Di Marco, scomparso lo scorso anno. |
Post n°4065 pubblicato il 04 Settembre 2018 da pierrde
Una registrazione inedita di Charles Mingus che si esibisce con un quintetto alla Strata Concert Gallery di Detroit nel 1973 sarà pubblicata da BBE e 180 Proof il 2 novembre sotto forma di cinque album in vinile.
Tracklist: A1 - Pithecanthropus Erectus
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Post n°4064 pubblicato il 03 Settembre 2018 da pierrde
Come sfida, per una band rock, o pop che dir si voglia, è suggestiva, ma anche rischiosa. Quasi al termine del tour di «L'amore e la violenza 2», i Baustelle hanno accettato volentieri di sottoporre le loro canzoni pornoromantiche a un trattamento jazz: mercoledì prossimo, il 5 settembre, saranno all'Anfiteatro romano di Avella (Av) protagonisti di uno dei progetti speciali dell'edizione 2018 di «Pomigliano jazz in Campania» Fonte: https://www.ilmattino.it/spettacoli/musica/baustelle_pomiglia_jazz_orchestra _vacalebre_bianconi-3946650.html Non conosco i Baustelle in misura sufficiente da potermi esprimere sulle loro canzoni. Inserirli in un Jazz Festival ha forse, per chi li ha programmati, un sapore "romantico". Credo che per la stragrande maggioranza degli appassionati si tratti invece di pornografia. |
Jazz pianist Randy Weston left us this morning at age 92. Weston was the ultimate individualist whether at the keyboard (where he was a Monk disciple before almost anyone else) or when moving his jazz career from NY to North Africa. An irreplaceable artist & inspiring role model. Ted Gioia Randy Weston, a pianist and composer who devoted more than half a century to the exploration of jazz's deep connection with Africa, died on Saturday at his home in Brooklyn. He was 92. His death was announced by his wife and business partner, Fatoumata Weston. Over the course of an extraordinarily long and distinguished career, Weston carried on the pianistic and composerly tradition of Duke Ellington and Thelonious Monk before him. But he was steadfast in a specific sense of mission: he regarded jazz as an extension of African music, from its foundational essence to its living expression. He made this argument not only in eloquent conversation but also in powerful musical terms, often in recent years with his band African Rhythms. An imposingly tall but soft-spoken man, Weston embodied the connections he espoused. His touch at the piano was emphatically percussive, but also elegant, resonant and clear. He worked with a sophisticated harmonic language often shaded in blue, and in his compositions - like "Hi-Fly" and "Little Niles," which have become standards - he drew an unmistakable line from the African continent to the swinging verities of hard-bop and other strains of modern jazz. Nate Chinen
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Nel deserto ferragostano succedono cose strane. Nuovamente a digiuno di musica live, mi aggiravo famelico nelle labirintiche stanze della Grande Discoteca Svedese, quando mi sono imbattuto in questo 'strano oggetto' : https://open.spotify.com/album/1wchKjajLlm7U5tXLSIIUQ?si=XMh-pmW3SMm1nh9kwgLjmg D'istinto mi è venuto da sorridere, pensando che di questo passo forse ci possiamo attendere anche un "Braxton plays for Lovers", o quantomeno un suo "Greatest Hits". Facezie a parte, la compilation non è una boutade, ma una raccolta pubblicata da una di quelle etichette inglesi specializzate in ristampe di materiale d'epoca, da tempo inedito. Dobbiamo presumere che l'edizione abbia il pieno avallo del musicista, che del resto ha così messo nuovamente in circolo una selezione delle sue registrazioni Arista della metà degli anni '70: operazione meritoria, visto che si tratta di musica da tempo indisponibile in formato fisico e cui Braxton deve una prima affermazione sulla scena internazionale (en passant, segnalo ai fan di Anthony che gli ineffabili svedesi si sono accaparrati anche l'intera serie degli album Arista completi...). Qualche