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KENNY E STAN: LA MUSICA E LE PAROLE

Post n°3689 pubblicato il 28 Settembre 2014 da pierrde

In First song il soffio vitale diventa suono dolcissimo, pastoso e caldo che si inumidisce di pianto e malinconia. Tutte le parole non dette, non conosciute, non pensate, non ascoltate o agite, come una sorgente purissima e cristallina “ignota”, sgorgano e prendono forma nel respiro dentro il sax tenore. Getz non dà solo forma ai suoni, dà la sensazione e il significato delle proprie parole al suono. Il non-detto diventa suono e l’impossibile diventa possibile: il suono torna ad essere parola nuda che parla il linguaggio più intimo.

Parole spoglie, emozionate, snelle, punteggiate di silenzi, scolpite tra le pause, respirano, rompono muri, conquistano spazio e abbracciano una “gamma di emozioni” capace di esprimere l’intera esperienza esistenziale di ogni uomo. Quello di Stan Getz è il sax più “parlante” della storia del jazz. “First Song” (di Charlie Haden, scritta per la moglie Ruth) interpretata da Stan Getz e Kenny Barron sfiora la trascendenza, confina con il sublime e raggiunge la perfezione assoluta. Anche fosse l’unica loro registrazione, per quel che mi riguarda, sarebbe sul podio del jazz.

La introduce umilmente Kenny Barron con i tratti di un’invocazione, con un tocco gentile, sensibile, rispettoso e “stabile” che risuona dolorosamente su ogni tasto del pianoforte e tu sai già che andrai a soffrire, ma ormai è tardi sei bell’e catturata nelle maglie dell’arpeggio iniziale che cede quasi subito la “parola” a Getz: “una musica”, come direbbe Baudelaire, che “scava il cielo”. Note giuste al momento giusto, intense sfumature, insospettabili giustapposizioni drammatiche, l’ eloquenza espressiva di chi è maestro di spazio e silenzio, tono e colore, suono e parole, parole che con emozione d’amore parlano: amore, amore, amore perduto, amore che c’è, amore finito, amore ritrovato, amore “ricercato”…

”Come se” questa parola gli fosse stata “proibita” da un tempo infinito, “come se” non avesse potuto dirla per tanto tempo ora la ripete in modo quasi mistico come per liberarla e trattenerla, assaporarla e “averla”. La frenesia si è “posata”, Getz approda ad un tempo leggermente ritardato, indugia sulla melodia come sussurrasse parole sospirate, appassionate, parole urgenti, parole coraggiose che non hanno più vincoli, non hanno più riserve. Un suono che si svincola da ogni bagno, da ogni palcoscenico, da ogni pubblico, da qualsiasi luogo esterno, per rifugiarsi in quello interno, un suono parola che si slega dall’ansia, dal panico, dalla violenza e… più si allontana dal caos turbolento della sua vita più si avvicina e si avvinghia intimamente al suo sè interno.

Sparito il “come se” è “sincero con la musica”, come direbbe W. Marsalis, vuole tirare fuori da dentro se stesso, anche scarnificandosi, ogni pulviscolo di emozione, di sentimento, di verità. Ammette ogni cosa, denuda il suo cuore, lo squarta e lo traduce in una sonorità “qui e ora”, uno spazio/tempo non più separati ma uniti in una dimensione siderale che si fa davvero eterna. Non ci sono note “alla ricerca di”, la messa a fuoco è nitida: c’è una coincidenza sonora piena che risuona come un’eco e sembra provenire dalle viscere del mondo.

Qui è Barron la “cornice”, una cornice pertinente, prestigiosa e accogliente, una cornice sana, “stabile” e rispondente, una cornice che “sa tenere”, una “cornice” dove Stan sa ri-trovarsi. Una cornice che sa leggere dentro Stan e anche dentro di noi portandoci oltre quella linea delicata, raramente valicabile, tra l’amore e l’angoscia, tra silenzio ed empatia , tra la vita e la morte. C’è una meravigliosa corrente tra Kenny e Stan, tanto intensa da essere quasi “visibile”, tanto rara da sembrare una magia, una comunicazione quasi “telepatica” che non ha bisogno di altri strumenti se non due animi ricettivi: un sontuoso equilibrio li accomuna, un sentire insieme, la consapevolezza di emozioni e pensieri dell’altro, la capacità di assumerli e riverberarli empaticamente.

Stan è il perno emotivo del brano che suona come un epitaffio, in tonalità minore, fin dalle prime note: un dolore si fa strada tra solitudini e pezzi di vetro, menzogne e sangue versato, silenzi impauriti e asfalto bagnato, odore pungente di orina e alcol, letti disfatti e siringhe, passi strascicati e tombini fumanti vapore in una notte che sempre stata notte mentre, inarrestabile, scava un solco, un letto per il fiume di lacrime.

Barron è magnifico nel tessere una trama di sinuosi arpeggi consolatori e rassicuranti, una che trama serpeggia premurosa, tra una sonorità e l’altra, come una madre, ma infaticabile, imponente e autorevole come un padre. E’ capace di assumere gli stimoli musicali di Stan di rifletterli all’interno della propria melodia per poi reintegrarli in una nuova lunghezza d’onda, con una nuova luce, un’accennata alba che, come un pallido raggio di luce, rimanda a Getz senza “tradire mai” la tristezza di fondo, l’atmosfera emotiva che li fa complici commossi e silenziosi. Barron “sa tenere” magnificamente anche quando la voce del sax si fa quasi stridula per la disperazione, non lo lascia, non lo lascia mai cadere, non lo lascia mai solo. Neanche lontamente può definirsi un accompagnamento il suo, se non in un unico e nobilissimo senso riservato a pochi: Kenny è la persona che vorresti avere al fianco quando la vita ti sta abbandonando. Ed è proprio quello che sta accadendo a Stan. Dopo cinque minuti è Getz a lasciare spazio a Barron. Il suo assolo esemplare è un’altra creazione.

