Creato da pierrde il 17/12/2005

Mondo Jazz

Il Jazz da Armstrong a Zorn. Notizie, recensioni, personaggi, immagini, suoni e video.

IL JAZZ SU RADIOTRE

 

martedì 9 ottobre 2018 alle 20.30

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JAZZ & WINE OF PEACE

Pipe Dream

violoncello, voce, Hank Roberts

pianoforte, Fender Rhodes, Giorgio Pacorig

trombone, Filippo Vignato

vibrafono, Pasquale Mirra

batteria, Zeno De Rossi

Registrato il 26 ottobre 2017 a Villa Attems, Lucinico (GO)



 

 

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QUALCHE IMPRESSIONE DA BERGAMO JAZZ

Post n°3933 pubblicato il 23 Marzo 2015 da pierrde

La sensazione, a pelle ma nettissima, di essere in ascolto se non del migliore certamente di uno dei più interessanti concerti del festival è apparsa evidente dopo poco dall’inizio del set, che si sarebbe protratto per circa due ore tra un bis e l’altro. Il bello è che per me si trattava anche dell’unica presenza di tutta la rassegna, ma, stando ai racconti degli amici e a quanto ascoltato in diretta radiofonica, quello che è successo prima e dopo solo in alcuni casi ha raggiunto la stessa intensità e la medesima folgorante condizione di stato di grazia (non ho però che qualche frammentaria notizia del concerto pomeridiano di Cline).

Si trattava del penultimo concerto europeo del trio di Vijay Iver, un gruppo che esiste da undici anni ed è giunto al terzo album con la pubblicazione recente di Break Stuff per E.C.M. Da molti anni Iyer è un punto di riferimento importante ma , come sempre, si “pesa” il valore di un gruppo soprattutto dal vivo. Personalmente avevo ascoltato il trio alcuni anni fa al Jazz & Wine di Cormons rimanendone affascinato non solo dal valore intrinseco dei musicisti ma soprattutto dalle dinamiche interne, dal tipo di prospettiva alquanto personale con il quale il gruppo si rapporta sia al materiale originale sia alle composizioni altrui e alla particolare attenzione all’aspetto ritmico, un po’ a discapito forse rispetto a quello armonico.

Gli anni trascorsi hanno ulteriormente cementato l’interplay tra il contrabbasso di Stephan Crump, la batteria di Marcus Gilmore e le tastiere di Iyer , e la riproposizione praticamente per intero del nuovo Break Stuff è apparsa ancora più convincente e coinvolgente. Il pianista è un virtuoso che riesce a far sembrare molto naturale lo sviluppo di temi, le lunghe cavalcate, gli accumuli ed i rilasci di tensione. Accanto all’amore evidente per Monk, assimilato e introiettato, mai semplicemente riprodotto, nel concerto pomeridiano ho avuto modo di ascoltare anche influenze minimaliste ed un evidente substrato accademico che allarga ancor di più la tavolozza timbrica.

Notevolissimo il gioco sulle ritmiche, accentuate, rilasciate, in perenne mobilità. Cosi’ come tutto l’andamento del concerto, sviluppatosi in progressione ed in un crescendo per larghi tratti assolutamente coinvolgente ed entusiasmante. Esemplare la naturalezza con la quale Gilmore e Crump si intersecano e si sollecitano.

Ascoltato per radio mi è parso molto bello e coinvolgente anche il concerto del quartetto di Turner: grandi musicisti che scavano e riescono ancora a trovare nuova linfa in situazioni sulla carta prevedibili ma poi sviluppate in maniera originale e moderna. Una vera gara di bravura e di sollecitazioni reciproche purtroppo contenuta temporalmente dalla necessità di stare nei tempi.

Ho sempre amato i gruppi di Aldo Romano e questo Palatino, pur fermo ai box da alcuni anni (e qua e la la ruggine si è sentita), mantiene la capacità di divertire con leggerezza grazie alla sezione ritmica ficcante, ai temi ricchi di melodie e alle voci pastose di Glenn Ferris e Paolo Fresu. Anche qui da situazioni conosciute si riesce a cavare umori e colori sempre interessanti anche se non nuovi.

Devo riconoscere a Enrico Rava, il direttore artistico del festival, che una buona parte delle scelte effettuate in questi quattro anni (qualche nome: Evans, Vandermark, Turner, Iyer, Cline, Halvorson) non solo sono vincenti ma addirittura vanno contro corrente rispetto al piattume e alla banalità propositiva della maggior parte dei festival nostrani. Un merito indubbiamente, che i ripetuti tutto esaurito di questi giorni hanno abbondantemente premiato, nonostante sia evidente anche lo sforzo di accontentare tutti i palati, fatto che a volte crea disorganicità e mancanza di un progetto lineare.

Mi viene comunque da sognare: con i budget di Torino o di Perugia chissà quante belle soddisfazioni potrebbe regalarci il nostro Enrico, ma poi rimetto immediatamente i piedi per terra. In fondo Rava non ha fatto altro che chiamare alcuni dei nomi più interessanti del jazz americano, quelli per intenderci che suonano regolarmente in Europa e decisamente poco in Italia.

I motivi di questa situazione ? Bè, ci vorrebbero molti post per tentare una spiegazione….

 
 
 
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