Creato da afantini il 24/02/2006

Alessandro Fantini

Il Blog dell'artista multimedianico Alessandro Fantini

 

 

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L'Elettronica senza Tempo

 

 L'Elettronica senza Tempo

Jean Michel Jarre

Electronica: The Time Machine

"Soundiastole" matita su cartoncino, 33x48 cm. Alessandro Fantini (2015)

 Il passato non scompare mai del tutto e si accumula di continuo nel presente, asseriva il filosofo francese Henri Bergson in una conferenza del 1913. Intimo convincimento che il connazionale Jean Michel Jarre oltre un secolo dopo ribadisce a suo modo, trasponendone in note e soprattutto suoni le implicazioni bio-artistiche nel nuovo album “Electronica: The time machine”, primo tempo di quel lungometraggio audiografico (e per questo autobiografico) con il quale il compositore accetta di venire a patti con la natura eternamente ritornante di leitmotiv non soltanto musicali che ne hanno puntellato vita e pensiero lungo l’arco di 67 anni.

Forte di una ritrovata disciplina produttiva e verve sperimentale che sembravano essersi mummificate dentro quelle piramidi di Giza di fronte alle quali aveva allestito l’ultimo "faraonico" concerto  per accogliere il terzo millennio (a lungo atteso come portatore di quel “Futuro” adombrato dalle altrettanto “piramidali” suite di “Oxygene” ed “Equinoxe”), con questo variopinto corteo di 30 inediti messo in scena in collaborazione psico-fisica con altrettanti musicisti, Jarre cerca adesso di redimersi dal quindicennio di erratica anomia artistica iniziata con la mancata trasfigurazione auspicata con “Metamorphoses”, ultimo lavoro di ampio respiro pubblicato nel 2000.

Non è un caso infatti che nel cast di questo film previsuale narrato attraverso gli audiogrammi di una colonna sonora del tempo vissuto, faccia ritorno la stessa Laurie Anderson che (dopo la prima collaborazione in “Zoolook” del 1984) in “Je me souviens” apriva allora la tracklist sillabando proustianamente le pittografie della memoria mentre qui, sul caricaturale groove da suoneria di “Rely on me”, presta la sua algida quanto sardonica fonetica ad uno smartphone che si è fatto ormai depositario della memoria e dell’identità del suo possessore, divenendone grottesco amante cibernetico e sensuale aguzzino. Così come, evocati a più riprese nell’album del 2000 in quanto a loro volta evocatori del “french touch elettroacustico” inoculato in patria da Jarre nella loro opera cardine “Moon safari”, il duo degli Air viene stavolta scritturato non per recitare il ruolo di ispiratori o comprimari ma di co-registi di un brano programmatico che è al contempo sognante apologia dello “zeitgeist synth-etico”, microdocumentario esemplificativo dell’evoluzione storica della musica elettronica, invito a rinunciare alla visione retinica per abbandonarsi emozionalmente a quella “auditiva”, sinossi e manifesto esemplificativo dell’intero dittico. Dal loop artigianale realizzato con lamette e adesivo alla maniera dei decani della “musique concrete” incollando i nastri di campioni originali in un’unica bobina che scorre intorno all’asta di un microfono in sincrono con il ritmo del Korg minipops, progenitore delle moderne drum machine, all’ululio fantasmatico dell’EMS Synthi AKS di “oxygeniana” memoria, passando per i nuovi eterei soft-synths come il Monark fino a chiudere con l’Animoog per iPad, il “medium” legante che amalgama le cangianti cromie, gli ansiti, i friniti e le voci di “Close your eyes”, sia quelle vocoderizzate degli Air che degli strumenti reali e virtuali, resta la volontà a tratti poetico-celebrativa, a tratti ludico-romantica e metamusicale di tracciare fughe prospettiche e architetture volatili all’interno di un paesaggio familiarmente alieno e polimorfico più volte esplorato da latitudini e altitudini diverse nei quarant’anni passati. Eppure è proprio grazie a questa sua qualità “relativista” e anarchicamente fertile che il territorio dell’elettronica che (nella sua declinazione femminile rimarcata, con perdonabile presunzione, dal suo essere titolo e connotazione dell’album) come un’umida divinità terrigena accoglie, nutre e svezza nel suo grembo tutti i generi musicali, giunge ad abbracciare una così vasta pleiade di artisti in spregio a gap generazionali, culturali o geografici, impedendo che il progetto finisca con il soggiacere alle ragioni dell’endemica sindrome mercantile del “featuring” che la lista pletorica dei “guest artists” farebbe pur tuttavia presumere.