Egli è vicino, affine, in sintonia , ma anche diverso, capace di distinguersi e dà vita alla sua interpretazione sulla tastiera con gusto, classe, generosità che gli sono propri e porta avanti il mondo sonoro di Stan con sobrietà e commozione restando sempre “dentro” il pezzo, senza allontanarsi dal testamento “silenzioso” che Stan sta scrivendo, dalla pioggia di rimpianti che tra le note si srotolano, dai sussulti, dai singhiozzi, dalle implorazioni che il fiato umido rovescia fuori, dalla sacralità di quegli ultimi passi, dal dolore infinito che sfonda i muri e varca la soglia del cuore.

Barron mantiene l’atmosfera perfetta, l’ambiente emotivo immutato e riconsegna a Getz il suo discorso musicale arricchito delle proprie parole sonore, delicate, affettuose, vicine, consapevoli, umane che sono anche un terreno fecondo, un luogo propizio, un arco teso da dove Stan può lanciare il suo animo verso le stelle. Quando Getz rientra, dal sax esce letteralmente un urlo di dolore misto ad un torrente di lacrime, un urlo memorabile che solo Munch è riuscito a dipingere, un urlo “penetrante” che strazia l’anima, pugnala il ventre, scatena il pianto.

Un urlo disperato di chi sa che la vita lo sta lasciando, un urlo così lacerante che rimanda a una dimensione universale, un elemento che accomuna, un tocco di interezza fertile, di conclusione trasformativa, una commozione simile al perdono… E’ “come se” un maschile e un femminile finalmente si fondessero, anche se nell’ultimo istante, con l’ultimo abbraccio, con l’ultimo bacio tra le ultime parole bagnate di lacrime quelle che si dicono quando non c’è più tempo o forse è il grido di un uomo che ritrova la vita nel momento in cui “lei” lo lascia, o l’urlo di un uomo che abbraccia un sè nudo, impaurito e disperato e all’improvviso scopre una verità appresa troppo tardi mentre “si vede” nei suoi occhi colmi di lacrime di se stesso.

Nei quattro anni di collaborazione con Barron Getz si disintossica; egli definisce Barron “la sua metà musicale”, ma Kenny rappresenta anche una “metà” terapeutica che stoppa la distruzione e inserisce la ricostruzione; purtroppo non c’è tempo, un “silenzioso” tumore la fegato, l’organo che “distilla”e “seleziona” le tossine trasformandole in sostanze tollerabili per il sangue, si porterà via Stan due mesi dopo questa incisione, nel 1991… nonostante egli ripetesse “I’m too evil to die”.

Un testamento musicale questo, un’eredità immortale: “Sono fiero di essere un jazzista e per lo stesso motivo voglio che i miei figli e figli dei miei figli siano fieri di me” dice. In “First song” chiede mille volte perdono Stan, fa ammenda, vuole purificarsi, allontanare i demoni e forse la malattia… C’è un elemento quasi religioso in una cascata di note suonate sottovoce come una preghiera, come direbbe Proust “le opere, come nei pozzi cartesiani, salgono più alte quanto più a fondo la sofferenza ha scavato” e non si finisce mai di ascoltarle proprio perchè ti stanno dicendo “addio”.

Non c’è più separazione tra cornice e contenuto poichè il senso produce la forma e la forma stessa è produttrice di senso, la musicalità di Getz è qui è puro lirismo, poesia suonata e come scrive Kafka “ogni periodo, ogni parola, se mi è lecito, ogni musica è collegata con l’”angoscia” (L, 826). Il manichino, l’esteriorità del cerimoniale vuoto, anaffettivo, inerte lascia il posto ad un profondo senso del sacro volto a reintegrare, ricostituire, riparare con onde sonore emozionanti ed emozionate il sè più intimo, autentico e onesto che Stan possa ritrovare. Note altissime che non riuscivo a smettere d’ascoltare e ogni volta che la musica finiva la riascoltavo ancora e ancora, come se non avessi capito fino in fondo, come se non sapessi cogliere la passione travolgente nelle note segrete, come se anche io non fossi capace di dire un dolore indicibile.

O forse era solo un modo infantile per ritardare “l’altra” fine… quella delle sue ceneri consegnate alla brezza sull’Oceano Pacifico. La musica è un mondo, ma in questo pezzo è l’animo di Getz che dà forma al mondo. Ci sono musiche che penetrano nel midollo, si cementano nelle ossa, spalancano stanze ignote , antiche, silenziose, lontane… Scorrono fluide come sangue di vita, di ferite, di nostalgie, di dolore…percorrono tracciati di pensieri non ancora pensati, s’impastano ai colori, ai brividi, al calore della pelle…Risuonano e battono col tuo cuore, sgorgano come lacrime, respirano con te. First Song è una di quelle: “la musica esprime ciò che non può essere detto e su cui è impossibile rimanere in silenzio” V. Hugo.

Tiziana Campodoni

http://blue-moon.comunita.unita.it/2013/10/04/stan/

 
 
 
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