riflessione viene spontanea: ormai viene per tutti il momento della 'compilation', persino per una figura appartata ed ammantata di reputazione esoterica come Braxton. Questo è uno dei pochi frutti positivi per noi ascoltatori della corsa all'occupazione di ogni e qualsiasi nicchia di mercato disponibile da tempo in corso tra i giganti della musica liquida. E dunque cogliamolo, questo strano frutto: con la facilità ed il disimpegno consentito dalla formula dello streaming, profittiamone per riascoltare con l'orecchio di oggi quegli album degli anni '70 che contribuirono alla inossidabile fama di musicista ostico e difficilmente avvicinabile che ancora oggi Braxton si porta dietro presso vaste fasce del pubblico della musica afroamericana. Non essendo mai stato un suo aficionado, anch'io ho tentato questo riascolto retrospettivo: devo dire che i risultati sono stati piuttosto interessanti e coinvolgenti. Innanzitutto, va detto che gli oltre quarant'anni trascorsi hanno smussato molte delle spigolosità avvertite allora nella musica del chicagoano: direi che parecchie sono nel frattempo quasi inavvertitamente filtrate nel grande fiume del modern mainstream, diventando moneta corrente. Altra cosa che mi ha colpito e che andrebbe rispettosamente fatta rimarcare ai più tenaci detrattori è l'ostinato e metodico confronto costantemente affrontato da Braxton con il grande songbook americano, ciclicamente sfogliato e riletto con serietà ed impegno da un musicista i cui notevoli atout di compositore sono del tutto fuori discussione (al contrario di quelli di altri suoi più celebrati colleghi, che continuano ad infliggerci dimenticabilissimi 'originals'....). Infine, mentre scorrevano le mobilissime e zigzaganti linee di "Creative Orchestra Music 1976" mi è venuto da riflettere sul fatto che Braxton non ha mai cessato di pensare e lavorare in dimensione orchestrale (altro campo a lungo disertato da molti), e che spesso in questo ambito è capace dei suoi risultati più singolari ed affascinanti, tutt'altro che privi di sostanziale comunicativa anche per un ascoltatore munito di media cultura jazzistica; risultati tra l'altro ancor oggi più freschi e stimolanti di tanto algido, monocromo minimalismo che ci giunge dal Nord Europa, tanto per dirlo chiaro. Quindi concediamo una chance anche a "The Essential Anthony Braxton": quantomeno ci risparmieremo gli sbadigli di tanta offerta festivaliera di queste settimane. Franco Riccardi
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Post n°4061 pubblicato il 24 Agosto 2018 da pierrde
Berlino Dieci anni fa ci aveva provato Londra: musica classica nelle stazioni della metropolitana, the Tube, per ridurre i comportamenti antisociali. Niente di meglio delle armonie di Bach, Händel e Mozart per ridurre gli scippi, le aggressioni e il vandalismo sui treni e nei tunnel piastrellati da una linea all'altra. La capitale inglese aveva mutuato l'esperimento della canadese Montreal ma l'idea che la musica calmi gli uomini come le fiere parte da lontano e se ne trova già traccia nei miti di Orfeo e di Arione. Adesso Deutsche Bahn (Db) prova a rovesciare il paradigma: la società ferroviaria tedesca vuole provare ad atterrire i gruppetti di tossicodipendenti e spacciatori che traccheggiano presso la stazione della S-Bahn (la metropolitana di superfice) di Hermannstrasse, nel popolare quartiere di Neukölln, diffondendo musica atonale con gli altoparlanti. La musica atonale rimette in discussione le regole della musica occidentale, quella classica come quella popolare, alle quali siamo così abituati. Decisione assurda per principio e che ben difficilmente approderà a qualche risultato tangibile, ma, nel remoto caso funzionasse, si potrebbe provare a diffondere solo musica di Cecil Taylor in parlamento.... |