In una location svincolata dal “continuum” dello spazio-tempo in quanto fondata esclusivamente sulla “durata interiore” (per dirla ancora con Bergson), Jarre può così dirigere e accostare in infinite soluzioni mitopoietiche scenografie, storie e personaggi liberi di esprimersi ciascuno con la propria specificità identitaria sotto una comune troposfera analogico-digitale (un modus in qualche modo già sperimentato in “Zoolook” quando Marcus Miller, Yogi Horton, Adrian Belew e la Anderson venivano riuniti sotto l’egida del campionatore Fairlight), dove risulta naturale che un rocker britannico d’annata come Pete Townshed, chitarrista e autore dei testi degli “Who”, coesista con Lang Lang, virtuoso interprete cinese di Bach e Chopin, i giovani dj e produttori musicali Boys Noize e Gesaffelstein figurino al fianco del veterano Vince Clarke, cofondatore dei Depeche Mode e mente musicale degli Erasure e Yazoo, il celeberrimo John Carpenter, regista de “Halloween” e “La Cosa”, divida la scena con il duo techno-psichedelico dei Fuck Buttons e il gruppo synthpop degli “M83”. Intrecciando un arazzo protettivo che esalta e lascia barbagliare in controluce le luminescenze dei pads e i guizzi irradianti degli effetti, con la loro palpitante suadenza gli arpeggi e i sequencer (dal nitore diamantino prossimo a quelli dispiegati ventidue anni prima in “Chronologie”, album anch’esso legato al tema del tempo) tramano e avviluppano l’intera sequenza di brani, a volte in funzione di contrappunto, a volte sotto forma di struttura portante della composizione stessa, come avviene in “Zero Gravity”, emblematica traccia testamentale tessuta insieme ad Edgar Froese, fondatore dei teutonici “Tangerine Dream”. Forse anche per via del fatto che si tratta dell’unico brano in cui il criterio mimetico alla base della creazione dell’album impedisce di discernere quali siano le parti suonate da Jarre che imita la maniera dei Tangerine Dream e quali quelle di Froese che imita (o meno) lo stile di Jarre, il serpentinato excursus nelle consapevoli sonorità minimaliste di un retrospettivo “krautrock” cinematografico potrebbe trovare spazio in una delle soundtracks degli anni ’80 come “Risky Business” o “Thief”, alimentando il sospetto che il basso coefficiente “jarriano” della composizione intenda essere un riverente tributo all’eredità artistica lasciata dal defunto Froese, al quale peraltro l’album stesso viene dedicato (omaggio tutt’altro che improprio considerando quanto “Oxygene” ed “Equinoxe” debbano in termini di timbrica siderale e progressioni armoniche a “Phaedra” e “Rubycon”). Se da una parte l’assenza di gravità e di un definito baricentro melodico isolano questo brano da quelli che lo anticipano e lo precedono, dall’altra lo rendono anche un parametro di stridente contrasto con le collaborazioni a vocazione pop-radiofonica quali la glucidica e artatamente fanciullesca “If..!” confezionata su misura per i melliflui vocalizzi del folletto Little Boots, cantautrice del Lancashire apparsa sulla scena della dance-pop passando per Youtube; l’inno melanconicamente pomposo dal retrogusto alternative-rock alla “Cold Play” di “Glory” che coniuga la voce elettrificata del leader degli M83 Anthony Gonzalez all’avvolgente arpeggio cristallino di “Chronologie 1” e “Globe trotter”; l’irruente e pleonastica escapologia dance-rock di “Travelator part 2” interpretata sopra le righe da un Townshend che parodia se stesso ed appare incompiuta perché di fatto solo un estratto dell’EP eponimo (probabilmente in tre parti) che Jarre dovrebbe pubblicare on line nella sua interezza a Dicembre; il morbido cantico imbevuto di rammarico elegiaco di Moby nel crescente ordito geometrico di loop ed esangui tappeti di “Suns have gone”.


