Mondo Jazz

Ugo Moroni - Pinturas


 
 A testimoniare un periodo fecondo per le avventure su ampia scala nel jazz italiano, da poco pubblicato su Dodici Lune ecco il secondo cd del chitarrista campano di adozione bolognese Ugo Moroni “Pinturas”, che affida composizioni originali e standards ( "A Foggy day" di George Gershwin e "Demon’s dance" di Jackie Mclean) ad un organico variabile fra l’ottetto ed il diecimino. Intento dichiarato dall’autore : “rappresentare l’incontro tra arte figurativa e musica, con dedica particolare a  Francisco Goya cui sono dedicati i brani “Pinturas Negra”, “La V° di Goya” e “Saturno divora i suoi figli”, nei quali, come nelle “Pitture Nere” di Goya, “Eros e Thanatos” sono interpretati come aspetti unilaterali dell'essenza umana ed espressi in musica attraverso gli opposti: melodia e rumore, pieno e vuoto”. Ed un analogo metodo sembra avere guidato la scelta per la composizione del largo ensemble protagonista dell’incisione, che  affianca musicisti di estrazione propriamente jazz come i sassofonisti Gaetano Santoro, Giovanni Benvenuti e Marco Vecchio, improvvisatori come il clarinettista Daniele D’Alessandro, sperimentatori dadaisti come la violinista Valeria Sturba, ed una pianista classica appassionata di canto jazz come Irene Giuliani, insieme, o in alternanza, al sax di Federico Eterno, al clarinetto di Olivia Bignardi, alla tromba di Gabriele Polimeni, al trombone di Roberto Solimando, ai bassi di Filippo Cassanelli e Gabriele Quartarone ed alla batteria di Vincenzo Massina. Il clima di “Pinturas” alterna un disinvolto uso ritmico ed armonico dell’orchestra nelle sezioni tematiche con effetti che spaziano dalla sontuosità di una big band (“Saturno divora i suoi figli”) all’essenzialità della  banda (vedi il sobbalzante motivo di “La V di Goya”), a momenti di  improvvisazione e spazi solisti gestiti sempre in senso funzionale al disegno complessivo. Che è ritmicamente vivace, ricco di contrasti fra la tradizione del jazz (l’eleganza formale di “A foggy day”) e richiami anche a mondi diversi (il theremin e le citazioni hendrixiane su “Demon’s dance”),  impresso con una vena di inventiva lucida ed un po' folle su una tela collocata in una nowhere land fra Ellington e Zappa. Unico appunto, la brevità del lavoro, che esaurisce in poco più di mezz’ora il proprio sviluppo, lasciandoci immaginare, sui duetti fra la tromba, il trombone e la batteria del brano conclusivo, quale potrebbe essere la resa del progetto in una dimensione live dai confini meno ristretti.Andrea Baroni