Fra le tante tristi notizie che in questi giorni arrivano da Genova, ce n'è anche una che riguarda il mondo del jazz. Nei giorni scorsi è mancato, ad un mese dagli 81 anni, Giorgio Lombardi, fondatore del Louisiana Jazz Club, istituzione genovese del jazz dal 1964, esperto di jazz tradizionale, critico musicale ed autore di numerose pubblicazioni, libri, saggi, articoli e dvd dedicati ad artisti della musica afroamericana. Ma soprattutto, instancabile promotore di iniziative, concerti, conferenze e presentazioni di musicisti, sempre sorretto dalla ferrea volontà di ottenere ed ampliare lo spazio per la "sua" musica. I ricordi personali lo collocano sul palco del Louisiana, nella seconda sede di piazza Matteotti o in quella di corso Aurelio Saffi, oppure sui palchi dei festival estivi di riviera come quello di Sori, intento a presentare l'artista ospite o il gruppo da lui promosso, individuando consonanze ed affinità fra musicisti che non avevano collaborato in precedenza. Oppure nelle numerose presentazioni delle proprie opere, fra le quali spiccano i due volumi di "Hot Jazz" editi dall'editore Daniela Piazza, e considerati la più completa ed autorevole panoramica sul jazz tradizionale, o da ultimo una completa retrospettiva sull'opera di Eddie Condon. Lo ricordo anche, un paio di anni fa protagonista di una veemente discussione con Stefano Zenni sul tema del jazz e della razza, sostenere con autorevolezza la propria tesi a favore dei doni naturali delle cantanti afroamericane. Lombardi ricopriva da alcuni anni l'incarico di Direttore Artistico del Museo del jazz l'istituzione cittadina nata per diffondere storia e valori del jazz, custodendo la grande collezione di oltre 4500 dischi donata dal Presidente della Cassa di Risparmio di Genova ed Imperia Gianni Dagnino, grande appassionato del genere. In questa veste aveva consolidato cicii di incontri con critici e specialisti di vari aspetti del jazz e prodotto numerose raccolte di video dedicate a famosi artisti come Count Basie o Billie Holiday o alle Grandi orchestre jazz. Sarà difficile, per il jazz e per Genova, trovare un successore a Giorgio Lombardi. Andrea Baroni
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Post n°4058 pubblicato il 20 Agosto 2018 da pierrde
Vijay Iyer, piano e fender rhodes; Steve Lehman, alto sax; Mark Shim, sax tenore; Graham Haynes, tromba, flicorno, cornetta con elettroniche; Stephan Crump, basso; Jimmy Dutton, batteria 22 luglio 2018, Rocca Malatestiana, Fano Jazz by the Sea Alla sua seconda giornata Fano Jazz propone un altro appuntamento molto atteso, quello con il pluripremiato sestetto di Iyer, in formazione quasi originale. Per una sorta di scaramanzia dell'ascoltatore, dopo l'exploit del trio di Meldhau della sera precedente, mi ero predisposto solo ad una impeccabile riproposizione live dello splendido "Far From Over". Ma per fortuna queste oscure regolarità statistiche sono state sovvertite dai fatti: ed ecco un'altra serata al calor bianco, se esistesse un premio per la migliore performance live il sestetto l'avrebbe aggiunto a mani basse al suo già lungo palmares. Sgombriamo subito il campo da un interrogativo: il giovane drummer Dutton non ha affatto sfigurato nell'ingrato compito di sostituire un Tishawn Sorey, musicista a tutto tondo che ormai percorre con decisione la strada della composizione e della conduction (a proposito, lo sentiremo prossimamente in queste vesti a Sant'Anna Arresi, altro cartellone smagliante, ne parleremo separatamente). Del resto Iyer deve esser allenato a ritarare la musica del sestetto in dipendenza di variazioni di un organico che comprende tutti musicisti di spiccata personalità e carriera individuale, un ensemble che è un gioco di equilibrio mantenere compatto, speriamo che l'acrobazia riesca ancora a lungo (del resto Iyer ha spiegato al pubblico che la band ha quasi sette anni di vita sulle spalle). Dal canto mio, ho avuto l'impressione che a Fano il leader avesse fatto lievemente slittare il baricentro del gruppo sul basso di Crump, che ha spiccato per tutto il set per una potente onnipresenza ed evidenza, un vero bassista da big band per assertività. Eh già, perché in