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Post n°922 pubblicato il 06 Luglio 2014 da LaDonnaCamel
 
Foto di LaDonnaCamel

Molti anni dopo Simone sta guidando un vecchio Land Rover su una pista di sabbia compressa. L'aria che entra rovente dai finestrini aperti suggerisce colate di metallo arancione brillante. La polvere passa sotto le ruote e si sfoglia in nuvole nel lunotto posteriore. Il picco di Menelik è poco più avanti, quattro, cinque chilometri da percorrere a passo d’uomo. Non ci sono ostacoli, non ci sono curve ma le nocche sono bianche tanto stringe il volante. Trattiene i suoi pensieri con la stessa intensità, li strizza dentro i due solchi segnati sulla strada. Un movimento involontario gli fa vibrare il sopracciglio destro.
Arriva al picco poco prima di mezzogiorno, ci sono 50 gradi all'ombra, la sua. Il caldo è una presenza corporea che schiaccia i polmoni a ogni respiro. Intorno è tutto un piatto nulla di sabbia e sassi rossi, il sole è quasi allo zenit e niente si muove.

Il picco è uno spuntone di roccia che emerge dalla sabbia, ha le dimensioni di un palazzo neanche tanto alto, sette otto piani a occhio. Simone gira indietro l'ala del berretto, raccoglie una manciata di sabbia rosa e fine come cipria e se la strofina sui palmi mentre guarda attentamente la parete. Scruta ogni asperità per valutare il punto buono dove partire all'attacco. Gira intorno alla base, piega la testa di lato, stringe gli occhi e sceglie il versante nord che gli promette un migliore contrasto d’ombre.

Senza distogliere lo sguardo dal masso si spoglia, via i pantaloni larghi, la camicia cachi, via gli scarponcini e le calze che vanno a raggiungere in volo il resto degli indumenti sul cofano polveroso. Rimane solo con i boxer, tanto chi lo vede. Se lo vedessero lo prenderebbero per matto, nudo al sole sahariano, ma lui ha la pelle dura e poi è già abbronzato. L’unica concessione al buon senso sono gli occhiali scuri. Beve mezzo litro dalla borraccia e si ferma davanti alla base della parete, stropicciandosi le mani sabbiose.

"A noi due cazzone di un Menelik". Con le braccia e le gambe spalancate si avvinghia alla guglia di pietra, ogni muscolo contratto, concentrato nella salita.
Menelik è il nome che ha dato a questa formazione rocciosa la prima volta che l'ha vista. Non lo sa come si chiama. Ha provato a chiedere, sembra che non ce l'abbia un nome. Troppa fatica per la gente del posto nominare luoghi che nessuno frequenta. Qui è una fatica fare qualsiasi cosa.
Simone sale piano, si sposta a destra o a sinistra a seconda degli appigli, le dita delle mani e dei piedi aderiscono alle asperità, il sudore gli frigge lungo la schiena, l'aria è immobile. Il tic al sopraciglio è passato.
E' questa la vita che ha scelto per sé, una sfida quotidiana contro la natura. Un poema epico che si racconta fin da ragazzo, dove lui è l’eroe puro e invincibile, i buoni sono deboli, le bestie sono feroci. E cattivi hanno un bersaglio rosso disegnato sul petto. Nonostante i quattro anni di cooperazione non riesce ancora a uniformarsi alla filosofia locale del minimo spreco di energie, lui tira al massimo da sempre. A fondo scala. Si è costruito una posizione sgobbando senza risparmi. Già da quando frequentava l'università spendeva tutte le vacanze a scaricare camion sotto diversi soli equatoriali. Aveva scelto scienze e tecnologie alimentari apposta, assecondando la speranza di suo padre che lo vedeva a dirigere l’azienda. Non era stato facile fargli accettare il distacco, a ogni missione sempre più lungo. Augusto ancora lo aspetta, chiuso nel gabbiotto di vetro. Anche sua madre lo aspetta ma in modo diverso, senza pretese. Quello è un legame che non si spezza anche se si sceglie una vita senza legami.

Ora è il più giovane tra i responsabili della sua associazione. Potrebbe far valere i suoi principi. Potrebbe. Quando sei piccolo giuri che da grande non mangerai più uno spinacio nemmeno se ti ammazzano e poi va a finire che ti piacciono e li ordini pure al ristorante. A lui non piace per niente ingoiare compromessi. O non ha ancora imparato, O non è adatto per questo lavoro. O non è adatto e basta.

Arrampica piano piano quel suo sassone caldo, ogni tanto guarda in giù per valutare quanto ne ha domato questa volta. Si concede un'ora ogni tanto, raramente due. Poi deve tornare ai suoi doveri di capo, che già la parola gli mette il malumore. Viene qui al picco quando ha un po' troppe energie da dissipare, si dice con un sarcastico eufemismo.
Stamattina per la rabbia stava per alzare le mani su un collaboratore locale. Non ce la fa a sopportarla quella rassegnazione impermeabile. E’ la terza volta che l'inventario del container non coincide col contenuto, ha controllato e ricontrollato. E non sono piccoli ammanchi. Un terzo sul totale. Le derrate che ricevono bastano appena per mantenere il villaggio al livello di sussistenza, ogni sacco di farina in meno vuol dire pance vuote alla sera, stomaci che brontolano la notte, zero energie al mattino. Non c’è un’economia locale, non si può coltivare. Fabbricare poco. Allevare pochissimo. Quelle mance coatte che vengono prelevate a ogni frontiera gli fanno venire voglia di spaccare tutto.

Simone lo sa che l’alternativa sarebbe perdere tutto il carico. Lo sa bene che se si impuntasse, se denunciasse, se combattesse in campo aperto le rappresaglie non si farebbero attendere. Potrebbero esserci anche botte e violenze.

Simone sa anche che questa è una guerra tra poveri. Chi ruba il riso, la farina, il latte in polvere lo fa perché ha fame o lo rivende per pochi soldi a chi ha fame. Non tocca a lui decidere chi ha più fame. O forse sì, forse è per decidere chi ha più fame che è stato mandato qui, che è stato promosso capo. No, è stato promosso perché nessuno ci vuole stare in questo trailer dell’inferno, gli è rimasto il cerino in mano, ecco la verità.

E poi non è neanche così. Fanculo.
Scende con un salto gli ultimi tre metri. Si attacca alla borraccia, l'acqua tiepida gli accarezza la gola.
Viene qui per sbollire la rabbia e per pensare. Soluzioni facili non ce ne sono e se ci fossero non farebbero per lui.

(continua)

 
 
 
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