Di odissee iperspaziali e traversate fuoribordo che si dipanano nell’annichilimento del tempo, costanti che divennero attributi ontologici della maniera jarriana all’epoca di “Magnetic Fields 1”, “Arpegiator” ed “Ethnicolor”, sono intrisi soprattutto le due mini-suite di “Automatic”, un serioso “divertissement” condotto nella prima parte da un Vince Clarke che si gingilla con rigorose interpunzioni robotiche e riff da carillon steampunk, facendo poi spazio nella seconda al gioco delle varianti che Jarre ripropone con la fusione del tema di “Chronologie 4” con quello di “Je me souviens” e “Aero”, facendo decollare il brano sopra le articolazioni da affilata electro-song degli Erasure; e “The train e the river”, vero e proprio “denouement” cinematico del disco su cui aleggiano gli spettri di Pierre Schaeffer, John Cage ed Erik Satie, con i pluviali cromatismi impressionisti tamburellati del piano di Lang Lang che si ritrovano a rincorrere come una pura entità sonica alla pari dei tuoni, del vento e dei borborigmi del fiume, il sequencer alla guida del quale Jarre accelera e decelera come un nevrotico capotreno,  avvitandosi lungo le curve e gli scambi di un tracciato ferroviario a furia di staffilate di Elka synthex (a richiamare quelle del primo brano) e di pennellate di Eminent sugli accordi di Oxygene 2, che si perde nel bubbolio lontano di un temporale sulla Senna catturato di sfuggita con lo sguardo fuori dalla finestra dello studio di Bougival, in un’immagine lenticolare sospesa tra una tela en plen air di Monet e il finale di un film di Chabrol. Tutto questo in linea con quella tonalità latamente cinegrafica posseduta dal progetto (che, con la presenza anche di Hans Zimmer e David Lynch nel secondo volume, costituisce più di un rimando al lascito paterno di Maurice Jarre) consolidata dal precedente “Question of blood” composto con il Carpenter più gothic-rock di “Escape from New York”, traccia che avrebbe senz’altro beneficiato di un’evoluzione più graduale ed estesa dell’idea melodica attorno al quale la voce da soprano e gli arpeggi concitati di Jarre vorticano in un crescendo angoscioso prima di spezzarsi precocemente.

Tuttavia, una volta ascoltato e analizzato l’album come “unicum”, diventa chiaro come la filogenesi musicale del genoma jarriano abbia qui trovato la sua più limpida manifestazione all’atto di ricombinarsi con la sontuosa psichedelia cerimoniale dei Fuck Buttons che nella cupa frenesia metallica della techno travasano le derive interestellari dei primi Pink Floyd di “Saucerful of secrets” e “Echoes”. Ancor più che nella “The time machine” d’apertura eretta come una guglia cyber-gotica sopra la cattedrale di “cori mellotronici” con l’amburghese Boys Noyze, la martellante marcia post-industrial che trapassa tenebre evanescenti e foschie pigolanti in compagnia di Gesaffelstein in “Conquistador”, l’arrembante rivisitazione della trance infiorettata con consumato mestiere in “Stardust” in coppia con il “fratello minore” Van Buuren, o la sofferta gestazione del languido e incerto trip-hop operistico di “Watching you” partorito col cesareo in due anni con lo schivo 3D dei Massive Attack, la maestosa e dilagante messa per organo lisergico di “Immortals” offre la prova provata di come il logos dell’epica sinfonico-elettronica coniata in solitaria da Jarre a cavallo degli anni ’70 e ’80 sia ancora vivo protoplasma in divenire capace di vivificare e reinverarsi a distanza di quattro decenni nell’erlebnis della musica contemporanea. Come il titolo suggerisce, si è Immortali non perché immuni dalla morte o dal timore di quest’ultima (sia quella artistica che quella affettiva e materiale con cui Jarre si è dovuto confrontare all’arrivo del nuovo millennio con la perdita dell’ispirazione, il terzo divorzio e la scomparsa dei genitori e dell’editore Dreyfus) ma perché capaci di manipolare e piegare la percezione del tempo attraverso la continua e passionale modellazione del suono che pre-esiste ed è esso stesso misura del tempo.

In ogni caso, fino alla prossima primavera, a terminare per il momento è solo la prima colonna di questo pronao edificato davanti al tempio atemporale e sempre più affollato di un’ossessione trascendente e carnale chiamata “Elettronica”.

http://jeanmicheljarre.com/music/electronica

 
 
 
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