realtà questo sestetto anche nella perigliosa dimensione del live ha la complessità interna di un'orchestra. La sua gemma è la front-line dei fiati: Lehman, Shim ed Haynes oscillano tra le strettissime e cronometriche tessiture polifoniche dell'insieme e la dialettica di marcati contrasti interni nei momenti solistici di ciascuno. Mark Shim (musicista da riascoltare con attenzione nelle sue prove da leader nei Blue Note dei primi anni 2000) sembra nato per dialogare con il suo suono scuro ed il fraseggio conciso e netto con un Lehman che ha lasciato di stucco per l'energia incontenibile e travolgente dei suoi assoli, lunghissime e vertiginose linee improvvisate in cui mai è venuto meno l'assoluto controllo sul suo suo affilato, chiaro tono, né l'impeccabilità di un fraseggio privo di sbavature e ridondanze. Visto il precedente di Meldhau, c'è da pensare che la raccolta atmosfera della Rocca Malatestiana abbia il potere di far uscire allo scoperto il Mr.Hide che riposa in molti jazzmen. La brillantissima prestazione a Fano mi conferma nell'impressione che Lehman sia una sorta di 'eminenza grigia' della formazione, che nella dimensione live gli dona un impatto energetico e travolgente, del tutto insospettabile avendo presente la levigata e sofisticata confezione della registrazione in studio, il tutto senza perdere alcunchè in termini di pulizia e precisione. Che altro dire di Lehman, se non che nel sestetto sembra trovare la sua dimensione ideale di espressione? Ma faremmo torto a Graham Haynes, se non ricordassimo la sua grande versatilità ai suoi tre strumenti, creativamente manipolati alle elettroniche con un risultato di estensione dei loro timbri e dinamiche: particolarmente riuscita l'avventurosa e raffinata rielaborazione della cornetta, una scommessa vinta contro i mille imprevisti e rischi del palcoscenico. La ricchezza del materiale tematico originale che ha alimentato questo infuocato concerto conferma che il gruppo è tuttora in ulteriore evoluzione; fortunatamente i bei temi che facevano in buona parte il fascino di "Far from Over" continuano a far capolino qui e là, ma soprattutto in funzione di trampolini di lancio verso nuove elaborazioni, che quasi sempre partono da momenti di sintesi e proposta del leader Iyer. Questi tende a mettere tra parentesi il suo ruolo di solista al piano, è evidente che tiene molto a quello di caporchestra. Le sue intervallate sortite solistiche, quasi dei preludi, ci riconfermano un pianismo smagliante, potente, energico, definito, armonicamente massiccio; nelle rare occasioni in cui ha messo le mani su di un vissuto fender rhodes le sottigliezze timbriche che ne ha cavato ci hanno fatto desiderare momenti solistici più ampii ed articolati, ma l'esplosivo, rovente impatto live del sestetto ha il suo prezzo, un deus ex machina dietro le quinte è necessario. Di fronte ad una performance di questo livello e vitalità, viene spontaneo desiderare un disco 'live' del sestetto: purtroppo temo che proprio non lo vedremo, diciamo che non rientra nelle corde della ECM di oggi (salvo che prima o poi i sei non si presentino a Monaco con un nastro già bello che confezionato sottobraccio, come già hanno fatto DeJohnnette & c. con 'Made in Chicago' e Formanek con l'Ensemble Kolossus... ). Scontato il grande coinvogimento del pubblico (i 700 posti della Rocca erano pressochè al completo), a dimostrazione che nel contesto giusto le proposte di qualità si fanno sempre strada; viene strappato un corposo bis, che significativamente però viene offerto solo da Iyer in trio (ad ulteriore conferma della prestazione sopra le righe della front line dei fiati....). Un'altra serata da archiviare nell'album dei migliori ricordi, con Iyer che, congedandosi dall'Europa dopo una lunga tournee', allusivamente ci ricorda che "Far from over" si legge "ben lungi dall'aver concluso": nessuno ha dubitato che non parlasse solo di musica....... Franco Riccardi
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