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IL COMPLEANNO DI MINGUS

Post n°3972 pubblicato il 23 Aprile 2015 da pierrde

Ieri Charles Mingus avrebbe compiuto 93 anni. Tra i molti tributi alla sua fondamentale figura ho trovato in rete una piccola, ragionata e condivisibile discografia che in dieci capitoli ne traccia la storia:

At the Bohemia (Debut, 1956) – Registrato dal vivo in un locale newyorkese, il primo lp 12” (ve n’erano stati in precedenza alcuni formato 10”) da leader di Mingus mette in fila sei brani splendidi (l’edizione attuale aggiunge due alternate takes) che ne dichiarano da subito influenze e poetica, evocando le colonne sonore di Henry Mancini (la felina «Jump Monk», che è pure un omaggio a Thelonious), mediando cool e bebop («Work Song»), jazz e classica («All the Things You C#» cita Rachmaninoff). Il duetto fra la batteria di Max Roach e il contrabbasso suonato da Mingus con l’archetto in «Percussion Discussion» tocca vertici di inenarrabile bellezza.

Pithecanthropus Erectus (Atlantic, 1956) – Il primo capolavoro prende forma cinque settimane più tardi. Al caos organizzato da cui palingeneticamente nasce un mondo nuovo della title-track, vanno dietro un’originale interpretazione di «A Foggy Day» (George & Ira Gershwin), con tanto di sirene e fischietti che suonano nella nebbia, il sentimentale bozzetto di «Profile of Jackie» e un’altra ambiziosa sinfonia jazz piena di cambi di passo, «Love Chant».

The Clown (Atlantic, 1957) – Apre «Haitian Fight Song» – swingante, stridula, drammatica; basso qui felpato, là spezzacuore e fiati da marching band – e tanto basterebbe a rendere ineludibile l’acquisto. Ma ci sono anche lo scuro proto-funky di «Blue Cee», il liricissimo omaggio a Charlie Parker di «Reincarnation of a Lovebird» e il racconto incantevolmente felliniano del brano omonimo. È uno degli album più grandi e sottovalutati del Nostro.

New Tijuana Moods (Bluebird, 1957) – Uno dei lavori mingusiani più accessibili per chi ha poca dimestichezza con il jazz che qui, dopo l’inchino a Gillespie di «Dizzy Moods», si colora di flamenco ed echi gitani («Ysabel’s Table Dance»), diventa giocosa sarabanda («Tijuana Gift Shop»), sipario da corrida («Los Mariachis»), pacata riflessione sul lascito ellingtoniano («Flamingo»). Il cd aggiunge al programma originale versioni differenti di quattro pezzi su cinque.

Blues & Roots (Atlantic, 1959) – Quando si dice un titolo programmatico! Come sovente accade negli album del nostro uomo, il brano chiave è il primo: «Wednesday Night Prayer Meeting», affresco di funzione liturgica negra con i tromboni che spingono come se stessero correndo verso il regno dei cieli e la voce che grugnisce estatici incitamenti. E da lì in poi è paradiso in terra. Dalle parti di New Orleans («My Jelly Roll Soul»).

Mingus Ah Um (Columbia, 1959) – Il fratello gemello del predecessore, a partire da una «Better Git Hit in Your Soul» che è per struttura e atmosfere una «Wednesday Night Prayer Meeting Pt. 2». Nove pezzi in scaletta e ognuno di essi è un classico. Cosa scegliere fra la melodia struggente di «Goodbye Pork Pie Hat» e il saltabeccare ilare di «Boogie Stop Shuffle», fra il romanticismo di «Self-Portrait in Three Colors» e l’invettiva politica (pugno di ferro in guanto di velluto) di «Fables of Faubus»? E perché scegliere?

Mingus Dynasty (Columbia, 1960) – Mingus prende congedo dal suo anno di maggiore grazia con un lavoro che riassume magistralmente le tematiche dei suoi immediati predecessori, sciorinando jazz sudato e poetico, rustico ed elegante insieme, declinando languori amorosi («Diane») che fanno da battistrada a deliziosi quadretti da cartone animato («Song with Orange») e tumulti che gridano che l’America deve cambiare («Gunslinging Bird»). Spettacolare la rilettura del cavallo di battaglia per antonomasia del Duca, «Mood Indigo».

Charles Mingus Presents Charles Mingus (Candid, 1960) – Uno degli organici più agili assemblati dal Nostro – con lui solo Ted Curson (tromba), Eric Dolphy (sassofono) e il fedele Dannie Richmond (batteria) – partorisce uno dei suoi dischi più innovativi, anticipatore di tematiche che saranno più avanti fatte proprie da Ornette Coleman. Spiccano l’iroso blues di «Original Faubus Fables» (l’assassino torna sempre sul luogo del delitto) e il dolente assolo di Mingus in «What Love?».

The Black Saint and the Sinner Lady (Impulse!, 1963) – Le enciclopedie jazz riferiscono di un album dalla storia tormentata, di nastri smarriti o rovinati, di una seconda facciata assemblata con quanto era rimasto dal produttore Bob Thiele, che per le sue intromissioni venne fatto a posteriori bersaglio di strali velenosi. Eppure il disco è fantastico, giostra spezzacuore di ottoni torridi, chitarre spagnoleggianti (un superbo Jay Berliner), ritmi singultanti, oasi di sogno. «Ethnic folk-dance music» la chiamò Mingus. E aveva ragione.

Changes One (Atlantic, 1975) – La seconda (terza?) giovinezza del contrabbassista comincia nel ’73 con Mingus Moves, offre un primo album davvero imperdibile l’anno dopo con il live Mingus at Carnegie Hall e tocca lo zenith nel 1975 con i due volumi gemelli di Changes. Validissimo il secondo, è il primo quello imperdibile. Lo dichiarano lo swing scintillante di «Remember Rockefeller at Attica» e gli incantesimi tentatori di «Duke Ellington’s Sound Of Love», la dedica alla moglie di «Sue’s Changes» e l’istrionico quasi-rock di «Devil Blues».

Fonte: Eddy Cilia 

http://www.minimaetmoralia.it/wp/charles-mingus/

 
 
 
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